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Attualità

Il regime IVA del distacco di personale nell’ultimo orientamento della Cassazione

8 Giugno 2021

Michele Dimonte e Maria Chiara Turio Bohm, BonelliErede

Di cosa si parla in questo articolo

1. Fatti

L’ordinanza 2 marzo 2021, n. 5609[1] della Corte di Cassazione pone in rilievo il problema delle possibili conseguenze derivanti, nell’ordinamento italiano, dalla sentenza dell’11 marzo 2020, causa C-94/19, San Domenico Vetraria, con cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”) ha di fatto statuito l’incompatibilità con la Direttiva 2006/112/CE (“Direttiva IVA”) del regime di non imponibilità recato dall’art. 8, comma 35, della Legge n. 67/1988, applicabile alle operazioni di distacco di personale effettuate a fronte del mero rimborso da parte dell’impresa distaccataria dei costi del lavoro sostenuti dall’impresa distaccante.

Il caso analizzato dalla Corte di Cassazione riguarda un avviso di accertamento, relativo al periodo d’imposta 2004, con cui l’Agenzia delle entrate ha contestato l’omessa applicazione dell’IVA al distacco di personale, ai sensi dell’art. 8, comma 35 della L. n. 67/1988. La società era risultata vittoriosa in entrambi i giudizi di merito. In particolare la Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna (“CTR”) aveva respinto l’appello dell’Ufficio sostenendo che, dalla documentazione prodotta dalla società, era emerso come la stessa avesse fatturato alla propria controllata esclusivamente il costo diretto del personale e che il regime IVA applicato fosse quindi corretto.

L’Ufficio aveva presentato ricorso in cassazione sostenendo che la CTR non avesse adeguatamente motivato circa il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla conclusione che si trattasse di un distacco reso al puro costo, “non avendo la stessa indicato quale documentazione era stata esaminata a tal fine, né avendo rappresentato da quali dati era evincibile l’affermata esatta corrispondenza tra costo del personale e importo complessivamente fatturato”.

Con l’ordinanza sopra citata la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’Ufficio, ritenendo la sentenza insufficientemente motivata. Tuttavia, nel rinviare alla CTR in diversa composizione, la Corte di Cassazione ha specificato che i giudici del rinvio avrebbero dovuto analizzare l’appello erariale tenendo conto della sentenza della CGUE 11 marzo 2020, causa C-94/19. In particolare, la Suprema Corte, dopo aver richiamato i principi affermati con tale sentenza, ha specificato che “il disposto della L. n. 67 del 1988, art. 8, comma 35, laddove prevede che “non sono da intendere rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto i prestiti o i distacchi di personale a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo”, è recessivo rispetto alla disciplina Eurounitaria, solo occorrendo a tal fine accertare, secondo la giurisprudenza della CGUE, che sussista un nesso diretto tra le due prestazioni ai fini del reciproco condizionamento, vale a dire che l’una è effettuata solo a condizione che lo sia anche l’altra, e viceversa” (enfasi aggiunta).

La Corte di Cassazione ha quindi statuito che la CTR “nell’esame dell’appello dell’Agenzia, dovrà anche valutare – sulla base degli elementi di prova regolarmente acquisiti – se detta condizione di reciprocità delle prestazioni nel rapporto tra La Carpi soc. coop. e la controllata G.D.M. Auto s.r.l. sia riscontrabile o meno, traendone le dovute conseguenze alla luce della citata pronuncia della CGUE” (enfasi aggiunta).

Nonostante si tratti di un’ordinanza e i termini del rinvio ai giudici di merito non appaiano molto chiari, la Suprema Corte sembrerebbe ritenere applicabili al caso analizzato – avente ad oggetto il periodo d’imposta 2004 – i principi affermati dalla CGUE nella sentenza resa nella causa C-94/19.

2. Commento

In linea di principio le sentenze con cui la CGUE chiarisce l’interpretazione e la portata di una disposizione contenuta in una Direttiva hanno efficacia ex tunc, ossia hanno effetto anche sui rapporti pendenti, e possono determinare l’automatica disapplicazione di disposizioni nazionali che si pongano in contrasto con le norme del diritto europeo come correttamente intrepretate dal giudice unionale, fatto salvo l’obbligo, in capo allo Stato membro interessato, di provvedere all’abrogazione della norma incompatibile o alla sua modifica.

Ciò comporterebbe il potere-dovere per il giudice nazionale di disapplicare la norma domestica in contrasto con il diritto dell’Unione Europea[2].

Tuttavia, come già evidenziato con riferimento alla possibilità per l’Amministrazione finanziaria di applicare i principi contenuti in una sentenza della CGUE alle prestazioni di servizi effettuate in periodi d’imposta per i quali sono aperti i termini per l’esercizio del potere accertativo, la valorizzazione del principio generale di tutela del legittimo affidamento del contribuente sembrerebbe precludere questa possibilità[3].

Per tale ragione si è ritenuto che sino a che non vi sarà un intervento del legislatore, volto a rimuovere il conflitto con l’ordinamento comunitario e a specificare la portata applicativa della sentenza della CGUE, i contribuenti siano legittimati ad applicare il regime di cui all’articolo 8, comma 35, della L. n. 67/1988[4].

L’ordinanza sopra menzionata pone invece il problema degli effetti della sentenza della CGUE resa nella causa C-94/19 sui contenziosi pendenti aventi ad oggetto l’applicazione della disposizione domestica incompatibile, ossia sui rapporti esistenti tra il potere-dovere del giudice domestico di disapplicare la norma interna e i principi di certezza del diritto e di legittimo affidamento del contribuente.

Sul punto la giurisprudenza della Corte di Giustizia appare contrastante.

Infatti, con la sentenza 19 aprile 2016, causa C-441/14, Dansk Industri, la CGUE ha affrontato il possibile contrasto tra la valenza ex tunc di una pronuncia interpretativa della Corte di Giustizia e i principi di certezza di diritto e legittimo affidamento, concludendo che “il diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale […] è tenuto, nel momento in cui attua le disposizioni del suo diritto interno, a interpretarle in modo tale che esse possano ricevere un’applicazione conforme a tale direttiva ovvero, qualora una siffatta interpretazione conforme fosse impossibile, a disapplicare, se necessario, qualsiasi disposizione di tale diritto interno contraria […]. Né i principi della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento […] possono rimettere in discussione tale obbligo”.

Tuttavia, la stessa CGUE (sent. 21 settembre 2017, C-326/15, DNB Banka), occupandosi proprio dell’applicazione della Direttiva IVA, ha derogato a questo principio, affermando, in particolare che:

  1. le autorità nazionali non possono riaprire periodi d’imposta definitivamente conclusi”;
  2. per quanto concerne i periodi d’imposta che non sono ancora definitivamente conclusi, si deve ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un privato e non può, quindi, essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti” e pertanto le autorità nazionali non possono invocare la Direttiva IVA, come interpretata dalla Corte di Giustizia, per negare l’esenzione prevista dal diritto nazionale; e
  3. l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del suo diritto interno trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale”.

Ebbene, il caso sottoposto alla Corte di Cassazione riguarda il periodo d’imposta 2004, ossia un’annualità per cui i termini di accertamento dell’Amministrazione finanziaria erano ampiamente spirati già al momento della pronuncia della CGUE nella causa C-94/19. Sebbene l’avviso di accertamento sia stato impugnato e, quindi, la vicenda non possa ritenersi definitivamente conclusa (punto 1. sopra), altrettanto vero è che l’Amministrazione finanziaria non potrebbe esercitare nuovamente il proprio potere accertativo in relazione alla fattispecie oggetto dell’ordinanza, essendo il relativo termine spirato. Pertanto, pur non potendo trovare pienamente applicazione il principio del giudicato (trattandosi di un contezioso ancora pendente), l’applicazione retroattiva della sentenza della CGUE a prestazioni rese nel 2004 avrebbe, in sostanza, l’effetto di riaprire un periodo d’imposta non più accertabile, in palese contrasto non solo con il principio di certezza del diritto[5]ma anche con il principio di ordine generale secondo cui ogni atto deve trovare il proprio regime giuridico di riferimento nella disciplina normativa in vigore nel tempo in cui è stato posto in essere[6].

Inoltre, l’eventuale applicazione dei principi della sentenza C-94/19, San Domenico Vetraria, da parte del giudice del rinvio potrebbe comportare – qualora fosse accertata la sussistenza dei requisiti richiesti dalla CGUE per l’applicazione dell’IVA alle prestazioni di distacco del personale – un danno al contribuente e sicuramente si risolverebbe in un’interpretazione contra legem della disposizione nazionale (punto 3. sopra).

L’applicazione al caso di specie dei principi affermati nella sentenza C-326/15, DNB Banka, sarebbe poi coerente con la portata ampia che riveste il principio del legittimo affidamento nel settore tributario, recentemente valorizzata dal legislatore con riferimento al caso delle scuole guida[7].

Tuttavia, alla luce degli orientamenti contrastanti della stessa giurisprudenza della CGUE, appare difficile prevedere quali potranno essere le conseguenze dell’ordinanza in commento, ossia se la CTR deciderà di adeguarsi alle indicazioni della Corte di Cassazione ovverosia se, valorizzando i principi e le considerazioni sopra richiamati, riterrà non applicabile la sentenza San Domenico Vetraria al caso in esame. Per tale ragione risulta ancor più auspicabile un tempestivo intervento del legislatore italiano volto a rimuovere la norma domestica incompatibile pro futuro.

Laddove il giudice della CTR, conformandosi ai principi espressi dalla Corte di Cassazione, dovesse, nell’ambito della sua attività accertativa, ravvisare l’esistenza di un “nesso diretto” tra il servizio di distacco del personale e il riaddebito del costo sostenuto dalla distaccante (e quindi accertare la debenza dell’IVA), al contribuente resterebbe la possibilità di esperire un’azione di risarcimento del danno nei confronti dello Stato italiano per errato recepimento delle previsioni della Direttiva IVA nell’ordinamento nazionale.

 


[1] Le considerazioni svolte sono applicabili anche all’ordinanza n. 5601/2021.

[2] Questo principio è stato costantemente ribadito dalla CGUE. Ex multis, v. sent. 5 aprile 2016, C- 689/13, Puligenica,in cui si legge che: “il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme del diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi contraria disposizione della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v., in primo luogo, sentenze Simmenthal, 106/77, EU:C:1978:49, punti 21 e 24 e, da ultimo, A, C 112/13, EU:C:2014:2195, punto 36 nonché la giurisprudenza ivi citata).

Sarebbe difatti incompatibile con gli obblighi che derivano dalla natura stessa del diritto dell’Unione qualsiasi disposizione di un ordinamento giuridico nazionale o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione dell’efficacia del diritto dell’Unione per il fatto di negare al giudice competente ad applicare questo diritto il potere di compiere, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino alla piena efficacia delle norme dell’Unione (v. sentenze Simmenthal, EU:C:1978:49, punto 22, A, C 112/13, EU:C:2014:2195, punto 37 e giurisprudenza ivi citata)”.

[3] La centralità di questo principio era stata affermata con riferimento al caso analogo sollevato dalla sentenza del 14 marzo 2019, C-449/17, con la quale la CGUE ha statuito l’imponibilità ai fini IVA delle prestazioni didattiche finalizzate al conseguimento delle patenti di guida, ritenute invece esenti dalla prassi domestica.

[4] Questa è la tesi sostenuta anche da Assonime nella Circolare n. 8 del 19 maggio 2020.

[5] Infatti, da un punto di vista pratico, il comportamento del contribuente che, prima della sentenza della CGUE C-94/19, avesse disapplicato l’ 8, comma 35, della Legge n. 67/1988 si sarebbe certamente esposto al rischio di un accertamento fiscale e nei suoi confronti avrebbero trovato applicazione le relative sanzioni.

[6] Questo principio, noto con il brocardo tempus regit actum, trova la sua fonte nell’art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale.

[7] Si veda la nota 2.

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