Con sentenza 9 maggio 2014 n. 10105, la Suprema Corte ha preso posizione su una serie di questioni riguardanti i trust interni[1] volti alla liquidazione dell’intero patrimonio del debitore.
La pronuncia si inserisce su una serie di precedenti sentenze di merito, nel cui ambito le corti hanno catalogato due tipi di fattispecie ed elaborato per ciascuna di esse una specifica regola operazionale.
Più nel dettaglio, nei Tribunali si è distinto a seconda che il trust liquidatorio comprensivo dell’intero patrimonio di chi dispone fosse istituito da debitore insolvente o meno.
Nel primo caso si è ritenuto che il trust fosse nullo ai sensi degli articoli 13 e 15 della Convenzione, in quanto capace di violare l’intera disciplina prevista dalla Legge Fallimentare, la quale sarebbe sottratta alla disponibilità degli attori del mercato[2].
Nel secondo caso, invece, si sono formati altri due orientamenti. Alcune corti di merito, infatti, hanno affermato l’applicabilità al trust delle regole con cui la Legge Fallimentare governa la sorte dei contratti pendenti (in particolare gli articoli 76, 77 e 78 di detta legge) al fine di attribuire al curatore dell’eventuale fallimento il potere di dissolvere il rapporto e rientrare nella disponibilità dei beni inclusi nel fondo amministrato dal trustee[3]. Il Tribunale di Milano, invece, in una situazione in cui il debitore parrebbe non aver istituito il trust liquidatorio in stato di insolvenza, ha osservato come gli effetti dell’atto istitutivo possano essere conservati soltanto laddove questo includa una clausola di salvaguardia in base alla quale, in caso di fallimento della società disponente, il fondo avrebbe dovuto essere trasferito in capo al debitore[4].
Trovatasi di fronte ai due filoni appena descritti, la Cassazione non si è discostata dal primo, e, cavalcando l’onda della nullità, ha affermato il principio secondo cui il trust liquidatorio istituito da debitore insolvente, quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi di impresa ovvero al fallimento, non sarebbe riconoscibile per violazione di norme imperative, ai sensi dell’art. 15, primo comma, lett. e) della Convenzione dell’Aja.
Pertanto, «il negozio non ha l’effetto di segregazione desiderata» e la sua inefficacia «non è esclusa né dal fine dichiarato di provvedere alla liquidazione armonica della società nell’esclusivo interesse del ceto creditorio (od equivalenti), né dalla clausola che, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, preveda la consegna dei beni al curatore». Secondo la Suprema Corte, dunque, il nostro sistema giuridico non può «fornire tutela ad un regolamento di interessi che, pur veicolato da negozio in astratto riconoscibile in forza di convenzione internazionale, in concreto contrasti con i fini di cui siano espressione norme imperative interne». Il trust istituito da debitore insolvente si pone «oggettivamente in contrasto con il principio di tutela del ceto creditorio» e «non consente il normale svolgimento della procedura a causa dell’effetto segregativo, il quale impedirebbe al curatore di amministrare e liquidare l’azienda e, in generale, i beni conferiti in trust».
Quindi, il giudice che dichiara l’insolvenza deve provvedere «incidenter tantum al disconoscimento del trust» e, «una volta accertata la non riconoscibilità, lo strumento» non produrrà effetti.
La sentenza è criticabile sotto due profili.
Il primo attiene alla sanzione del non riconoscimento quale conseguenza del primo comma dell’articolo 15 della Convenzione.
In particolare, come notato dal Tribunale di Bologna[5], l’articolo 15 (sulle norme imperative), come anche il 16 (sulle norme di applicazione necessaria) e il 18 (sull’ordine pubblico), muovendosi «sul campo degli effetti conseguenti al riconoscimento», si limita «ad escludere la produzione di certi specifici effetti contrastanti con particolari norme interne». In altre parole, tale norma, presupponendo il riconoscimento del rapporto, consente al giudice di applicare le regole inderogabili della lex fori che il trust sottoposto alla sua attenzione è capace di violare[6].
All’esito di simile attività interpretativa, l’Autorità Giudiziaria potrebbe comminare o meno la nullità del rapporto, la quale, secondo le regole generali del nostro ordinamento, può essere parziale o totale.
Nel secondo caso, l’effetto dell’applicazione delle norme indisponibili condurrà alla privazione completa degli effetti e sarà equivalente al mancato riconoscimento, che, nel linguaggio della Convenzione, è sinonimo dell’assenza di efficacia del trust in un ordinamento[7]. A quel punto, l’articolo 15, secondo comma, impone al giudice di provare a ricercare altri mezzi con cui dar corso allo scopo del trust.
Pertanto, i Giudici di legittimità, anche in considerazione delle precedenti sentenze di merito sopra richiamate, avrebbero forse più propriamente potuto riferirsi ad una nullità totale (ed equiparabile al mancato riconoscimento), da dichiararsi ai sensi del citato articolo 15 della Convenzione.
In tal caso, trovando applicazione il diritto italiano, dovrebbe con esso applicarsi lo statuto della nullità contemplato dal codice civile, inclusa la regola sulla trascrizione sanante disposta dall’articolo 2652 n. 6, che, come noto, detta una disciplina degli acquisti effettuati dai terzi in buona fede. Sul punto, rispetto al trust liquidatorio, rileveranno, e potranno essere salvi in conformità con la suddetta norma, i contratti di trasferimento di diritti su beni inclusi nel fondo conclusi dal gestore nell’ambito della sua attività di liquidazione.
Se invece l’insolvenza fosse stata effettivamente ritenuta un «ostacolo al riconoscimento» del trust, allora, per coerenza con il sistema introdotto dalla Convenzione, la Corte di Cassazione avrebbe dovuto colpire il trust liquidatorio dell’intero patrimonio del debitore insolvente con l’articolo 13, senza curarsi della derogabilità o meno della Legge Fallimentare, ma motivando l’applicazione di tale norma sotto il profilo di un utilizzo fraudolento del trust, formalmente lecito, ma capace di cristallizzare la posizione dei creditori. L’articolo 13, infatti, è il meccanismo predisposto dai Delegati all’Aja per impedire l’operatività (rectius il riconoscimento) di un trust interno che, pur non violando norme imperative, ordine pubblico e norme di applicazione necessaria, sia abusivamente impiegato al fine di sottrarre la situazione governata al normale funzionamento delle regole di conflitto del foro, dando luogo a effetti intollerabili per il sistema in cui è destinato ad operare.
In simile ipotesi, al rapporto non è concessa cittadinanza alcuna nel diritto italiano e, pertanto, quest’ultimo non può trovare applicazione, con l’inevitabile conseguenza che anche quei minimi effetti garantiti dallo statuto della nullità non parrebbero poter operare.
Allora, considerati questi due diversi regimi, la distinzione tra il mancato riconoscimento ex articolo 13 e la nullità totale ex articolo 15 della Convenzione non parrebbe così irrilevante né sul piano dogmatico, né su quello pratico, e utilizzare, seppur consapevolmente, in maniera fungibile, il disconoscimento, declamandolo tout court anche in caso di violazione di norme imperative, rischia di creare indesiderabili fraintendimenti.
Passando alla seconda criticità sopra evidenziata, questa consiste nell’elevazione delle norme previste dalla Legge Fallimentare al rango di norme imperative.
Infatti, secondo l’orientamento tendenzialmente maggioritario della dottrina e adottato da una recente pronuncia del Tribunale di Cremona[8], nell’ottica della riforma del diritto fallimentare e delle procedure concorsuali minori, può oggi ritenersi crollato il dogma dell’indisponibilità dell’insolvenza[9], basato sull’assunzione secondo cui la gestione tra privati della crisi dà luogo, inevitabilmente, a benefici per i creditori forti e pregiudizi per quelli deboli. Ne consegue che, attualmente, il debitore non avrebbe alcun obbligo di percorrere la strada concorsuale o di rimettersi ad un Giudice al fine di ottenerne il consenso rispetto ad un operazione di salvataggio dell’impresa in crisi (ex articolo 182 bis o 160 della Legge Fallimentare), ben potendo, come certa dottrina ritiene[10], adottare un piano di risanamento ex articolo 67 della Legge Fallimentare anche in caso di insolvenza (ricompresa nel più ampio concetto di crisi).
In secondo luogo, depone in favore della disponibilità dell’insolvenza la circostanza secondo cui, in nessun caso, nel nostro sistema giuridico, essa è in grado di privare di effetti un atto, anche laddove lo stesso sia utile a spogliare definitivamente dei beni colui che lo perfeziona, distraendoli dai propri personali creditori.
In conclusione, se l’insolvenza rientra nella disponibilità del debitore e dei suoi creditori, non sarà l’articolo 15 a poter rimuovere l’operatività del trust, il quale, tuttavia, come sopra accennato, laddove ne ricorrano i presupposti, potrà essere disconosciuto attraverso l’articolo 13 della Convenzione e, in ogni caso, i relativi atti di disposizione potranno essere resi relativamente inefficaci dai creditori del disponente attraverso l’esercizio dell’azione azione revocatoria ordinaria o fallimentare.
Da ultimo, occorre ancora sottolineare come, nella sentenza in commento, un obiter dictum della Suprema Corte assuma significativa rilevanza non soltanto con riferimento ai trust liquidatori, ma, più in generale, con riferimento ai requisiti in presenza dei quali deve ritenersi legittimo il ricorso al modello anglo-americano.
Alcune corti di merito[11], infatti, hanno osservato come il riconoscimento del trust (secondo l’articolo 13 della Convenzione) sia subordinato ad un suo impiego in via residuale rispetto agli istituti civilistici. In altre parole, la possibilità di scelta di una legge straniera sarebbe limitata dalla fungibilità del trust con gli strumenti noti nel nostro sistema in funzione del perseguimento di un determinato obiettivo economico. In questa prospettiva, sarebbero riconoscibili i soli trust portatori di un valore aggiunto rispetto ai modelli catalogati dal codice civile.
La Cassazione, tuttavia, dubita della sussistenza di simile principio, consolidando l’indirizzo intrapreso da due provvedimenti del Tribunale di Urbino[12]. Quest’ultimo, in particolare, negando la possibilità di «affermare in via pretoria il principio della prevalenza del tipico sull’atipico», ha osservato come l’autonomia contrattuale abbia una duplice portata, in quanto consente non solo l’adozione di modelli atipici, purché assistiti da causa lecita («intesa come scopo pratico perseguito dai contraenti, così dovendosi intendere il requisito della realizzazione di “interessi meritevoli”») ma permette anche di scegliere «tra modelli negoziali aventi analoga portata effettuale, siano essi tipici o atipici».
La tesi è assolutamente condivisibile e può trovare conforto in ulteriori considerazioni[13], le quali inducono a concludere in favore dell’ esclusione dell’impiego residuale e dell’utilità aggiuntiva quali requisiti per il riconoscimento del rapporto del nostro sistema.
Peraltro, la mancanza di residualità potrebbe rivelarsi un caso di scuola, nel senso che – riterrei – quando correttamente impiegato, il trust è sempre capace di garantire un valore aggiunto ai soggetti coinvolti, rispetto a quanto siano in grado di assicurare i modelli civilistici. Altrimenti, sarebbe difficile da spiegare la sua continua diffusione, ad opera di diversi formanti del diritto, in sistemi giuridici da sempre fondati su dogmi che l’istituto di common law infrange e per il quale si enuclea puntualmente un’eccezione.
Dunque, la ricerca della (mancanza di) residualità potrebbe risultare del tutto sterile e rischiare di essere utilizzata a supporto di tentativi finalizzati a pervenire, in maniera del tutto arbitraria e strumentale, ad un diniego del riconoscimento, in violazione degli obblighi assunti dal nostro sistema giuridico con la ratifica della Convenzione.
[1] Si tratta, come noto di quei trust veicolati nel nostro ordinamento dalla Convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento il cui unico elemento di estraneità è rappresentato dalla legge straniera che li regola.
[2] Si veda Corte d’Appello di Milano, 29 ottobre 2009, la quale decide una vicenda in cui sono intervenute più pronunce (Tribunale di Milano, 16 giugno 2009, annotata da Di Maio, Il trust e la disciplina fallimentare: eccessi di consenso, in Dir Fall., 2009, 498; Tribunale di Milano, 17 luglio 2009 che conferma il precedente ed è scaricabile da www.ilcaso.it; e Tribunale di Milano 22 ottobre 2009, in Riv. dir. priv., 2010, con nota di Fiorani, Trust liquidatorio e tutela dei creditori, in Riv. dir. priv., 2010, 127.); Tribunale di Milano 29 ottobre 2010, in Trusts e att. fid., 2011, 146, il quale ritiene che la nullità debba essere ricondotta all’articolo 1418 c.c.; Tribunale di Mantova, 18 aprile 2011, scaricabile da www.ilcaso.it; Tribunale di Bolzano, 8 aprile 2013, in Trusts e att. fid., 2014, 49. In dottrina, Raganella-Regni, Il trust liquidatorio nella disciplina concorsuale, in Trusts e att. fid., 2009, 598; Tedioli, Trust con funzione liquidatoria e successivo fallimento dell’impresa, in Trusts e att. fid., 2010, 494; Dimundo, «Trust interno» istituito da società insolvente in alternativa alla liquidazione fallimentare, in Fall., 2010, S, 3; Panzani, Il trust nell’esperienza giuridica italiana: il punto di vista della giurisprudenza e degli operatori, Nuovo dir. soc., 2010, 7.
[3] Tribunale di Milano, 29 ottobre 2010, in Guida al dir., 2011, 75e Tribunale di Milano, 16 giugno 2009, pubblicata nelle riviste citate alla precedente nota.
[4] Tribunale di Milano, 29 ottobre 2010, cit.
[5] Tribunale di Bologna, 1 ottobre 2003, n. 45451, in La giurisprudenza italiana sui trusts, Milano, 2006, 216
[6] Lupoi, Trusts, Milano, 2001, 544.
[7] Si veda l’articolo 15, secondo comma, della Convenzione dell’Aja.
[8] Tribunale di Cremona, 8 ottobre 2013, in www.dirittobancario.it.
[9] Frascaroli Santi, Gli accordidi ristrutturazione dei debiti, un nuovo procedimento concorsuale, Milano, 2009, 82. Si vedano inoltre, Lombardi, Le recenti ristrutturazioni del debito: il caso Risanamento, in Corr. giur., 2010, 694; Rovelli, I nuovi assetti privatistici nel diritto societario e concorsuale e la tutela creditoria, in Fall., 2009, 1034; Rovelli, Il ruolo del trust nella composizione negoziale dell’insolvenza di cui all’articolo 182-bis legge fallimentare, in Fall., 2007, 595; Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti di “salvataggio” (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), in Riv. dir. priv., 2007, 284; A. Patti, L’accelerazione delle soluzioni concordate: esperienze applicative, in Fall., 2010, 1101; D’Ippolito, L’esperto nelle procedure di composizione della crisi d’impresa e il regime di responsabilità, in Resp. civ. e prev., 2012, 1859; Cavallini, L’impresa, la crisi, il giudice, in Riv. soc., 2012, 760; Galletto, Il trust a scopo di garanzia e le nuove prospettive nell’ordinamento interno, in Nuovo dir. soc., 2012, 8, 50. Per contro, è orientato nel senso di ritenere che l’insolvenza non sia disponibile Dimundo, Pactum de non petendo e insolvenza, in Fall., 1996, 9, 905.
[10] Il dibattito è particolarmente vivo. Si vedano Bonfatti, La disciplina dell’azione revocatoria nelle procedure di composizione negoziale delle crisi di impresa, in La disciplina dell’azione revocatoria, Milano, 2005, 142; Bonfatti-Casali-Falcone, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in La riforma organica delle procedure concorsuali, a cura di S. Bonfatti e L. Panzani, Milano, 2008, 246; Bordiga, Il piano attestato di risanamento ex articolo 67, comma 3º, lett. d), l. fall., scaricabile da www.unicatt.it/dottorati/dirittocommerciale, 3-4; Sanzo, Il piano di risanamento attestato, in Giur. it., 2010, 2473.
[11] Si vedano Tribunale di Napoli, 19 novembre 2008, in Banca borsa tit. cred., 2010, 56 e Tribunale di Reggio Emilia, 14 marzo 2011, cit., con nota di Zanchi, In tema di trust liquidatorio. Più nel dettaglio si veda il mio Il debitore «civile» e «commerciale» tra accordi di ristrutturazione e trust, in Contr. e impr., 2013, 120 e ss.
[12] Si vedano i due provvedimenti, recanti la medesima data, Tribunale di Urbino, 11 novembre 2011, in Trusts e att. fid., 2012, p. 401 e p. 406.
[13] Ho già espresso più di un dubbio sulla necessità dell’impiego residuale del trust, ritenendo che non sia un principio operante nel nostro ordinamento. Si veda il mio Il debitore «civile» e «commerciale» tra accordi di ristrutturazione e trust, cit., 120 e ss.