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Attualità

Dubbi e certezze nella riforma dell’Irpef

31 Maggio 2021

Daniele Canè, Università degli Studi di Milano Statale

Di cosa si parla in questo articolo

1. Si è da poco conclusa l’indagine parlamentare per la riforma dell’Irpef e altri aspetti del sistema tributario, iniziata a gennaio, di cui si era già data notizia (cfr. contenuti correlati). Le Commissioni Finanza di Camera e Senato hanno sentito esperti di varia provenienza – accademia, istituzioni, società – traendone indicazioni su come riformare l’imposta sul reddito delle persone fisiche, uno degli assi portanti del nostro sistema tributario.

Vediamo brevemente i (pochi) punti fermi e le (molte) incertezze, che il Parlamento dovrà sciogliere con una legge delega, attesa nei prossimi mesi.

2. La nuova Irpef sarà sempre progressiva e la progressività presupporrebbe una base imponibile onnicomprensiva. Un primo problema riguarda, dunque, la definizione del reddito complessivo: se, cioè, si dovrà razionalizzare il disordinato assetto duale, che prevede oggi la tassazione proporzionale della maggior parte dei redditi di fonte patrimoniale e quella progressiva dei redditi da lavoro (senza però un trattamento specifico per i redditi “misti”); o se si dovrà ritentare l’imposizione progressiva di tutti i redditi, anche patrimoniali, cui già la l. delega 825/71 aveva rinunciato.

Nonostante qualche voce favorevole, è difficile rinunciare alla preziosa semplificazione e al contrasto all’evasione che la tassazione tramite intermediari assicura, specie per redditi ad alta mobilità, come quelli finanziari (audiz. Proff. Stevanato, Arachi, Corasaniti, Carpentieri, Banca d’Italia, Guardia di Finanza, CNEL). E raramente l’imposizione alla fonte può esser progressiva, quando, come di solito accade, l’intermediario non conosce la situazione del percettore (il che rende anche difficile prevedere un minimo esente per questa categoria di redditi). Negli altri casi, si può rimettere a quest’ultimo la scelta tra ritenuta e auto-liquidazione dell’Irpef – come previsto in passato per gli utili da partecipazioni societarie – con pericolo però della certezza della riscossione.

In ogni caso, andrebbero valutate l’unificazione dei redditi di capitale e diversi di natura finanziaria, oggi non compensabili, tranne che nel risparmio gestito e nei fondi di investimento, e le deduzioni per le spese di produzione dei redditi di capitale e di lavoro dipendente, oggi non previste (proposta AIPSDT).

3. La razionalizzazione del sistema duale passa per un riordino delle disomogenee aliquote proporzionali, cui sono oggi soggetti i redditi finanziari e immobiliari. Il problema riguarda anche le partecipazioni a fondi immobiliari, che bisognerebbe decidere una volta per tutte se trattare come produttive di redditi immobiliari, appunto, o finanziari.

Si dovranno stabilire criteri razionali (durata dell’investimento, destinazione, etc.), cui uniformare le non poche riduzioni previste per diversi titoli, su tutte quella per i titoli di Stato, da sempre favoriti. Dovranno quindi essere eliminate le agevolazioni non più in linea con gli indirizzi di politica economica e sociale, soprattutto in ottica Recovery Plan; tema che s’intreccia col riordino delle spese fiscali, nodo gordiano della politica fiscale (non solo) italiana.

Il riordino riguarderà anche i regimi sostitutivi per i redditi immobiliari, tipo la cedolare secca sui canoni di locazione, che è difficile riportare in progressiva, perché già sugli immobili grava l’imposta patrimoniale (Imu), che dovrebbe comunque pagarsi coi redditi dell’immobile (Prof. Melis). Inoltre, la cedolare ha favorito l’emersione di base imponibile, benché non sembri alla lunga aver compensato il gettito Irpef cui si è rinunciato (audiz. MEF, Prof.ssa Carpentieri).

In disparte l’idea di tassare i redditi finanziari alla maturazione, contraria al principio di capacità contributiva, che impedisce di tassare redditi non realizzati, bisognerebbe capire come modificare il risparmio gestito, che prevede appunto la tassazione sul maturato (v. proposta AIPSDT).

4. Altro tema scottante è il regime forfettario per autonomi e imprenditori con ricavi inferiori a 65 mila euro l’anno, che deroga sia alla determinazione analitica del reddito, perché si basa sulla predeterminazione fissa dei costi, sia alla progressività dell’Irpef, poiché prevede un’aliquota unica del 15 per cento (oltre che alla neutralità dell’Iva sui produttori, ma questo è un altro problema).

Le iniquità che esso apparentemente determina, rispetto ai titolari di redditi tassati in progressiva, non sembrano giustificarne l’eliminazione, quanto un aggiustamento. La difficoltà di accertare i ricavi effettivi dei numerosi operatori al dettaglio, senza organizzazione e con ampie possibilità di evasione, giustificano semplificazioni nella determinazione del reddito e negli adempimenti, previste sin dalla delega 825/71. Vi è poi l’alea dell’attività economica non subordinata, specie in fase iniziale, che merita in effetti un regime ad hoc. Si tratta insomma di capire dove finisce la (giusta) semplificazione e dove inizia la (smodata) agevolazione, da correggere magari aggiornando i coefficienti di determinazione del reddito (audiz. MEF) e i requisiti d’ingresso, che non distinguono tra operatori pluri e mono-committenti (questi ultimi più facilmente individuabili dal fisco e per cui forse non si giustifica la forfettizzazione).

Il problema è come raccordare questo regime con l’imposta progressiva, che i forfettari tendono a evitare differendo (quando va bene) gli incassi. L’imposta ad aliquota ridotta sui redditi incrementali, proposta dal Centro-destra, per risolvere questo problema ne solleva altri, perché discrimina i redditi in ragione della loro variabilità, che è però irrilevante ai fini dell’imposizione (possibilista invece Prof. Lupi, che vede un parallelo con le agevolazioni sugli straordinari dei dipendenti).

Un’alternativa potrebbe essere avvicinare le aliquote del forfettario e dei primi scaglioni Irpef, sì da contenere l’effetto “esplosione” dell’imposta – che, comunque, dipende anche da detrazioni e deduzioni per spese personali, che ai forfettari non spettano (Melis). Difficile però riprodurre la stessa progressività dell’Irpef su redditi forfettizzati, su cui si possono al più innestare aliquote a scaglioni.

Il vero “tallone d’Achille” è la determinazione dei redditi delle (molte) imprese non abbastanza piccole per il forfettario, imperniato sulla tassazione per cassa, ma non abbastanza grandi per il regime ordinario, basato sulla competenza, che crea problemi di liquidità (al reddito così determinato non necessariamente corrisponde un saldo attivo di cassa). Il regime “di passaggio”, riservato alle imprese “minori”, combina cassa e competenza, con complicazioni operative non irrilevanti, possibili salti d’imposta e doppie imposizioni. A ciò si somma la crisi di liquidità innescata dalla pandemia, cui si è finora pensato di rimediare con la rateizzazione dei versamenti (On.le Gusmeroli) o con il loro riscadenziamento, collegato alla data di fatturazione (Ag. Entrate).

Servirà anche qui una riflessione d’insieme, che guardi oltre l’emergenza e distingua le grandi imprese, per cui la tassazione per cassa potrebbe al limite essere una soluzione di lungo periodo (Prof.ssa Carpentieri), dalle imprese minori, per le quali la contabilità, su cui si basa la competenza, è meno attendibile e può serenamente sacrificarsi ad una tassazione sui flussi (non sulle fatture).

5. Si potrebbe poi cogliere l’occasione per correggere alcuni difetti strutturali dell’Irpef: in primis, l’assenza di un vero minimo esente, corollario del principio di concorso secondo capacità contributiva, oggi realizzato con detrazioni limitate solo ad alcuni tipi di reddito; la determinazione al netto dei costi, come detto non prevista per i redditi di lavoro dipendente e di capitale, ma che si potrebbe oggi forse riconsiderare; la segregazione delle perdite d’impresa, non sempre compensabili con gli altri redditi (audiz. Stevanato, Carpentieri, Corasaniti).

Vi è poi il problema degli incapienti, i contribuenti con redditi (ed imposta) troppo bassi per sfruttare appieno le detrazioni d’imposta per spese personali e famigliari; problema cui si è pensato di ovviare con l’imposta negativa, cioè un’erogazione per le detrazioni non sfruttate (tra altri, Prof. Baldini). Oltre a destare perplessità un simile uso dell’imposta, che per definizione toglie, non dà (On.le Marattin; audiz. Liberati, Corasaniti, Melis), è in parte superato dall’approvazione dell’assegno unico famigliare, che assorbirà le detrazioni per figli a carico (non per i coniugi) e che dovrà coordinarsi appunto col minimo esente Irpef, come si può desumere da Corte cost., 152/2020, in tema di assegni agli inabili al lavoro (scelta, l’assegno unico, invero complessa, che elimina un elemento strutturale dell’Irpef: v. audiz. Prof. Ragucci e Inps, Camera dei deputati, 20 ottobre 2020).

Si ridimensiona solo in parte anche il problema di come tassare la famiglia, che dipende dalla progressività dell’Irpef, la quale impatta allo stesso modo su single e coniugi di famiglie monoreddito, discriminando queste ultime rispetto alle famiglie con pari reddito, ma diviso tra i coniugi (che, perciò e tra l’altro, non fruiscono allo stesso modo delle detrazioni, avendo un’Irpef inferiore).

6. Ultima, ma non per importanza,è proprio la progressività delle aliquote Irpef, che, secondo alcuni, dovrebbe essere continua, “alla tedesca” (Prof. Visco).

Questa scelta, decisiva per l’impatto “redistributivo” dell’imposta, dipende da alcune variabili, tra cui l’ampiezza della base imponibile, e a sua volta impatta su vari aspetti, dalla finanza locale (addizionali) all’imposta su successioni e donazioni, che andrebbe coordinata con l’imposta sui redditi del de cuius, che hanno alimentato il patrimonio (a livello di imponibile o di aliquote; spunti da Proff. Stevanato e Tinelli).

Resta il quadro di un momento epocale, che chiede un notevole sforzo di sintesi e programmazione al Parlamento, ma gli offre la possibilità di riprendere la guida della politica fiscale.

Rispetto al passato, esso affronta e beneficia di nuove spinte, esterne – sul piano europeo: tassazione delle imprese digitali e nuove risorse proprie UE, e internazionale: tassazione minima delle multinazionali – ed interne, che esigono risposte al di là dell’Irpef: l’aggiornamento del catasto, la riforma del processo tributario, fino al riordino delle tax expenditures, che richiede di scegliere quali agevolazioni mantenere, quali sostituire con programmi di spesa e quali eliminare, ma che non può prescindere da una chiara definizione dell’ambiguo concetto di “spesa fiscale”. Proprio su questo aspetto, per nulla secondario, si sono finora arenati tutti i progetti. Il che forse consiglia di non legare la riforma dell’Irpef a questa iniziativa (Prof. Ragucci).

Che non sia il momento di riformare l’intero sistema tributario in una prospettiva di lungo periodo, assecondando i trend internazionali, per spostare il prelievo su fonti diverse dal lavoro (v. la comunicazione della Commissione europea sulla tassazione delle imprese nel ventunesimo secolo)? Le idee, anche molto ambiziose, non mancano (v. Ceriani – Carpentieri (cur.), Proposte per una riforma fiscale sostenibile, in Astrid, maggio 2020, ed i contributi di Boria e Puri in Neotera, 2020, 14 e 37, reperibili online).

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