La produzione di perdite rilevanti, per alcuni anni, da parte di una società, può configurarsi come condotta anomala tale da comportare la rettifica delle dichiarazioni fiscali presentate ad opera dell’Agenzia delle Entrate.
Tuttavia, la contribuente ha la possibilità di giustificare i dati gestionali della sua impresa, seppur negativi; il giudice di merito, investito della controversia, per poter annullare il provvedimento impositivo dovrà fornire valide argomentazioni a sostegno del comportamento del contribuente, non limitandosi a richiamare la libertà di impresa nella politica commerciale seguita.
Il principio contenuto nella pronuncia in oggetto sembra essere conforme ad un precedente orientamento espresso dalla Corte di Cassazione in materia (Cass n. 14370/2017).
Nella fattispecie in esame, una società in accomandita semplice proponeva ricorso avverso un avviso di accertamento attraverso cui venivano contestati maggiori redditi ai fini IRAP e IVA per l’anno d’imposta 2005.
L’accertamento in oggetto si fondava sulla rilevata antieconomicità dell’attività d’impresa – in passivo da alcuni anni – basata su una serie di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti.
A seguito dell’accoglimento del ricorso della contribuente, l’Amministrazione finanziaria ricorreva infruttuosamente in appello.
In particolare, la commissione regionale non riconosceva l’efficacia presuntiva richiesta dall’art. 39, co. 1, lett. d) agli elementi addotti dall’Agenzia delle Entrate; al contrario, i giudici ritenevano fondate le ragioni portate dalla ricorrente a propria difesa, secondo le quali le perdite derivavano dalla necessità di una riconversione industriale dell’azienda, a causa della crisi del precedente committente principale.
Tale conclusione veniva condivisa dal Collegio di Legittimità adito che, con la pronuncia in questione, rigettava il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate, che si doleva, per quanto di interesse, della violazione e falsa applicazione degli articoli 2697, 2727, 2729 c.c., per non avere la CTR fatto buon governo degli elementi presuntivi raccolti in sede di accertamento, a fronte dei quali sarebbe stato onere del contribuente fornire riscontri circa la riconducibilità delle perdite al processo di riconversione.
La Corte, in premessa, afferma che l’antieconomicità dell’attività d’impresa non deve essere valutata esclusivamente sulla base dei dati gestionali dell’impresa, ma deve essere accertata tenendo conto della situazione complessiva societaria e contrattuale della singola azienda.
Nello specifico, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la tenuta della contabilità in maniera formalmente regolare non ostacola la rettifica delle dichiarazioni fiscali: infatti, in presenza di un comportamento contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non riesce a giustificare in alcun modo, può considerarsi legittimo l’accertamento su base presuntiva.
Alla luce di ciò, il giudice di merito, al fine di poter annullare l’accertamento, ha l’obbligo di specificare, con argomenti validi, le ragioni per cui ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatica di possibili violazioni di disposizioni tributarie (Cass. nn. 9084/2017; 14428/2005).
Il giudice di merito, dunque, nell’analisi degli indizi, è chiamato a valutare la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge, sulla base di un giudizio globale e non atomistico degli stessi.
In altri termini, tale giudice deve analizzare le giustificazioni presentate dalla contribuente, in relazione agli elementi probatori raccolti dall’Amministrazione finanziaria.
Ciò premesso, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la Commissione regionale avesse fatto buon uso dei principi sopra esposti e pertanto, ha rigettato il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate.