Premessa
Negli ultimi anni, in più occasioni l’Italia ha acquisito – attraverso le procedure di scambio previste a livello eurounitario – elenchi di nominativi di soggetti titolari di attività finanziarie depositate in Paesi con tassazione favorevole e che garantiscono (o meglio, garantivano) l’anonimato ai propri correntisti.
In principio vi fu la Lista Falciani, sottratta da un dipendente all’istituto di credito HSBC e venduta nel 2008 allo Stato francese, il quale la condivise con altri Paesi (tra cui l’Italia). Seguirono poi il caso dei Panama Papers, dove dati confidenziali detenuti dalla law firm panamense Mossack Fonseca furono consegnati al Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi, e quello dei Paradise Papers, in cui a essere condivisi furono documenti riservati dello studio legale Appleby, con sede nelle Isole Bermuda.
Recentemente, si è appreso che l’Italia – per il tramite dell’Agenzia delle Entrate – ha fatto richiesta alla Germania di poter entrare in possesso di una lista (nota come Lista Dubai), contenente dati e informazioni di titolari di conti correnti aperti presso gli Emirati Arabi. Questa Lista, tuttavia, si inserisce in un contesto ben diverso – sia dal punto di vista fattuale, che normativo – rispetto a quello in cui erano circolate le prime, consentendoci di condividere alcune riflessioni circa l’impatto che la Lista Dubai potrà avere sui contribuenti italiani, in ipotesi indicati nell’elenco.
Utilizzabilità
In occasione del caso Falciani si era posto il tema dell’utilizzabilità, nell’ambito di procedimenti amministrativi e penali, di documenti estratti dai database degli istituti di credito. In quella circostanza, come detto, lo Stato francese, dopo aver acquisito i dati da un soggetto privato – che fu indagato dal Tribunale penale federale elvetico proprio in relazione all’acquisizione illecita di tale documentazione – li trasmetteva all’autorità italiana, ai sensi della Direttiva 77/799/CEE del 19 dicembre 1977.
Con riferimento all’accertamento tributario, sin dal 2015 la giurisprudenza di legittimità si è mantenuta costante nel ritenere “utilizzabili, nel contraddittorio con il contribuente, i dati bancari acquisiti dal dipendente infedele di un istituto bancario, senza che assuma rilievo l’eventuale reato commesso dal dipendente stesso e la violazione del diritto alla riservatezza dei dati bancari (che non gode di tutela nei confronti del fisco)” (Cass. civ., sez. VI, nn. 8605/2015 e 8606/2015). Secondo la Corte, infatti, l’Amministrazione finanziaria, nella sua attività di accertamento della evasione fiscale può – in linea di principio – avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche acquisito in modo irrituale, con la sola esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una disposizione di legge o dal fatto di essere stati acquisiti dall’Amministrazione in violazione di un diritto del contribuente e salvi i casi in cui venga in considerazione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, quali l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (anche Cass. civ., sez. trib., n. 24923/2011). Da ciò “ne consegue che sono utilizzabili, anche nel contenzioso con il contribuente, i dati bancari, ottenuti mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria, dal dipendente di una banca residente all’estero, il quale li abbia acquisiti trasgredendo i doveri di fedeltà verso il datore di lavoro e di riservatezza, privi di copertura costituzionale e tutela legale nei confronti del fisco italiano” (Cass. civ., sez. trib., nn. 16950/2015 e 16951/2015).
Nell’ambito del procedimento tributario, negli ultimi anni, si è inoltre giunti a sostenere che gli elementi contenuti nella Lista Falciani non solo siano utilizzabili, ma siano anche “sufficienti a fondare la pretesa del fisco in quanto anche un solo indizio può giustificare la rettifica, purché lo stesso sia grave e preciso, ovvero caratterizzato dall’alta valenza probabilistica connessa alla provenienza interna dei dati bancari” (Cass. civ., sez. VI, n. 3276/2018).
La Corte, infatti, ha già riconosciuto in termini generali “l’attendibilità complessiva dei dati bancari tratti dalla “Lista Falciani”, confermata dalle circostanze che ne hanno reso illecita la provenienza” (Cass. civ., sez. VI, n. 9760/2015), ritenendo quindi che “la mancata denuncia di depositi svizzeri emersi dalla Lista Falciani può da sola costituire quell’indizio di evasione fiscale (e quindi di maggiori redditi) che, se non efficacemente contrastato e smentito dal contribuente, basta a provare l’esistenza di somme volontariamente sottratte a tassazione” (Cass. civ., sez. trib., n. 31085/2019).
Tuttavia, la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 8605/15 sopra citata (richiamata anche dalle più recenti Cass. civ., sez. trib., n. 33223/2018 e Cass. civ., sez. trib., n. 31085/2019), ha inteso sottolineare sin da subito la “netta differenziazione fra processo penale e processo tributario, secondo un principio – sancito non soltanto dalle norme sui reati tributari (D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 12, successivamente confermato dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20), ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale”.
Vi sarebbe dunque un diverso grado di tutela, derivante dal fatto che nell’ordinamento tributario non si rinviene una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 191 c.p.p., a norma del quale “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”.
Una delle violazioni che può venire in rilievo, ai fini dell’inutilizzabilità di materiale informatico acquisito in fase di indagini (ad esempio nel corso di attività di perquisizione e sequestro), è quella relativa all’art. 352, comma 1-bis, c.p.p., che richiede modalità di apprensione approntate a canoni di genuinità e immodificabilità. Tuttavia, quando l’attività di acquisizione avviene in territorio estero da parte della polizia straniera, nell’ambito di sue proprie indagini, trova applicazione la lex loci e l’utilizzazione degli atti non ripetibili acquisiti al fascicolo per il dibattimento non è condizionata all’accertamento, da parte del giudice italiano, della regolarità degli atti compiuti dall’autorità straniera, vigendo la presunzione di legittimità dell’attività svolta e spettando al giudice straniero la verifica della correttezza della procedura e l’eventuale risoluzione di ogni questione relativa alle irregolarità riscontrate (cfr. Corte d’Appello di Milano, sez. II pen., n. 286/2019; Cass. pen., sez. II, n. 24776/2010; Cass. pen., sez. IV, n. 18660/2004).
Con specifico riferimento alla Lista Falciani, le prime pronunce del giudice penale evocarono, quindi, la violazione dell’art. 240, comma 2, c.p.p. relativo ai “documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni” (perché oggetto di attività di accesso abusivo ad un sistema informatico ex art. 615-ter c.p. e trattamento illecito di dati personali ex d. lgs. n. 196/2003).
Nel 2011, ad esempio, il Giudice per le indagini preliminari di Pinerolo, “in assenza di altri elementi di prova e/o possibilità di loro acquisizione”, disponeva l’archiviazione e la distruzione dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti l’illegale raccolta di informazioni in danno dell’indagato, ritenendo indubbio “che i documenti in questione siano stati “formati attraverso la raccolta illegale di informazioni”, trattandosi della stampa di filescontenuti in un sistema informatico riservato nel quale il Falciani si è abusivamente introdotto contro la volontà espressa o tacita di chi aveva diritto ad escluderlo (o, ammesso che fosse autorizzato all’accesso ai dati, quanto meno si è abusivamente trattenuto nel sistema nel momento in cui ha attuato la decisione di copiare i files per fini diversi da quelli relativi allo svolgimento delle sue mansioni), così integrando, secondo il più recente e condivisibile orientamento giurisprudenziale (v. Cass., Sez. V, sent. 18.1.2011 n. 24583) il reato di cui all’art. 615-terc.p. (è peraltro certamente sussistente anche il reato di appropriazione indebita aggravata di documenti ai sensi degli artt. 646 e 61 n. 11 c.p.)” (Tribunale di Pinerolo, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, 4 ottobre 2011).
Tale posizione fu, tuttavia, rivista dalla Suprema Corte, che l’anno successivo – nell’ambito di un altro procedimento penale, sempre avente ad oggetto dati estratti dalla Lista Falciani – statuiva che “l’illecita provenienza della c.d. Lista Falciani è un giudizio che deve essere dato alla luce degli atti processuali, per cui se tra di essi non vi sono prove di illiceità nulla osta al suo utilizzo” (Cass. pen., sez. III, n. 38753/2012).
In particolare, la Corte riteneva del tutto lecita l’acquisizione della Lista da parte degli organi investigativi italiani (essendosi questi avvalsi sia delle forme di cooperazioni internazionale previste dalla Direttiva 77/799 CEE del 19/12/1977, sia della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Francia il 5/10/1989 e ratificata con la legge n. 20/1992) e riconosceva l’assenza in atti di elementi che potessero dimostrare con certezza l’illiceità delle modalità di acquisizione della Lista da parte delle autorità francesi. Veniva sottolineata, quindi, la logicità del percorso argomentativo del giudice del merito, che, in quel caso, era basato “esclusivamente sulla documentazione presente negli atti del fascicolo, tralasciando sia gli articoli di stampa sia decisioni di altri giudicanti, osservando sotto quest’ultimo profilo che detti provvedimenti danno per scontata l’illiceità della acquisizione di documenti sulla base di atti che non risultano confluiti nel presente procedimento”. Brevemente: finché non fosse stata accertata l’illegittima della Lista, le sue informazioni sarebbero state utilizzabili.
Nel 2015, bypassando il tema illegittimità presunta/illegittimità accertata e facendo applicazione del principio male captum bene retentum, il Tribunale di Novara riteneva che la documentazione sarebbe stata formata in modo legittimo “da un istituto di credito sulla base delle informazioni fornite dai correntisti, nello svolgimento di una regolare attività di raccolta del risparmio ed esercizio del credito” e poi trasmessa spontaneamente dalle autorità francesi a quelle italiane in forza di accordi di cooperazione tra Stati, al di fuori di richieste rogatoriali.
Chiarita dunque l’evoluzione giurisprudenziale, si osserva che nel caso della Lista Dubai si porrebbe in astratto un tema ulteriore rispetto a quello di Hervè Falciani, dal momento che – per quanto ad oggi è dato sapere – l’odierno informatore sarebbe ancora anonimo.
Sulla base dell’orientamento dottrinale e giurisprudenziale che ritiene l’art. 240, comma 1, c.p.p. espressione di un principio assoluto (non applicabile, dunque, unicamente ai documenti aventi contenuto dichiarativo), potrebbe infatti essere sostenuta l’inutilizzabilità di questa prova precostituita, di cui non sia rintracciabile la sostanziale paternità (Corte appello Milano, 1° novembre 2004; Cass. pen., sez. I, n. 461/2001). Anche in questo caso, ragionevolmente, il divieto probatorio cadrebbe non appena al documento venisse in qualsiasi modo attribuita paternità.
Se si accogliesse questa impostazione, andrebbe tenuto in considerazione anche il principio espresso dalla Corte di Cassazione, secondo cui “il documento anonimo non soltanto non costituisce elemento di prova, ma neppure integra notitia criminis, e pertanto del suo contenuto non può essere fatta alcuna utilizzazione in sede processuale. L’unico effetto degli elementi contenuti nella denuncia anonima, infatti, può essere quello di stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possono ricavarsi gli estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis” (ex multis Cass. pen., sez. IV, n. 39028/2016).
I temi sopra esposti meriterebbero, dunque, di essere attentamente valutati, al fine di scongiurare un utilizzo patologico di un documento di potenziale provenienza illecita e di dubbia attendibilità.
Tuttavia, con riferimento al caso di attualità, bisogna tenere in considerazione un dato di rilevanza centrale: il Paese da cui l’Italia è ora interessata ad acquisire dati, fin dal 2018 ha iniziato a scambiare informazioni attraverso il Common Reporting Standard. La Guardia di Finanza, dunque, potrebbe avviare indagini finanziarie sia nominative che di gruppo, inoltrando richieste direttamente agli intermediari finanziari di Dubai, in accordo con la quarta direttiva antiriciclaggio (recepita in Italia con il d.lgs. n. 190/2017).
Profili di rilevanza penale
Come appena visto, dunque, dall’analisi dei dati e delle informazioni contenuti nella Lista Dubai potrebbero emergere spunti investigativi, idonei a stimolare l’attività del Pubblico Ministero e della polizia giudiziaria. Senza poter – in questa sede – effettuare un’analisi degli innumerevoli casi che le precedenti Liste hanno fatto emergere (dai reati fiscali dei contribuenti italiani, a operazioni di riciclaggio del denaro provento dei più svariati delitti, fino alle non infrequenti ipotesi di reato poste in essere dal management aziendale a danno delle società), appare utile offrire qualche indicazione, di carattere generale, relativa ad alcune novità normative.
Come noto, dai tempi della Lista Falciani molti contribuenti italiani hanno regolarizzato la propria posizione, avvalendosi della procedura di collaborazione volontaria (meglio nota come voluntary disclosure), attraverso la quale è stato possibile denunciare spontaneamente all’Amministrazione finanziaria la violazione degli obblighi di monitoraggio (per coloro che detenevano illecitamente patrimoni all’estero) o ogni altra violazione di obblighi dichiarativi.
Chi non optò per la regolarizzazione, potrebbe aver scelto di spostare le proprie attività finanziarie da giurisdizioni diventate collaborative (quali la Confederazione Svizzera o Montecarlo) verso altre realtà black list (come – per quanto qui di interesse – Dubai, la quale avrebbe iniziato a scambiare informazioni solo nell’anno 2018).
Rispetto a tali condotte, andrà innanzitutto valutata l’ipotesi che tale trasferimento possa essere sussunto nella fattispecie di autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.), introdotto proprio dalla legge n. 186/2014 (la stessa che per prima ha previsto la procedura di voluntary disclosure). Il monito lanciato al contribuente infedele era dei più chiari: la procedura di collaborazione volontaria era l’ultima chance per far rientrare o emergere i capitali (e avere contestualmente la garanzia di non punibilità per alcune ipotesi di reato); escluso ciò, ogni ulteriore movimentazione dei proventi delittuosi avrebbe invece potuto integrare il reato di nuovo conio, punito con la reclusione fino a otto anni e la conseguente confisca per equivalente.
Del resto, le potenzialità punitive dell’autoriciclaggio sono già emerse in questi primi anni di applicazione. Si pensi – con riferimento al reato presupposto – alla possibilità di attribuire rilevanza al provento di reati prescritti o commessi all’estero (e accertati incidentalmente dal magistrato italiano). E ancora, avuto riguardo alle condotte punibili, alla definizione aperta offerta dall’art. 648-ter.1 c.p., la quale consentirebbe – secondo la giurisprudenza – di punire anche ipotesi di mero trasferimento del provento del delitto, tramite bonifico, da un conto corrente bancario ad altro diversamente intestato (Cass. pen., sez. II, n. 36121/2019).
Al tempo stesso, merita di essere segnalata una pronuncia che restringe invece il perimetro di applicazione dell’autoriciclaggio, proprio in casi che potrebbero essere connessi a una irregolare adesione alla procedura di voluntary disclosure.
Brevemente: il contribuente avrebbe potuto scegliere di regolarizzare solo una parte delle proprie disponibilità, decidendo invece di non dichiarare altre attività, contestualmente dirottate verso Dubai. Al fine di assicurare la veridicità di quanto dichiarato in occasione dell’adesione alla procedura, la già citata legge n. 186/2014 aveva introdotto uno specifico delitto, rubricato “Esibizione di atti falsi e comunicazioni di dati non rispondenti al vero”, attraverso il quale si puniva il contribuente che, nell’ambito della voluntary, esibiva o trasmetteva atti o documenti falsi, in tutto o in parte, o forniva informazioni non rispondenti al vero.
Rispetto a tale scenario, appare utile sottolineare che eventuali attività non dichiarate nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria, con conseguente integrazione del citato delitto di infedeltà, non potranno essere considerate anche il provento di quest’ultimo reato, e il loro eventuale trasferimento non potrà, quindi, essere ex se sussunto sotto la fattispecie di autoriciclaggio (Cass. pen., sez. II, n. 14101/2019)
Con riferimento alla possibile individuazione, quale reato presupposto dell’autoriciclaggio, di un reato tributario previsto dal d. lgs. n. 74/2000, è pure opportuno evidenziare che la mancata compilazione del quadro RW non può – da sola – integrare automaticamente un’ipotesi di dichiarazione infedele.
Come noto, l’obbligo di compilazione del quadro RW – introdotto dal d.l. n. 167/1990 – ha imposto ai contribuenti italiani di segnalare i movimenti e l’ammontare delle ricchezze detenute all’estero, e di provvedere al pagamento di due specifiche imposte, quali l’IVAFE (l’imposta sul valore delle attività all’estero) e l’IVIE (l’imposta sul valore degli immobili all’estero). Tanto il mancato adempimento di tale obbligo dichiarativo, quanto l’omesso pagamento delle menzionate imposte, sono tuttavia sanzionati solo a livello amministrativo. Di conseguenza, come ha correttamente riconosciuto la Corte di Cassazione in una recente pronuncia, le eventuali somme di denaro detenute all’estero – così come gli strumenti finanziari o i beni immobili – non possono essere considerate parte del reddito imponibile del contribuente italiano, potendo invece essere tassate esclusivamente le rendite o gli interessi che il bene potrà eventualmente produrre (Cass. pen., sez. VI, n. 19849/2021).
Di conseguenza, il giudice investito del procedimento per autoriciclaggio o riciclaggio dovrà accertare incidentalmente la sussistenza di uno specifico reato fiscale ex d. lgs. n. 74/2000, quali le ipotesi di dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3), infedele (art. 4) o omessa (art. 5). Al più, l’esistenza di preesistenti obbligazioni tributarie a carico del correntista potrà consentire alla Procura di valutare la sussistenza del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (att. 11), laddove emergessero condotte fraudolente, dirette a rendere inefficace una procedura di riscossione coattiva.
A prescindere dalla configurabilità dell’autoriciclaggio, e assumendo invece la commissione di un reato tributario, appare utile concludere con alcune brevi considerazioni in merito ai meccanismi premiali (penali) previsti dal nostro ordinamento, per chi soddisfi la pretesa erariale.
In particolare, il d. lgs. n. 158/2015 ha aggiunto all’art. 13 d. lgs. n. 74/2000 una causa di non punibilità, conseguente all’estinzione del debito tributario (a titolo di imposte, sanzioni e interessi) per i reati omissivi ex art. 10-bis, 10-ter, 10-quater, comma 1, nonché per quelli dichiarativi ex art. 4 e 5 dello stesso decreto. Successivamente la legge n, 157/2019 ha esteso l’applicabilità dell’istituto anche ai reati dichiarativi fraudolenti ex art. 2 e 3 d. lgs. n. 74/2000.
Un primo tema di riflessione si è posto con riferimento al termine entro cui si deve provvedere al pagamento del debito: se, infatti, in relazione ai reati omissivi, il momento è di facile individuazione, dovendo intervenire “prima della dichiarazione di apertura dibattimentale di primo grado”, per i reati dichiarativi la non punibilità consegue al “ravvedimento operoso” ovvero alla “presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo”, prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di pendenze a suo carico, a seguito di “accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali”. Nonostante la ratio della norma, che intenderebbe premiare la volontaria e spontanea resipiscenza del contribuente, la locuzione utilizzata sembrerebbe escludere che la conoscenza “informale” – dovuta, ad esempio, a notizie di stampa pubblicate proprio qualche giorno prima del pagamento da parte dell’autore del reato – possa impedire l’applicazione della causa di non punibilità.
Infine, occorre ricordare come sin dal d.l. n. 138/2011, la normativa tributaria consente di ricorrere al rito del patteggiamento, solo a fronte del pagamento del debito. Dal 2015, tuttavia, si è posto un tema di conciliabilità tra rito speciale e causa di non punibilità, entrambi conseguenti proprio al soddisfacimento integrale della pretesa erariale. L’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità ritiene (per il momento) che il pagamento, laddove effettuato nel rispetto delle condizioni normative, varrebbe unicamente come presupposto per l’applicabilità della causa di non punibilità del reato; il mancato pagamento, invece, non pregiudicherebbe la possibilità per l’imputato di richiedere ed ottenere l’applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (ex multis Cass. pen., sez. III, n. 38684/2018 con riferimento alle ipotesi di cui all’art. 13, comma 1; Cass. pen., sez. III, n. 10800/2019; Cass. pen., sez. III, n. 48029/2019; Cass. pen., sez. III, n. 11620/2020; queste ultime con riferimento a tutte le ipotesi richiamate dall’art. 13, comma 1 e 2). Non mancano, tuttavia, pronunce di segno diverso (perché, ad esempio, operano distinzioni a seconda del reato contestato, Cass. pen., sez. III, n. 47287/2019; ovvero in quanto ritengono che la sentenza ex art. 444 c.p.p. possa essere emessa solo allorché vi sia l’estinzione del debito, ma questa sia avvenuta con tempi e modalità che non consentono la più favorevole dichiarazione di non punibilità del fatto (Cass. pen., sez. III, n. 26529/2020).
In definitiva, ferma restando la necessità di valutare l’eventuale sussistenza del reato di autoriciclaggio, i contribuenti in ipotesi indicati nella Lista Dubai avranno anche la possibilità – con riferimento ai delitti di natura tributaria – di garantirsi la non punibilità oppure di raggiungere un accordo sull’applicazione della pena.