Indice: 1. Premessa – 2. Le ragioni del differimento dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – 3. Gli interventi realizzati con il cosiddetto “decreto liquidità” – 4. Le criticità irrisolte del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
1. Premessa
La problematica della crisi d’impresa ha assunto, nel tempo, importanza sempre crescente, tanto da essere stata oggetto di continui e non sempre omogenei interventi legislativi, fino all’ultima riforma del diritto fallimentare, confluita nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14.
Erano anni che si attendeva questo “evento”, non solo perché il Codice offre – rispetto all’ormai vetusta legge fallimentare del ‘42 – una più aggiornata, armonica ed articolata risistemazione del diritto concorsuale, ma soprattutto per la diversa filosofia che lo ispira orientata, da un lato, non solo a sanzionare, ma ancor prima a prevenire le situazioni di crisi, introducendo un diffuso sistema di monitoraggio con strumenti di allerta, interni ed esterni all’impresa, per anticiparne l’emersione e consentire un più tempestivo intervento per fronteggiarle; dall’altro, quando sia inevitabile “fallire”, a rendere meno traumatico tale evento, promuovendo una cultura del risanamento anziché dell’eliminazione delle imprese dal mercato.
2. Le ragioni del differimento dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza
Il provvedimento, che è stato recentemente oggetto di correttivo[1], sarebbe dovuto entrare in vigore (per la gran parte delle sue norme) il prossimo 15 agosto, sennonché la recente emergenza epidemiologica ha reso opportuno differirne l’efficacia al 1° settembre 2021, ossia ad un momento in cui si auspica che la fase peggiore della crisi da Covid-19 si sarà esaurita.
In un quadro macroeconomico che sconta effetti economici gravissimi l’opportunità di disporre, attraverso il decreto legge 8 aprile 2020, n. 23 (“Decreto liquidità”), il rinvio integrale dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza appare infatti una delle misure di emergenza più significative per fronteggiare la crisi d’impresa.
Tra le condivisibili ragioni addotte a fondamento di questa scelta vi è la constatazione che:
- la novità più rilevante del Codice è rappresentata dalla introduzione del sistema delle c.d. misure di allerta, volte a provocare l’emersione anticipata della crisi delle imprese: in una situazione in cui l’intero tessuto economico mondiale risulta colpito da una gravissima forma di crisi, il sistema dell’allerta potrebbe produrre risultati marcatamente disfunzionali, anche a danno di imprese sane (e che vivono una fase di temporanea crisi proprio per la pandemia in atto);
- l’obiettivo perseguito dal Codice è quello di garantire nella forma più ampia possibile il salvataggio delle imprese e della loro continuità: la sua applicazione in questa fase frustrerebbe irrimediabilmente tale obiettivo;
- in una situazione di sofferenza economica generalizzata, è preferibile che gli operatori possano utilizzare strumenti noti, che garantiscano una maggiore stabilità a livello applicativo;
- il differimento consentirà di allineare il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza alla emananda normativa di attuazione della Direttiva UE 1023/2019 in materia di ristrutturazione preventiva delle imprese.
3. Gli interventi realizzati con il cosiddetto “decreto liquidità”
Altre novità, comunque significative, sono state introdotte dal cosiddetto “Decreto liquidità”.
In primisl’improcedibilità, per un periodo che va dallo scorso 9 maggio al prossimo 30 giugno, di tutti i ricorsi finalizzati alla dichiarazione di fallimento nonché degli accertamenti giudiziari dello stato di insolvenza. Con un’unica eccezione, limitata ai casi in cui il ricorso è stato presentato dal pubblico ministero ed è accompagnato dalla richiesta di provvedimenti cautelari a tutela del patrimonio e dell’impresa. Evidente l’obiettivo della misura: si vuole evitare di sottoporre il ceto imprenditoriale alla pressione crescente delle istanze di fallimento di terzi e, nello stesso tempo, di metterlo dinanzi alla drammatica scelta di dover presentare istanza di fallimento in proprio, in un contesto in cui lo stato di insolvenza può derivare da fattori esogeni e straordinari, con il correlato pericolo di dispersione del patrimonio produttivo senza un effettivo beneficio a vantaggio dei creditori dato che la liquidazione dei beni avverrebbe in un mercato fortemente perturbato. C’è poi un tema di sostenibilità, da parte degli uffici giudiziari, di un crescente flusso di istanze in una situazione in cui il rinvio delle udienze non urgenti è stato esteso fino a metà maggio.
Il blocco in ogni caso avrà durata temporanea, trascorso il quale le istanze potranno tornare a essere presentate, e riguarda un’ampia categoria di imprese anche tutte quelle grandi, ma di dimensioni tali da non potere comunque avere accesso al cosiddetto “Decreto Marzano” (D.L. n. 347/2003). Per non compromettere però la tutela della parità di condizioni tra i creditori, si prevede che i quattro mesi di “ferma” dei fallimenti sono sterilizzati nel conteggio dell’anno decorrente dalla cancellazione del registro imprese e per il conteggio dei termini utili per la presentazione delle revocatorie.
Il D.L. n. 23/2020, in secondo luogo, ha messo a punto alcune misure urgenti per evitare che procedure di concordato preventivo o accordi di ristrutturazione aventi concrete possibilità di successo prima dello scoppio della crisi epidemica risultino irrimediabilmente compromesse, con ricadute evidenti sulla conservazione di complessi imprenditoriali anche di rilevanti dimensioni.
Si tratta, in particolare, di quattro interventi consistenti, in sintesi:
- nella proroga di sei mesi dei termini di adempimento dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione che abbiano già conseguito con successo l’omologa da parte del tribunale al momento dell’emergenza epidemiologica;
- in relazione ai procedimenti di omologa dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione ancora pendenti alla data del 23 febbraio 2020, nella possibilità per il debitore di ottenere dal Tribunale un nuovo termine per elaborare ex novo una proposta di concordato o un accordo di ristrutturazione;
- sempre in relazione ai procedimenti di omologa dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione ancora pendenti alla data del 23 febbraio 2020, nella possibilità per il debitore di optare per una soluzione più snella, consistente nella modifica unilaterale dei termini di adempimento originariamente prospettati nella proposta e nell’accordo;
- nella introduzione di un nuovo termine “secco” di novanta giorni di cui si può avvalere il debitore cui sia stato concesso, alternativamente, termine ai sensi dell’art. 161, comma sesto, l. fall. (c.d. “preconcordato” o “concordato in bianco”) o termine ai sensi dell’art. 182 bis comma settimo l. fall.
La prima misura si traduce in una proroga ex lege di sei mesi dei termini di adempimento in scadenza nel periodo che va dal 23 febbraio al 30 giugno 2020.
Si osserva, tuttavia, che nel concordato omologato si devono pagare tipicamente prima i privilegiati e poi i chirografari.
Se il termine per i privilegiati scade nel giugno 2020, esso slitterà di sei mesi.
Ma il termine per pagare i creditori chirografari, secondo la disposizione di cui al decreto legge 23/2020, rimane lo stesso se esso non scade entro giugno.
In pratica, data la scarsità delle risorse per effetto della crisi, può darsi che le imprese possano pagare i creditori privilegiati ma non più quelli chirografari (o che i primi possano essere pagati dopo i chirografari se il loro termine non scade entro giugno).
La misura appare ragionevole solo se la situazione emergenziale ha una durata brevissima.
Altrimenti, la proroga per un semestre aumenta solo la possibilità che alcuni obblighi dei concordati omologati non siano adempiuti secondo le originarie scadenze e senza possibilità di porvi rimedio, se non gestendo il ritardo come inadempimento scusabile.
La seconda misura permette al debitore di presentare, sino all’udienza fissata per l’omologa del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, una istanza per la concessione di un termine finalizzato alla presentazione ex novo di una proposta di concordato o di un nuovo accordo di ristrutturazione, nei quali il debitore possa tenere conto dei fattori economici sopravvenuti per effetto della crisi epidemica.
La misura è ragionevole nell’ispirazione. Il nuovo piano deve essere nuovamente attestato ma non è detto se debba essere nuovamente votato. Il riferimento normativo non è chiaro perché menziona il “procedimento di omologazione”, cioè ad approvazione dei creditori avvenuta.
Nell’ultima parte della norma (art. 9 del D.L. n. 203/2020) si precisa che, nel caso del concordato preventivo, sono esclusi da tale possibilità i debitori la cui originaria proposta sia già stata sottoposta al voto dei creditori senza riscuotere le necessarie maggioranze.
In altri termini, una proposta bocciata non può essere modificata con questa misura, ciò che sembra ovvio.
Ma la precisazione pone qualche dubbio se si considera la fase in cui si può presentare la modifica: in una proposta bocciata non c’è infatti alcun procedimento di omologazione.
La terza misura ha carattere più snello e consiste nella possibilità per il debitore di modificare unilateralmente i termini di adempimento originariamente prospettati nella proposta e nell’accordo di ristrutturazione.
La modifica viene veicolata tramite una memoria che deve contenere l’indicazione dei nuovi termini – non superiori di sei mesi rispetto a quelli originariamente indicati – e deve essere accompagnata dalla documentazione che comprova la necessità della modifica dei termini.
In presenza di tale modifica unilaterale il Tribunale può sempre procedere all’omologa subordinatamente alla verifica della persistente sussistenza dei presupposti di cui agli articoli 180 o 182 bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ma nel decreto di omologa viene a dare espressamente atto delle nuove scadenze.
La quarta misura si traduce in una dilatazione “secca” di novanta giorni dell’automatic stay di cui agli articoli 161, comma sesto e 182 bis, comma settimo, L.F., accessibile al debitore per i quali gli originari termini siano in scadenza senza possibilità di ulteriori proroghe.
La proroga è applicata anche in presenza di un ricorso per dichiarazione di fallimento, alla luce della preponderante esigenza di conferire quante più chances possibili al salvataggio dell’impresa, ma presuppone la presentazione di una istanza che deve indicare gli elementi che rendono necessaria la concessione della proroga con specifico riferimento ai fatti sopravvenuti per effetto dell’emergenza epidemiologica COVID-19.
Il Tribunale concede la proroga subordinatamente alla constatazione dell’esistenza di concreti e giustificati motivi (nel caso del concordato preventivo: cfr. art. 161, comma sesto L.F.) nonché – nel caso degli accordi di ristrutturazione – della persistente sussistenza dei presupposti per pervenire a un accordo di ristrutturazione dei debiti con le maggioranze di cui all’articolo 182 bis, primo comma (cfr. art. 182 bis, comma settimo, L.F.).
Nel caso degli accordi di ristrutturazione, esigenze di celerità hanno suggerito di non applicare, la peraltro macchinosa procedura prevista dall’articolo 182 bis, comma settimo, primo periodo, L.F.
Trattandosi di una mera dilatazione degli originari termini, troverà per il resto applicazione la disciplina prevista per l’automatic stay, a cominciare dal settimo e ottavo comma dell’art. 161, espressamente richiamati dal legislatore.
Infine, con il “Decreto liquidità” sono state introdotte norme che contemplano un significativo sostegno finanziario alle imprese, grazie alla possibilità di accesso agevolato al credito bancario, con garanzia statale: non è tuttavia questa la sede per una indagine nel dettaglio di tali misure.
4. Le criticità irrisolte del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza
Gli interventi realizzati con il decreto di aprile, essendo finalizzati a tenere sotto controllo la crisi in atto, non hanno però prospettato soluzioni idonee a risolvere criticità sulle quali la più avveduta dottrina continua a dibattere nelle more dell’approvazione del richiamato correttivo.
Nella finestra che ci separa dall’entrata in vigore del Codice, si auspica allora che vengano rivisti, in alcuni casi in ottica chiarificatrice, in altri in chiave di riallineamento con la normativa attualmente in vigore, diversi profili della disciplina che struttura la forma organizzativa dell’impresa e che oggi risultano non adeguati.
a) Prededucibilità dei finanziamenti alle imprese in crisi
Pur valutando positivamente l’apertura codicistica in materia di prededucibilità dei finanziamenti alle imprese in crisi, il legislatore sembra non aver tenuto nel giusto conto il fatto che, nella prassi, le banche sono restie nel concedere credito ad imprese in crisi in considerazione del rischio, in caso di susseguente fallimento, che il credito non venga riconosciuto prededucibile in sede di verificazione dello stato passivo sulla scorta di un successivo giudizio sull’insussistenza dei requisiti necessari per ottenere l’autorizzazione e la conseguente prededuzione.
Sarebbe opportuno, in tal senso, prevedere la definitività del beneficio della prededuzione.
b) Prededucibilità dei crediti dei professionisti
La disposizione codicistica prevede che, fermo restando l’elevato grado di privilegio di cui restano comunque muniti i crediti professionali sorti in funzione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo, la prededuzione spetti solo nei limiti del 75% dell’ammontare del credito sempre a condizione, rispettivamente, che l’accordo sia omologato o che la procedura di concordato sia aperta. La disposizione solleva diverse criticità dal punto di vista delle scelte politiche. Infatti, già la sussistenza di un traguardo procedurale come condizione per la prededucibilità significa non tener conto della complessità del sistema fallimentare. Vi sono, infatti, molteplici ragioni che possono portare al mancato risultato dell’ammissione e che spesso prescindono dal corretto e diligente lavoro del professionista. Si pensi all’ipotesi di questioni giuridiche dibattute, risolte in senso opposto da diversi Tribunali o finanche dal medesimo Tribunale, dalla cui scelta interpretativa dipende l’ammissione o meno del concordato (se la domanda di concordato fosse stata presentata, ad esempio, qualche tempo dopo nello stesso Tribunale oppure lo stesso giorno ma in un Tribunale diverso l’esito sarebbe stato diverso). D’altro canto, anche nel caso di mancata ammissione del concordato (od omologa degli accordi di ristrutturazione) l’opera del professionista potrebbe essere stata assai diligente e finanche molto utile per la massa, nonché per il curatore nella successiva liquidazione giudiziale. L’attività di predisposizione del piano di concordato, ancorché non ammesso, può infatti essere di particolare complessità e richiedere l’espletamento di plurime attività prodromiche che possono essere certamente utili per la successiva liquidazione giudiziale (e, quindi, per la massa dei creditori), considerando che il curatore si ritroverebbe a svolgere il proprio compito con una situazione (contabile, legale, valutativa) già riordinata e rettificata dagli advisor. Certo, un concordato non ammesso può porre in dubbio la presenza del requisito della diligenza e dell’utilità dell’opera prestata dal professionista ma la scelta del legislatore, per come appare, rischia di incidere su alcuni tradizionali principi civilistici. Subordinare la prededucibilità del compenso del professionista al raggiungimento di un traguardo procedurale corre infatti il rischio di trasformare l’obbligazione del professionista da obbligazione di mezzi, così come è sempre intesa, in una obbligazione di risultato. In particolare, il traguardo procedurale raggiunto rende le prestazioni del professionista – con una presunzione legale – “funzionale” alla procedura e quindi il relativo credito è ritenuto dal legislatore pagabile in via preferenziale, sebbene nei limiti quantitativi del 75%. Tale principio, tuttavia, cozza inevitabilmente con quello civilistico che considera la prestazione d’opera intellettuale come un’obbligazione di mezzi per la quale utilizzare la diligenza qualificata ex art. 1176, secondo comma c.c. Ai sensi dell’articolo 6 del Codice, invece, la diligenza e la perizia non bastano più: è necessario anche il raggiungimento di un traguardo, o – se vogliamo utilizzare le categorie civilistiche – di un risultato. Con il D.Lgs. n. 14/2019 si è forse voluto procedere ad un ripensamento – “sistematico” – del principio generale civilistico ? Resta poi da capire il motivo per il quale al raggiungimento di tale risultato il professionista dovrà essere pagato soltanto “nei limiti del 75% del credito accertato”. Perché il 75%, e non la totalità del credito ?
La risposta non la si trova neppure nella Relazione illustrativa, che si limita a ricordare che il credito del professionista “è comunque assistito da un privilegio di grado elevato (art. 2751 bis, n. 2, c.c.)”. Comunque la si voglia guardare, anche questa sembra una norma punitiva per il professionista nominato dal debitore: gli si toglie un quarto del compenso, nonostante il “risultato” procedurale raggiunto.
c) Obbligo di segnalazione dei creditori qualificati
Con le misure di allerta, il Codice mira a creare un luogo d’incontro tra le contrapposte, ma non necessariamente divergenti esigenze del debitore e dei suoi creditori, secondo una logica di mediazione e composizione non improvvisata e solitaria, bensì assistita da organismi professionalmente dedicati alla ricerca di una soluzione negoziata. Molte sono, tuttavia, le criticità determinate dall’introduzione dell’istituto, in particolare dall’obbligo di segnalazione dei creditori qualificati. Con riferimento all’Agenzia delle Entrate, la prima criticità è di natura interpretativa. Infatti, dalla lettera della norma (1° e 2° comma dell’art. 15) non è ben chiaro se, entro i 90 giorni dall’avviso di esposizione debitoria rilevante, il debitore che vuole scongiurare la segnalazione all’Ocri, e che non abbia ancora chiesto la dilazione del pagamento, debba comunque estinguere o altrimenti regolarizzare per intero il debito verso l’Agenzia. Un’interpretazione in tal senso, infatti, sarebbe assolutamente incoerente con il vigente quadro normativo, che riconosce all’impresa una tempistica di pagamento molto più ampia. Ai sensi dell’art. 29 del decreto legge n. 78/2010, infatti, il debitore è tenuto a pagare gli importi indicati nell’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate entro il termine di presentazione del ricorso, ossia entro 60 giorni. Trascorsi 30 giorni dal termine utile per il pagamento, la riscossione delle somme richieste viene affidata agli agenti della riscossione. Il debitore, inoltre, ai sensi dell’art. 3 bis del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, può rateizzare l’importo in 8 rate trimestrali o, se le somme superano i 5.000 euro, in 20 rate trimestrali. A fronte di tali tempistiche, per evitare che l’allerta «esterna» si trasformi in un «incaglio» per l’imprenditore, non rimane che aderire a una interpretazione ermeneutica «riduttiva» del testo, nel senso di ritenere sussistente l’obbligo di segnalazione solo ove, entro 90 giorni dall’avviso di esposizione debitoria rilevante, il debitore non abbia:
- estinto o altrimenti regolarizzato per intero il proprio debito, sempreché siano decorsi 90 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento e non abbia optato per la rateizzazione del debito;
- regolarizzato il pagamento rateale.
Le medesime considerazioni in ordine alla mancata armonizzazione delle norme valgono anche con riferimento all’esposizione debitoria rilevante per l’agente della riscossione, per il quale i debiti devono essere scaduti da oltre 90 giorni e superare, per le imprese individuali, la soglia di euro 500.000 e, per le imprese collettive, la soglia di euro 1.000.000. Nell’articolato, infatti, non si fa neppure cenno alla possibilità che l’imprenditore ha di dilazionare il pagamento del debito. Eppure innanzi all’agente della riscossione può essere richiesta la ripartizione del pagamento delle somme iscritte a ruolo fino a 72 rate e, relativamente ai piani di rateizzazione straordinari[2], fino a un massimo di 120 rate mensili. Si evidenzia, al riguardo, che nel tempo «franco» che il legislatore concede alle imprese il contribuente non può assolutamente essere considerato inadempiente verso gli enti creditori (né possono essere iscritti fermi o ipoteche, né possono essere attivate altre procedure di riscossione), pena la compromissione della libertà di iniziativa economica costituzionalmente garantita dell’imprenditore, che può legittimamente e liberamente decidere anche di dilazionare l’importo del debito, configurandosi la rateizzazione – almeno di fatto – quale misura a sostegno di un settore, quello industriale, ormai in crisi.
Del resto, tra i cosiddetti «grandi morosi» uno su tre sceglie la via della rateizzazione[3] e la stessa possibilità di dilazionare dimostra che i debiti scaduti, di per sé, non possono costituire validi indicatori di crisi, poiché non in grado di rappresentare correttamente la situazione finanziaria di un’impresa che può trovarsi, ad esempio, in una situazione di difficoltà grave ma transitoria e, per tale motivo, attendere il decorso dei tempi che la vigente normativa comunque gli riconosce. Non sottacendo, inoltre, che molte aziende, proprio per la differente tempistica che il legislatore ha dato ai piani di rateizzazione, a secondo che sia richiesta direttamente all’Ade (max 60 rate), o direttamente alla AdER (max 120 rate) optino, nonostante i maggiori costi, per la seconda. Ma in tal caso, con l’entrata in vigore delle nuove regole tale opzione non sarà più consentita causando sicuri «sbilanciamenti» di cassa che non possono che nuocere alla continuità e ai percorsi di risanamento intrapresi/da intraprendere. Di mancata armonizzazione normativa può, infine, parlarsi in merito all’esposizione debitoria rilevante per l’Istituto nazionale della previdenza sociale, che mal si «sposa» con i meccanismi attualmente vigenti del mancato rilascio del Durc e/o delle azioni esecutive che, per legge, l’Agenzia delle Entrate prima e, susseguentemente, gli Agenti della Riscossione devono porre in essere.
Da quanto rappresentato emerge, in sostanza, che l’obbligo di segnalazione dei creditori qualificati, considerate le soglie di esposizione debitoria rilevanti, finisce con il ledere l’autonomia dell’imprenditore che, in un momento di tensione finanziaria – quando cioè la crisi è ancora reversibile –, si vede «nell’impossibilità» di scegliere le misure che reputa più idonee, nel caso concreto, alla preservazione della sua impresa: pagamento dei fornitori primari, differimento del pagamento dei creditori meno critici, accordi con i finanziatori, rifinanziamento dell’impresa. Neppure si devono trascurare alcuni rischi che l’istituto dell’allerta può determinare sui rapporti che l’imprenditore ha con i creditori, segnatamente con le banche. Una crisi ad uno stadio iniziale potrebbe ad esempio essere interpretata come crisi irreversibile con la conseguenza, per l’imprenditore, di vedersi sospendere/congelare l’accesso al credito. In particolare, se si considera il fatto che non è riconosciuta la natura prededucibile ai crediti derivanti da finanziamenti effettuati da banche e intermediari finanziari nella fase, cosiddetta, di allerta. Gli indicatori di crisi potrebbero allora essere inseriti in una policy legata all’erogazione del credito, senza dover invece creare un collegamento automatico tra allerta e credito. È essenziale sul punto un approfondimento.
d) Slittamento dell’obbligo di segnalazione
Con riferimento all’obbligo indicato in epigrafe sussiste, allo stato attuale, un evidente disallineamento tra norme. In particolare, lo schema di decreto correttivo, all’articolo 39, comma 4, prevede che per le imprese che negli ultimi due esercizi non hanno superato anche uno solo dei seguenti limiti: 1) totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 4 milioni di euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 4 milioni di euro; 3) dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 20 unità, l’obbligo di segnalazione delle situazioni di crisi imprenditoriale a carico degli organi di controllo interno e dei creditori pubblici operi a decorrere dal 15 febbraio 2021.
L’articolo 11 del decreto legge 2 marzo 2020, n. 9 (i cui effetti permangono anche a seguito dell’abrogazione del provvedimento ad opera della legge n. 27/2020) prevede il medesimo differimento (sempre al 15 febbraio 2021), ma lo estende ad una platea di imprese più ampie, ossia tutte quelle rientranti nell’ambito di applicazione del Codice.
Ciò posto e in ossequio al principio che il più contiene il meno, appare opportuno intervenire in sede di approvazione del correttivo con l’abrogazione dell’articolo 39, comma 4.
e) Insolvenza e crisi del gruppo di imprese
Nel Codice, il fenomeno del gruppo d’impresa è per la prima volta oggetto di disciplina organica in ambito concorsuale. La regolamentazione, tuttavia, presenta alcuni profili critici. In particolare:
- il decreto legislativo di riforma prevede finalmente che le società di un gruppo possano chiedere un unico concordato ovvero un unico accordo di ristrutturazione presentando un ricorso contenente un unico piano di risanamento o più piani reciprocamente collegati e interferenti. Tuttavia questa possibilità non è generalizzata, perché la facoltà di un unico ricorso può essere utilizzata solo se si dimostra una maggiore convenienza della procedura unica rispetto ai piani autonomi per ciascuna impresa. Si ritiene pertanto opportuno modificare la norma nel senso della auspicata generalizzazione;
- sebbene la ratio della riforma sia tesa a favorire la gestione unitaria delle procedure di insolvenza, un dato emerge su tutti: nel decreto legislativo n. 14/2019 restano fermi tanto il principio di autonomia delle masse attive e passive delle imprese di gruppo quanto il principio di autonomia giuridica di ciascuna società del gruppo, con tutte le conseguenze che ne derivano. Si pensi, ad esempio, al curatore che può promuovere un’azione revocatoria nei confronti di una delle società di cui è curatore e, quindi, chiede l’autorizzazione al giudice delegato per promuoverla e poi, come curatore dell’altra società, chiede al giudice delegato l’autorizzazione a resistere a tale azione revocatoria;
- nel decreto legislativo n. 14/2019 territorialmente competente è il Tribunale delle Imprese nella cui circoscrizione si trova la società capogruppo, altrimenti è il Tribunale dove ha sede l’impresa con la maggiore esposizione debitoria in base all’ultimo bilancio approvato. Qui, il problema si pone perché il concordato del gruppo di imprese non riguarda tutte le società del gruppo ma solo quelle insolventi e, dunque, potrebbe darsi che la capogruppo non sia insolvente e ciò non di meno si incardina la competenza presso il Tribunale dove questa ha la sede a scapito dei Tribunali dove hanno sede le società insolventi del gruppo.
[1] Il relativo decreto legislativo è stato recentemente approvato dal Governo in esame preliminare.
[2] Cfr. art. 19, dpr 29 settembre 1973, n. 602.
[3] È quanto risulta dai dati Equitalia – oggi AdER.