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Attualità

Nuovo intervento della Cassazione sulla chiarezza e comprensibilità delle clausole del contratto assicurativo

7 Aprile 2016

Giorgio Grasso, Of Counsel Simmons & Simmons LLP, dipartimento insurance

Cassazione Civile, Sez. III, 18 gennaio 2016, n. 668

Di cosa si parla in questo articolo

Sul favor interpretativo delle clausole contrattuali dei contratti assicurativi dal punto di vista del contraente, come parte “debole”, non sembra ci possano essere dubbi.

Non solo la recente giurisprudenza italiana ma anche quella della Corte di Giustizia propende in tal senso.

Ex multis, ricordiamo come recentemente la Corte di Giustizia Europea, nella causa 96/14, Jean-Claude Van Hove / CNP Assurances SA, con decisione del 23 aprile 2015, ha chiarito che le clausole riguardanti l’oggetto principale di un contratto assicurativo possano essere considerate redatte in modo chiaro e comprensibile non soltanto se chiare e grammaticalmente corrette, ma anche, e soprattutto, se espongono in modo preciso e trasparente il funzionamento concreto del meccanismo di assicurazione, tenuto conto dell’insieme contrattuale nel quale si inseriscono.

Nel caso di specie, i giudici erano chiamati ad esaminare un contratto di assicurazione di gruppo, volto a garantire la presa in carico delle rate dovute al mutuante, in caso di inabilità totale al lavoro del mutuatari. In particolare, i giudici europei si sono soffermati sull’analisi delle seguenti clausole: “a) la presa in carico delle rate dovute al mutuante dai mutuatari, in caso di decesso o di invalidità permanente e assoluta, o del 75% delle rate, in caso di inabilità totale al lavoro; b) l’assicurato è in stato di inabilità totale al lavoro qualora, alla scadenza di un periodo continuativo di interruzione dell’attività di 90 giorni (detto ‘periodo di attesa’), si trova nell’impossibilità di riprendere una qualunque attività retribuita o meno a seguito di un infortunio o di una malattia”.

Secondo il ricorrente, la clausola relativa all’ITT creava un significativo squilibrio a danno del consumatore, tanto più che la sua definizione era da ritenersi formulata in modo incomprensibile per il consumatore profano.

La Corte ha sancito, così, il principio secondo il quale il consumatore deve essere posto nella condizione di poter valutare, sul fondamento di criteri precisi ed intelligibili, le conseguenze economiche che derivano dal contratto di assicurazione; altrimenti la specifica clausola può essere considerata abusiva.

Nella valutazione dell’abusività di una clausola, è stato precisato che il giudice deve dapprima verificare che la stessa sia parte dell’oggetto principale del sistema contrattuale preso in considerazione. Ai sensi dell’art. 4, paragrafo II, dir. n. 13/93 CEE, le clausole rientranti nella nozione di oggetto principale del sistema contrattuale «sono quelle che fissano le prestazioni essenziali dello stesso e, come tali, lo caratterizzano»[1]. Sul punto, si ricorda come secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, una clausola può essere considerata delimitativa dell’oggetto qualora definisca «il contenuto ed i limiti della garanzia assicurativa specificando il rischio garantito»[2].

Una volta accertato quanto sopra, allora il giudice potrà procedere a verificare se la clausola sia stata redatta in maniera chiara e comprensibile[3].

Il contraente deve essere posto in grado di valutare, utilizzando criteri chiari ed intelligibili, le effettive conseguenze economiche che derivano dalla stipula del contratto di assicurazione. La clausola quindi sarà redatta in modo chiaro e comprensibile non solo ove possa essere ritenuta chiara grammaticalmente ma, anche e soprattutto, ove siano state fornite spiegazioni sul funzionamento del meccanismo al quale la clausola si riferisce, nonché la relazione tra tale meccanismo e le altre clausole contrattuali[4].

In un’altra recente pronuncia[5], la Corte di Giustizia si occupa di coordinare con il suddetto principio, le disposizioni minime in tema di assicurazione sulla vita, sottolineando che il consumatore deve essere informato in modo chiaro e preciso in merito alle caratteristiche essenziali dei prodotti che gli vengono proposti.

Nel processo a quo che ha dato vita alla pronuncia della Corte, era in discussione la mancata comunicazione all’assicurato, prima della sottoscrizione del contratto, di un riepilogo o di un’esposizione sintetica dei costi.

I giudici europei hanno stabilito che è compito dello Stato Membro stabilire quali informazioni supplementari l’assicuratore sia tenuto a comunicare al contraente: informazioni che devono essere chiare, precise e necessarie alla comprensione effettiva da parte del contraente degli elementi essenziali dell’impegno contrattuale e devono essere tali da garantire una sufficiente certezza del diritto, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

La Corte ha sancito, così, il principio secondo il quale il contraente deve essere posto nella condizione di poter valutare, sul fondamento di criteri precisi ed intelligibili, le conseguenze economiche che derivano dal contratto di assicurazione; altrimenti la specifica clausola può essere considerata abusiva.

Nella valutazione dell’abusività di una clausola, è stato precisato che il giudice deve dapprima verificare che la stessa sia parte dell’oggetto principale del sistema contrattuale preso in considerazione: una volta accertato ciò, procederà a verificare se la clausola sia stata redatta in maniera chiara e comprensibile.

Sul tema della certezza e della trasparenza del testo contrattuale, è intervenuta recentemente anche la nostra Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. III, 18.01.2016, n. 668).

In tale decisione, la Corte ha ribadito ed affermato che il contratto di assicurazione deve essere redatto in modo chiaro e comprensibile e che, in presenza di clausole polisenso, è inibito al giudice attribuire ad esse un significato pur teoricamente non incompatibile con la loro lettera, senza prima ricorrere all’ausilio di tutti gli altri criteri di ermeneutica previsti dalla disciplina del codice civile.

Il principio di diritto è stato enunciato dai giudici di legittimità relativamente ad una discussa controversia insorta in seguito alla distruzione di un’autoclave per la produzione del calcestruzzo, in uno stabilimento industriale, con consequenziali effetti disastrosi, primo tra i quali, il decesso di una persona.

Oggetto dell’esame della Corte era un contratto di assicurazione contro i danni che descriveva il rischio assicurato nei seguenti termini: “[…] sono oggetto dell’assicurazione i danni materiali alle cose assicurate causati da esplosione e scoppio, non causati da ordigni esplosivi […]”. Il rischio di scoppio era definito come un “repentino dirompersi di contenitori per eccesso di pressione interna di fluidi non dovuto a esplosione; gli effetti del gelo e del colpo d’ariete non sono considerati scoppio”. Il contratto, infine, escludeva l’indennizzabilità dei danni “alla macchina ed all’impianto nel quale si sia verificato uno scoppio, se l’evento è determinato da usura, corrosione o difetti di materiale […]”.

Tuttavia, nel corso dell’istruttoria era emerso che lo “scoppio” non era stato causato da una “eccessiva pressione interna” ma, più verosimilmente, da “un deficit strutturale del meccanismo di chiusura dell’autoclave”[6].

La Suprema Corte – ribaltando la decisione della Corte d’Appello – ha ritenuto che il danno fosse coperto dalla polizza, nonostante per i coassicuratori il danno fosse riconducibile ad un vizio di costruzione e/o cedimento strutturale (nella specie una “difettosa tenuta del portello di chiusura dell’autoclave”), in quanto il wording utilizzato nel contratto non appariva del tutto chiaro.

Ebbene, i giudici di legittimità hanno invece evidenziato che, in tema di assicurazione, l’inequivoca chiarezza è imposta dal secolare obbligo diuberrima bona fides gravante su entrambe le parti: espressione di tale obbligo erano, originariamente, gli artt. 1175 e 1375 c.c., ai quali si è affiancato successivamente l’art. 166 Codice delle Assicurazioni (“il contratto va redatto in modo chiaro ed esauriente”).

Nella fattispecie, i giudici di legittimità si sono soffermati sul significato della parola “eccesso” per chiarire che «Il lemma “eccesso” dal punto di vista della logica formale esprime un concetto relativo, non assoluto. Nulla, infatti, può essere “eccessivo” di per se’, ma può esserlo solo in relazione a qualcos’altro, che costituisca il termine di paragone”. Pertanto, sempre secondo la ricostruzione del giudice di legittimità, “il contratto non stabiliva in alcun modo se la pressione “eccessiva” fosse soltanto quella superiore al valore massimo tollerabile dal macchinario in condizioni normali di esercizio, ovvero potesse essere anche quella idonea a “dirompere” (come recita la polizza) un macchinario difettoso».

Pertanto, secondo gli ermellini, l’intenzione del contraente (n.b. imprenditore e non mero “consumatore”[7]) non poteva che essere quella di tutelarsi dall’evento “scoppio” tout court e non, semplicemente, quella – di gran lunga più ridotta – da uno “scoppio” causato da “eccessiva pressione interna di fluidi”. Altrimenti, prosegue la Corte, la clausola avrebbe dovuto affermare, con inequivoca chiarezza, che per “scoppio” doveva “intendersi l’eccesso di pressione rispetto a quella massima tollerabile in condizioni normali di esercizio”.

Per concludere, il principio fondamentale espresso dalla Corte di Giustizia prima e dalla Corte di Cassazione successivamente, consiste nello stabilire che se i compilatori delle polizze, unilateralmente predisposte, adottano soluzioni lessicali incerte o ambigue, imputet sibi, restando fermamente escluso che possano ricadere sull’assicurato le conseguenze della “modestia letteraria” o “dell’insipienza scrittoria dell’assicuratore”[8].

Ma se tale principio può apparire comprensibile, a parere di chi scrive, non deve travalicare il valore grammaticale e negare il valore del testo contrattuale. Se sussistono delle precise delimitazioni del rischio, e se risultano scritte in maniera chiara, dovrebbero pur sempre valere. Specialmente nei casi in cui il contraente sia una società di capitali (e non un singolo sprovveduto) che certamente potrebbe (e dovrebbe) esaminare con attenzione il relativo contratto.

Nel caso di specie, il termine “eccesso di pressione” avrebbe ben potuto essere interpretato come inteso dalla compagnia e, cioè, come “eccesso di pressione” rispetto alla “ordinaria” pressione ritenuta accettabile dal produttore dell’autoclave. Non restando, pertanto, che la via di un’azione di rivalsa nei confronti dell’azienda produttrice[9].

Ad ogni buon conto, alla luce della recente giurisprudenza, onde evitare di vedersi eccepire l’inoperatività di una limitazione, le compagnie dovrebbero prestare massima attenzione alla predisposizione di clausole sufficientemente chiare e precise, non solo utilizzando un testo grammaticalmente lineare, evitando di enunciare clausole generiche ed indefinite, ma fornendo ogni informazione supplementare prevista dall’ordinamento che sia chiara, precisa e necessaria alla comprensione, da parte del contraente, del contenuto effettivo della polizza[10].

In ogni caso, va riconosciuto che la materia può essere oggetto di discordanti interpretazioni, specie se si pensa al fatto che la chiarezza e la comprensibilità delle clausole può essere valutata in modo diverso a seconda del soggetto che le sottoscrive.

Ben rappresenta questa criticità una pronuncia di merito del Tribunale di Catanzaro che, nella sentenza del 1° aprile 2011, n. 962, non riconosceva la vessatorietà della clausola, in quanto il soggetto coinvolto (nel caso di specie, un direttore generale) possedeva il bagaglio tecnico per comprendere che, in base alle clausole previste dal contratto, non vi era operatività della copertura[11]. La ratio decidendi del caso concreto, dunque, non riconosceva un livello di asimmetria informativa tale per cui potessero operare le garanzie tipiche del rapporto di assicurazione stipulato con un consumatore[12]; questo campo del diritto si apriva, in tal modo, alla nozione del c.d. “terzo contratto”[13], ossia quel contratto «negoziato in ogni dettaglio da soggetti avvertiti, pienamente consapevoli del fatto di agire in un’arena ruvida, dove gli errori di programmazione si pagano a prezzo carissimo»[14].



[1] Landini, Oggetto oscuro e tutela del consumatore, in La nuova giurisprudenza civile, 10/2015. Nello stesso senso anche la recente giurisprudenza comunitaria, v. Corte Giustizia UE, 02.06.2010, sez. III, causa C-484/08, nonché Corte Giustizia UE, 30.04.2014, causa C-26/13. In ogni caso, come nota Landini, op. cit., «l’analisi di una clausola contrattuale, al fine di stabilire se essa rientri nella nozione di oggetto principale del contratto […] deve essere effettuata tenendo conto della natura, dell’economia generale e dell’insieme delle stipulazioni del contratto, nonché del suo contesto giuridico e fattuale». In tal senso anche Corte Giustizia UE, 30.04.2014, causa C-26/13. Tale principio è stato confermato anche dalla Corte di Cassazione che esprime il principio secondo cui, nell’interpretazione del contratto, la regola in claris non fit interpretatio non è applicabile in presenza di clausole che, pur chiare e comprensibili in sé, non siano coerenti con l’intenzione delle parti, come desumibile dal complesso e dall’economia generale del contratto (così Cass. Civ., sez III, 9.12.2014, n. 25840). Dunque, la valutazione della trasparenza e della chiarezza della clausola deve essere effettuata con riferimento all’economia generale del contratto, avendo riguardo della possibilità per il consumatore medio di comprendere il funzionamento del meccanismo cui la clausola si riferisce.

[2] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 10.02.2015, n. 2469; Cass. Civ., 28.10.2014, n. 2286; Cass. Civ., Sez. III, 26.06.2012, n. 10619.

[3] Così anche Corte Giustizia UE, 02.06.2010, sez. III, causa C-484/08, nonché Corte Giustizia UE, 30.04.2014, causa C-26/13.

[4] Landini, op. cit., si esprime molto chiaramente al riguardo evidenziando come «la mancanza di trasparenza apre non ad automatica vessatorietà e quindi nullità, ma a giudizio di vessatorietà rispetto a clausole (quelle delimitative dell’oggetto) che di norma sarebbero escluse dal controllo di vessatorietà».

[5] Corte Giustizia UE, sez. V, 29/04/2015, n. 51

[6] Le compagnie sostenevano che l’accaduto, oggetto d’indagini anche penali, non rientrasse nei rischi di cui alla polizza, perché non rappresentava uno scoppio previsto e coperto dalla medesima polizza, traendo origine dal mal progettato e realizzato sistema di chiusura di una delle autoclavi operanti nello stabilimento, che aveva ceduto prima del raggiungimento al suo interno della pressione ordinaria di esercizio.

[7] Per utilizzare una terminologia cara al codice del consumo.

[8] Tuttavia, sulla rilevanza dell’oscurità delle clausole la dottrina non si è espressa sempre in maniera univoca. Alcuni ritengono che la mancanza di chiarezza e comprensibilità porti al controllo sulla sostanza al fine di stabilire se la clausola sia anche squilibrata (così Sciancalepore, Clausole vessatorie, tutele individuali e collettive in dispute transfrontaliere, in Eur. e dir. priv., 1999, 1033). Altri, invece, ritengono che la scarsa chiarezza di una clausola comporti automaticamente la relativa nullità (Belelli, Il principio di conformità tra proposta e accettazione, 1992, 106-110).

[9] Da valutarsi, poi, se, ai sensi dell’art. 1906 c.c., i danni conseguenti al sinistro non sarebbero stati indennizzabili, perché di fronte ad uno scoppio determinato da un vizio intrinseco del bene, costituito dall’errata progettazione e realizzazione della ganascia cerchiante del relativo sistema di sicurezza, e, quindi, da un vizio della cosa assicurata.

[10] A tal proposito è opportuno richiamare Trib. Bari Sez. II, 16.06.2009 che esprime il principio secondo il quale, in base al noto brocardo in claris non fit interpretatio il chiaro tenore di una clausola contrattuale esclude la possibilità del ricorso alle clausole interpretative sussidiarie previste dagli artt. 1367 (interpretazione secondo buona fede) e 1370 (interpretatio contra stipulatorem) c.c.. Nel caso di specie, la polizza copriva ogni danno causato da eventi atmosferici di particolare violenza con esclusione dei danni derivanti da mareggiata e penetrazione di acqua marina ancorchè determinata da uno dei suddetti eventi atmosferici: il Tribunale rigettava la domanda diretta a conseguire il risarcimento dei danni subiti dall’immobile a seguito di una forte mareggiata proprio in ragione dell’estrema chiarezza della clausola, non suscettibile di alcun tipo di interpretazione estensiva.

[11] Il caso aveva ad oggetto un contratto di assicurazione per la responsabilità civile patrimoniale sottoscritto dal direttore di un’azienda sanitaria, con pattuizioni specifiche circa l’operatività temporale della copertura. Nello specifico, l’assicurazione si impegnava a tenere indenne il professionista per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta durante la vigenza del contratto a patto che tali richieste originassero da comportamenti colposi dell’assicurato avvenuti nei due anni precedenti la stipula del contratto, ma anche per richieste presentate nei cinque anni successivi alla scadenza dello stesso, purché riferite a fatti avvenuti durante la vigenza della polizza.

[12] Secondo una certa dottrina, nel concetto di consumatore possono rientrare anche le piccole imprese e le persone fisiche che svolgono attività professionali, reputate anch’esse idonee a beneficiare della tutela accordata ai consumatori. Quest’assunto si basa su una distinzione tra il c.d. atto della professione (che si distanzia dal concetto di atto di consumo) e atti relativi alla professione (che vengono realizzati nello svolgimento dell’attività professionale ma al di fuori della competenza specifica del professionista). Così Palmieri, La prassi contrattuale assicurativa fa i conti con le clausole abusive: perplessità e segnali incoraggianti, in Danno e resp., 2005, 933 e ss.; Sconditti, Clausole abusive nel contratto di assicurazione: il consumatore ha diritto al risarcimento del danno?, in Danno e resp., 2005, 941 e ss.

[13] Come sostenuto da Bruno, Tutela del consumatore e foro applicabile. Il terzo contratto, in Resp. civ. e prev., 2013, 1: «il terzo contratto dovrebbe contrassegnare l’ipotesi di un fenomeno prospetticamente residuale, che va definito per sottrazione degli ambiti occupati dal primo e dal secondo, rispettivamente il contratto di diritto comune, creato intorno alla disciplina generale consegnataci in origine dal Titolo II del Libro IV del Codice ed il contratto del consumatore, modello costruito progressivamente attraverso una serie di interventi e culminati nella disciplina oggi binaria, dettata dall’art. 1469 – bis c.c., attraverso il richiamo alle disposizioni generali, in quanto non derogate dalle norme del Codice del Consumo». Tale figura si è mostrata come «strumento valido agli interpreti, al fine di compensare un vuoto normativo, ascrivibile alla tutela dell’imprenditore debole e garantire in tal modo il raggiungimento delle finalità solidaristiche e di uguaglianza valorizzate dal nostro ordinamento – volte alla tutela dei soggetti deboli – in una visione costituzionalmente orientata». Gazzara, Contratto di assicurazione e tutela dell’aderente, in Resp. civ. e prev., 2011, 2 ha posto l’attenzione non tanto sull’aspetto riguardante l’asimmetria informativa quanto, piuttosto, sulla forza contrattuale delle parti. Malgrado, infatti, molti professionisti siano dotati di competenze atte a riconoscere le clausole abusive nei contratti, «ben difficilmente riusciranno a reperire sul mercato una polizza diversa e tanto meno a negoziare l’espunzione della clausola sgradita del regolamento contrattuale».

[14] Pardolesi, Introduzione a Colangelo, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti. Un’analisi economica e comparata, Torino, 2004. L’autore contrappone tale contratto a quello con i consumatori. Contrariamente, Gazzara, Contratto di assicurazione e tutela dell’aderente, op. cit., il quale sostiene che «tra l’estensione della tutela consumeristica a quella parte di contratto concluso per scopi professionali, e la negazione completa di essa, è da ritenersi preferibile la prima».

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