Il contenzioso giudiziario tra enti locali e banche ha segnato un altro importante traguardo con il deposito, avvenuto lo scorso 3 giugno, delle motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Milano relativa alla nota vicenda del comune di Milano. Tale sentenza ha ribaltato il giudizio di primo grado del 2012, assolvendo dalla condanna per truffa le banche (UBS, Deutsche Bank, Depfa Bank e Jp Morgan) ed i rispettivi managers. La Corte d’Appello milanese, utilizzando la più ampia formula assolutoria possibile, ha affermato che “il fatto non sussiste” e che, quindi, gli operatori finanziari non hanno posto in essere nessuna “fraudolenta attività di bancari e banchieri”.
Ricordiamo brevemente la vicenda: la sentenza di primo grado ha riconosciuto la truffa effettuata dalle banche ai danni del comune che avevano sostenuto, con l’inganno, che l’operazione di ristrutturazione dell’indebitamento risultava “conveniente economicamente” sulla base dall’allora vigente art. 41 della Legge n. 448/2001. Tale operazione è stata effettuata dalle banche con l’emissione di un bond trentennale e la contestuale sottoscrizione di uno swap funzionale a trasformare il tasso fisso in un tasso variabile. In particolare, le banche venendo meno ai loro doveri di trasparenza e gestione dei conflitti d’interesse avrebbero alterato il giudizio sul valore della convenienza economica dell’operazione nascondendo i costi impliciti dei derivati ed escludendo dal calcolo il valore negativo del mark-to-market di un precedente derivato stipulato con Unicredit.
La sentenza della Corte d’Appello, da più parti criticata perché risulta “particolarmente favorevole” al sistema bancario, deve essere valutata e contestualizzata rispetto alla natura penale della fattispecie in esame per cui occorreva verificare la sussistenza del reato. La Corte milanese affronta, inoltre, altri aspetti connessi all’utilizzo di derivati da parte degli enti locali che meritano di essere commentati. Emerge chiara la necessità di re-introdurre dei presidi quantitativi come la costruzione di scenari probabilistici, informativa introdotta dalla Consob ai tempi di Luigi Spaventa, con cui rendere nota la probabilità di realizzare un guadagno, una perdita o un “pareggio” a seguito di ciascuna operazione finanziaria.
Con riguardo all’aspetto penale, senza scendere in dettagli giuridici che richiederebbero competenze che non mi appartengono, il giudice ha elaborato un’articolata ricostruzione del concetto di convenienza economica, introducendo per via interpretativa una distinzione tra ciò che rileva ai fini civili e ciò che rileva ai fini penali. Dal punto di vista penale (e quindi per il reato di truffa) non sono significative le valutazioni prospettiche (che, come meglio specificato dopo, sono necessarie in fase di decisione) ma la sussistenza ex post di un danno certo derivante dal derivato ovvero l’accertamento di un profitto ingiusto. In questa logica, certamente ha giocato un ruolo determinante nelle convinzioni del giudice d’appello il fatto che, come si legge nella stessa sentenza, “nel marzo dell’anno 2012 – a processo penale ancora in corso – […] a mezzo di una transazione raggiunta anche con il supporto di consulenti finanziari e di avvocati difensori – il Comune di Milano rinunciava alla costituzione di P.C. chiudendo definitivamente il contenzioso con le Banche, aperto anche davanti al giudice civile che l’Ente comunale aveva adito con atto di citazione del 23 gennaio 2009” e “proprio la struttura collar che si assume truffaldina per essere stata genesi dei relativi COSTI IMPLICITI veniva anticipatamente chiusa con un profitto – questa volta reale e non certo virtuale determinato in forza dell’ultima operazione di mark to market – di 450 milioni di €a favore del Comune di Milano”.
Molto interessanti le considerazioni espresse sulle informazioni necessarie all’ente territoriale in fase di individuazione del tipo di finanziamento da assumere in presenza di strumenti finanziari derivati. Secondo il giudice il Comune per poter assumere in modo consapevole la propria decisione doveva avere la disponibilità e la capacità di valutare – in autonomia o con l’ausilio di advisor indipendenti – tutte le informazioni funzionali a valutare la convenienza economica dell’operazione.
Ma a quali informazioni fa riferimento il giudice d’Appello? Nel dispositivo si afferma che gli enti territoriali con “la sinergia di professionalità interne ovvero un consulente/advisor esterno […] procederà, in principalità, all’analisi del rischio basandosi sull’utilizzo degli stessi metodi statistico-matematici dei quali si servono anche gli intermediari finanziari e che, prescindendo da valutazioni soggettive sulle possibili evoluzioni future delle variabili di riferimento, partono dalla situazione corrente di mercato alla data di valutazione di convenienza (ragionando, come suol dirsi, in termini di trend delle quotazioni forward e rischi attesi, o volatilità implicite) per poi giungere a stimare sia il C.d. Fair Value Risk (cioè la distribuzione di probabilità del fair value dei derivati a distanza degli anni), sia il C.d. Cash Flows Risk (cioè la distribuzione di probabilità dei flussi di cassa che tali contratti genereranno per tutta la loro durata)”. In sintesi, il giudice aderisce in modo convinto alla tesi che vede nell’approccio quantitativo l’unico modo per consentire ad un ente territoriale la possibilità di assumere decisioni realmente consapevoli. Le informazioni che devono guidare i comportamenti degli enti territoriali sono identificate, in modo inconfutabile, nel fair value al momento della stipula del contratto e nella valutazione dei possibili flussi di cassa futuri misurati mediante gli scenari probabilistici.
Certo alcuni passaggi della sentenza creano confusione sulla valutazione dello strumento utilizzato. Il giudice sostiene che “la valutazione della convenienza economica […] sia prevista soltanto in relazione alle operazioni di conversione del debito (o per maggior precisione alla conversione di mutui precedentemente contratti) mentre non deve essere ripetuta in occasione delle eventuali revisioni del derivato che su tale debito eventualmente insistono”. Ciò porterebbe a trattare il derivato come uno strumento indipendente dal suo sottostante, in contraddizione con la definizione dello stesso: “i derivati sono strumenti finanziari cui valore deriva dai prezzi di attività scambiate sui mercati”. Da un punto di vista tecnico il fair value o valore equo di qualsiasi operazione finanziaria (di finanziamento o di investimento) viene calcolato solo mediante la valutazione dei possibili flussi di cassa generati da tale operazione, flussi di cassa che devono tener conto delle possibili dinamiche delle varie componenti dell’ingegneria finanziaria e efficacemente descritte dagli scenari probabilistici.
Passando poi al tema su chi debba avere la responsabilità di valutare la convenienza economica dell’operazione il giudice d’Appello sembra non avere dubbi. Nella sentenza si legge che “non sarebbe dovuto accadere che un Ente territoriale, e non un minuscolo Comune di periferica provincia bensì il cuore economico pulsante della Nazione […] giungesse al perfezionamento dell’operazione in strumenti finanziari […] senza il supporto e l’ausilio di un advisor indipendente per la componente economico finanziaria […] e vi giungesse consapevolmente, per libera scelta, nella più che legittima convinzione di avere al proprio interno professionalità all’altezza dell’arduo compito per poi prospettare – contro ogni logica giuridica ma anche d’elementare buon senso – che il ruolo di consulente «indipendente e di fatto» lo dovesse svolgere la controparte negoziale. Allo scopo di accampare infedeltà contrattuali, conflitti di interesse ed invocare tutele d’affidamento prive di ogni costrutto”. Il giudice richiama gli amministratori del bene pubblico alle proprie responsabilità constatando che questi hanno trascurato il conflitto di interesse in capo agli intermediari finanziari che rivestivano anche il ruolo di controparti degli strumenti derivati connessi alle operazioni di rifinanziamento. Secondo il giudice il conflitto di interessi risulta in queste circostanze magnificato perché è evidente che gli intermediari “perseguono il proprio oggetto sociale facendo profitti”. Per questo nella sentenza si insiste sulla necessità del ricorso alla “figura di un consulente indipendente […] al contempo dotato di approfondite competenze finanziarie [che] non deve essere considerato una discrezionale opportunità a piacimento ma un vero e proprio obbligo” quale ulteriore presidio per ridurre le asimmetrie informative che caratterizzano la relazione tra enti territoriali ed intermediari finanziari.
Questa posizione è de facto condivisibile ma richiede, a mio avviso il prima possibile, una revisione del quadro normativo comunitario esistente che attribuisce, invece, proprio all’intermediario/controparte (in conflitto d’interesse) il ruolo di consulente (ovviamente non indipendente e non imparziale) su cui fare affidamento. In questo contesto è fondamentale fornire un’adeguata informazione in fase pre-contrattuale, come ad esempio gli scenari probabilistici, sulla trasparenza dei rischi associati alle varie operazioni finanziarie (strumenti strutturati, obbligazioni e derivati).
Purtroppo, alcuni interventi normativi in fase di emanazione non sembrano seguire tale direzione. Ad esempio la consultazione avviata dalla Consob “sulla distribuzione di prodotti finanziari complessi presso la clientela al dettaglio” in cui si prospetta di vincolare la vendita di alcuni prodotti finanziari complessi ad un servizio di consulenza c.d. “evoluta” non si preoccupa di risolvere il problema del conflitto di interesse nel caso ci sia identità tra emittente e distributore. O ancora il tentativo di inserire nel Decreto Legge Spending Review un emendamento bipartisan (fortunatamente non approvato nella versione definitiva della legge) con il quale si volevano trasformare i promotori finanziari (legati da un vincolo di mono mandato) in consulenti finanziari; modifica che avrebbe contribuito a fare grande confusione con la figura dei consulenti finanziari indipendenti.
E sul tema specifico degli enti locali una recente legge consente alle Regioni italiane, sotto la supervisione del MEF, di rinegoziare con lo Stato le proprie passività finanziarie previa chiusura dei derivati, laddove esistano. La rimozione di tali strumenti non eliminerebbe il problema della corretta valutazione degli strumenti finanziari in generale che ha solo bisogno dell’adozione di criteri di valutazione accurati come quelli basati sull’approccio probabilistico.
La vicenda dei derivati sottoscritti dagli enti territoriali è ancora lontana dal trovare una definizione, ma alcuni punti fermi si vanno affermando nelle varie decisioni della giurisprudenza italiana, come la necessità dei presidi quantitativi ed in particolare del fair value e degli scenari probabilistici. Ovviamente, mi auguro che le argomentazioni della sentenza possano rappresentare una guida verso il ricorso a professionalità indipendenti ed alla corretta quantificazione, usando le stesse parole del giudice d’appello, del Fair Value Risk e del Cash Flows Risk.