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La transazione fiscale negli accordi di ristrutturazione dei debiti

19 Maggio 2020

Giulio Andreani, Dottore Commercialista, Tax Partner, Dentons Europe Studio Legale Tributario; Angelo Tubelli, Dottore Commercialista

Di cosa si parla in questo articolo

1. La proposta e gli aspetti procedurali

L’impresa che si trova in una situazione di crisi finanziaria può formulare all’Agenzia delle entrate, nell’ambito della trattative che precedono la stipula di un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis della legge fallimentare, una proposta di transazione fiscale, secondo lo schema della “proposta-accettazione”, allo scopo di ridurre l’importo dei debiti tributari da pagare e di dilazionarne il pagamento, in quanto necessario per conseguire il proprio risanamento aziendale[1]. In sostanza, ai sensi del comma 5 dell’art. 182-ter l.f., il debitore, che intenda definire nelle forme previste dall’art. 182-bis la propria posizione debitoria con l’Erario ed altri creditori, può depositare, presso la direzione provinciale dell’Agenzia delle entrate territorialmente competente sulla base dell’ultimo domicilio fiscale[2], la proposta di trattamento dei crediti erariali accompagnata, in particolare, dal piano di risanamento previsto dall’art. 161 l.f. in tema di concordato preventivo (con la relativa documentazione).

Tale proposta deve essere corredata da copiosa documentazione, di cui si dirà infra, all’interno della quale assumono particolare rilievo il piano di risanamento e l’attestazione di un professionista indipendente, che, oltre alla veridicità dei dati e alla fattibilità del piano come, ha a oggetto anche la capacità dell’impresa debitrice di pagare i creditori non aderenti e la convenienza della proposta formulata all’Erario rispetto ad ipotesi alternative. Sebbene sia richiesta anche dall’art. 182-bis ai fini del procedimento di omologazione, essa deve essere allegata alla domanda di transazione fiscale ai sensi dell’art. 182-ter e deve quindi essere redatta molto tempo prima dell’avvio della fase della omologazione dell’accordo. Questa disciplina genera due criticità operative: la prima concerne l’inevitabile allungamento dei tempi di preparazione della documentazione da presentare all’Agenzia e la seconda il “corto circuito” che si crea – per l’attestatore – tra l’esigenza di predisporre il proprio elaborato prima dell’avvio della trattativa con il Fisco, al quale la proposta deve essere presentata corredata anche dell’attestazione, e quella di conoscere le determinazioni di quest’ultimo per meglio redigere detto elaborato, anche in ordine alla data di efficacia dello stipulando accordo e degli effetti che ne derivano.

La prima criticità si supera, in via pratica, concordando con l’Agenzia il deposito dell’attestazione nelle more della certificazione del debito tributario, posto che ai fini di tale attività tale elaborato non è di alcuna utilità; la seconda[3] attraverso il deposito presso gli Uffici dell’Agenzia della attestazione asseverata contenente una clausola finale in forza della quale l’efficacia della stessa è condizionata al verificarsi (entro la data di presentazione della istanza di omologazione dell’accordo) dell’accettazione della proposta di transazione fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate[4] (oggetto di attestazione, del resto, è la fattibilità del piano di risanamento e non certo la stima delle probabilità di sottoscrizione degli accordi da parte dei creditori con i quali sono state avviate le trattative).

Inoltre, poiché l’art. 29, comma 2, lett. b), del D.L. 31 maggio 2010 n. 78, ha sancito espressamente che l’obbligo di allegazione nell’accordo di ristrutturazione dei debiti prevede adempimenti analoghi a quelli contemplati con riguardo alla proposta di transazione fiscale nel concordato, il debitore – in aggiunta a quelli dapprima richiamati – deve depositare anche i documenti di seguito indicati:

  • una relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa;
  • uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione;
  • l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore e il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili;
  • la copia dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi chiusi (questi ultimi documenti allo scopo di dimostrare la sussistenza dei requisiti soggettivi richiesti per l’assoggettamento alla procedura fallimentare, che sono poi gli stessi per accedere alla procedura di concordato preventivo e, quindi, agli accordi di ristrutturazione dei debiti da omologare ai sensi dell’art. 182-bis)[5].

Alla suddetta documentazione il debitore (o il suo legale rappresentante) deve allegare anche una dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. n. 445/2000 attestante che la documentazione di cui all’art. 161 l.f. rappresenta fedelmente ed integralmente la situazione dell’impresa, con particolare riguardo alle poste attive del patrimonio[6].

Infine, nonostante l’assenza di un espresso richiamo al comma 2 dell’art. 182-ter da parte del comma 5, nella prassi operativa è d’uso depositare anche la copia delle dichiarazioni fiscali per le quali non è pervenuto l’esito dei controlli automatici e delle dichiarazioni integrative relative al periodo fino alla data di presentazione della proposta. Infatti, una volta ricevuta la proposta e la relativa documentazione ad essa allegata, gli Uffici dell’Agenzia devono procedere alla liquidazione dei tributi risultanti dalle dichiarazioni e alla notifica dei relativi avvisi di irregolarità, unitamente a una certificazione attestante l’entità del debito derivante da atti di accertamento, ancorché non definitivi, per la parte non iscritta a ruolo, nonché dai ruoli vistati, ma non ancora consegnati all’agente della riscossione. La certificazione dovrebbe avere idealmente a oggetto i crediti tributari maturati alla data di presentazione della proposta di transazione fiscale, ma ovviamente ciò non è possibile, perché l’amministrazione finanziaria non dispone di tutte le informazioni necessarie per fornire un quadro preciso di tali debiti (se, ad esempio, la domanda viene presentata il 15 aprile di un certo anno, è evidente che il Fisco non ha alcuna conoscenza dei debiti maturati in tale anno e, per diversi tributi, nemmeno di quelli maturati nell’anno precedente); in ogni caso essa può essere aggiornata in seguito, anche con riguardo a successivi inadempimenti da parte del debitore nelle more del procedimento. Del pari l’agente della riscossione deve trasmettere al debitore una certificazione attestante l’entità del debito iscritto a ruolo scaduto o sospeso.

A differenza di quanto previsto con riguardo alla proposta di transazione fiscale presentata nell’ambito del concordato preventivo, il comma 5 dell’art. 182-ter non prevede più per gli Uffici un termine (che sarebbe stato comunque ordinatorio e non perentorio) per il completamento della suddetta attività istruttoria[7], la quale ha lo scopo di verificare la correttezza o meno dei dati riportati nella proposta. L’assenza di un termine pare anch’essa riconducibile alla natura negoziale che l’istituto assume durante le trattative che precedono il raggiungimento dell’accordo con la maggioranza qualificata dei creditori e con la sua pubblicazione[8], ma è normalmente fonte di ingiustificati e penalizzanti ritardi nell’esame (e dunque dell’approvazione) delle proposte di transazione, con pesanti ricadute negative sull’efficacia del risanamento aziendale, anche perché la presentazione della domanda non sospende la riscossione né il recupero coattivo delle somme dovute e le azioni esecutive da parte dell’agente della riscossione.

All’esito dell’attività istruttoria l’Ufficio è chiamato ad esprimere il proprio consenso o il proprio diniego alla proposta ricevuta, alla luce della valutazione circa la sua conformità alla legge e alla sua convenienza rispetto ad ipotesi alternative di soddisfazione dei crediti erariali. Segnatamente, sempre in base al sopra citato comma 5, il direttore dell’Ufficio può esprimere adesione alla proposta, attraverso la sottoscrizione di un apposito atto negoziale, solo se in tal senso si è dichiarata la competente direzione regionale nel parere previamente acquisito.L’atto è sottoscritto anche dall’agente della riscossione in ordine al trattamento degli oneri di riscossione di cui all’art. 17 del D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112. La sottoscrizione da parte di quest’ultimo non deve essere necessariamente contestuale a quella dell’Agenzia delle entrate e, a ben vedere, non costituisce condizione di validità dell’accordo che sia comunque stato sottoscritto con l’Agenzia.

Il Fisco, così come ogni altro creditore, è libero di accettare o rifiutare la proposta depositata dal debitore in ordine al trattamento da riservare ai crediti erariali. In considerazione della particolare natura dei crediti erariali e del principio di buon andamento sancito dall’art. 97 della Cost. (che – come detto nel primo capitolo – giustifica il “sacrificio” del principio di indisponibilità del credito tributario), in dottrina è stata però prospettata la possibilità di impugnare il diniego dell’Agenzia ad accettare la proposta di transazione fiscale. In particolare la comunicazione di mancata accettazione è stata ritenuta impugnabile davanti alle commissioni tributarie ed è suscettibile di annullamento quando non risulti adeguatamente motivata[9](sulla questione si avrà modo di tornare infra).

Infine, sempre in considerazione della natura negoziale che la transazione fiscale assume nell’ambito degli accordi di cui trattasi, l’ultimo comma dell’art. 182-ter disciplina gli effetti derivanti dal mancato adempimento degli obblighi ivi assunti da parte del contribuente, con riguardo unicamente alla transazione fiscale e non all’accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis nel complesso, il quale dovrebbe in linea di principio mantenere la sua efficacia; e ciò anche qualora l’adesione del Fisco all’accordo sia risultato determinante per il raggiungimento della maggioranza qualificata, posto che, intervenendo successivamente, la risoluzione della transazione fiscale non si riflette necessariamente sull’accordo con una sorta di effetto retroattivo.

L’ultimo comma dell’art. 182-ter era invero diretto a colmare una lacuna (tuttora) presente nell’art. 182-bis con riguardo alle conseguenze dell’inadempimento degli obblighi assunti dal debitore negli accordi di ristrutturazione dei debiti (cui non è applicabile in via analogica l’art. 186 l.f. in tema di concordato preventivo), venendo di fatto rimessa alla volontà delle parti la decisione di inserire o meno nell’accordo un’apposita clausola risolutiva espressa ex art. 1457 c.c.[10]. In caso di accordo di ristrutturazione plurilaterale (formato da una serie di contratti funzionalmente collegati dalla causa comune del salvataggio dell’impresa in crisi) occorre però valutare l’incidenza della risoluzione dell’accordo con uno dei creditori aderenti e della essenzialità della partecipazione dello stesso, ai fini sia della verifica circa la permanenza delle condizioni assunte nel piano di risanamento su cui poggia l’accordo, sia del mantenimento dei requisiti richiesti dall’art. 182-bis l.f. per la omologabilità[11]. Tuttavia, giusta il disposto dell’ultimo comma dell’art. 182-ter, sembra da escludere che il venir meno degli effetti degli accordi conclusi con uno più creditori diversi dal Fisco comporti la risoluzione della transazione fiscale, sempre che gli obblighi da essa discendenti vengano regolarmente adempiuti dal contribuente nonostante la risoluzione di tali accordi (il che presuppone peraltro che quest’ultima non produca conseguenze tali, sul piano quantitativo, da incidere significativamente sulla capacità di pagamento dei predetti debiti).

Nella formulazione vigente fino al 31 dicembre 2016 la mancata esecuzione integrale, entro novanta giorni dalle scadenze previste, dei pagamenti dovuti alle Agenzie fiscali ne comportava la revoca di diritto. Peraltro, proprio in ragione della natura negoziale della transazione in dottrina era stato rilevato come, anziché di revoca, sarebbe stato più opportuno parlare di “risoluzione”[12]. Questa osservazione è stata poi effettivamente accolta dal legislatore in occasione della riformulazione dell’art. 182-ter operata con la Legge di Bilancio 2017, giacché il comma 6 dell’art. 182-ter ora stabilisce che la mancata esecuzione integrale, entro novanta giorni dalle scadenze previste, dei pagamenti dovuti alle Agenzie fiscali comporta la risoluzione di diritto della transazione fiscale. Invero, la risoluzione di diritto non costituisce un effetto automatico dell’inadempimento (che, stante l’utilizzo dell’avverbio “integralmente, potrebbe essere oggetto di censura anche qualora risulti soltanto parziale), ma dovrebbe essere precipuamente invocata dalle agenzie fiscali. Posto che la transazione fiscale, secondo l’indirizzo dell’Agenzia delle entrate, non dà luogo a una novazione del debito, per effetto della sua risoluzione rivive il debito fiscale originario, ridotto solo dei versamenti medio tempore eseguiti.

2. Il coordinamento con gli istituti deflativi del contenzioso

La transazione fiscale ha a oggetto principalmente debiti derivanti dal mancato versamento di tributi pacificamente dovuti, ma può riguardare anche debiti solo potenziali in quanto discendenti da atti impositivi contestati dal debitore, per i quali è già pendente o può essere avviato un processo tributario.

In conformità all’indirizzo assunto dall’Agenzia delle Entrate, l’accertamento con adesione, la mediazione tributaria e la conciliazione giudiziale, da un lato, e la transazione fiscale, dall’altro lato, possono convivere e coordinarsi anche nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti. A tale riguardo possono presentarsi le seguenti situazioni, a ognuna delle quali corrisponde una differente disciplina:

  1. la definizione del credito contestato dal Fisco ha luogo mediante l’adesione, la mediazione o la conciliazione nell’ambito delle trattative concernenti la transazione fiscale connessa all’accordo di ristrutturazione. In questo caso si applicano le norme che disciplinano tali istituti, la rideterminazione dell’importo dovuto ha natura novativa e il suo pagamento può essere liberamente eseguito dall’impresa debitrice senza autorizzazione alcuna da parte di terzi, ferme restando le ordinarie scadenze e l’esclusione della falcidia dell’importo dovuto;
  2. la definizione del credito contestato dal Fisco ha luogo per effetto della sottoscrizione dell’atto di transazione fiscale da parte dell’impresa debitrice e dell’Agenzia delle Entrate (senza ricorso ai menzionati istituti deflattivi del contenzioso), concordando la debenza di un importo che tenga conto anche della situazione finanziaria dell’impresa debitrice e una dilazione di pagamento di tale ammontare più ampia di quella prevista dalle ordinarie disposizioni che regolamentano gli istituti deflattivi del contenzioso. L’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti cui è connessa la transazione fiscale non produce effetto novativo, ma consente l’estinzione dei giudizi pendenti, nel presupposto che, in caso di risoluzione della transazione fiscale ai sensi del citato comma 6 dell’art. 182-ter, il debito tributario rivive nel suo importo originario;
  3. la definizione del credito contestato dal Fisco è stata perfezionata, prima dell’avvio delle trattative concernenti la presentazione della proposta di transazione fiscale, mediante un istituto deflattivo, ma l’impresa debitrice non ha provveduto all’integrale pagamento delle somme da esso discendenti. L’Agenzia delle Entrate non si è espressamente pronunciata su questa fattispecie, ma è da ritenersi che essa vada ricondotta alla situazione tipica costituita dal mancato pagamento, da parte del contribuente, di un debito definito e quindi certo, ancorché derivante – in questa ipotesi – aborigine da un accertamento e non dall’omesso versamento di somme pacificamente dovute. Conseguentemente esso può essere oggetto di falcidia e rinegoziazione, circa i tempi di pagamento, al pari degli altri crediti fiscali rimasti insoluti, ferma restando, da un lato, l’insorgenza delle sanzioni che si rendono dovute a causa del mancato adempimento delle obbligazioni assunte dal contribuente mediante l’accertamento con adesione, la mediazione o la conciliazione giudiziale e, dall’altro lato, l’opportuna valutazione dell’Amministrazione finanziaria circa la convenienza della proposta di transazione fiscale, in considerazione della riduzione della originaria pretesa prodotta una prima volta dall’istituto deflattivo e quella generata, una seconda volta, dalla falcidia del debito definito prevista da tale proposta.

3. I criteri di valutazione della proposta

Si è dapprima riferito che, in caso di attivazione della transazione fiscale, l’attestazione richiesta al professionista indipendente dal citato art. 182-bis non deve riguardare unicamente la veridicità dei dati aziendali e l’attuabilità dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Giusta il disposto del comma 5 dell’art. 182-ter, infatti, quando l’accordo concerne anche i crediti erariali assistiti da una causa di prelazione, l’attestazione deve esprimere anche il valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, analogamente a quanto accade con riguardo alla transazione fiscale proposta nell’ambito della procedura concordataria, e, più precisamente, il valore comunque realizzabile mediante soluzioni alternative, al fine di individuare il soddisfacimento dei crediti tributari alternativamente possibile. La determinazione del suddetto valore costituisce il necessario presupposto quantitativo su cui fondare l’esame della convenienza della proposta di trattamento dei crediti erariali rispetto a quanto il Fisco ricaverebbe tramite ipotesi alternative concretamente praticabili, che è oggetto di specifica valutazione da parte dell’autorità giudiziaria competente (che dunque deve puntualmente esprimersi in merito[13]).La specifica valutazione del Tribunale è necessariamente successiva all’accettazione della proposta di transazione fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate, sicché, qualora dovesse essere negativa, l’istanza di omologazione dovrebbe venire rigettata, impedendosi così il perfezionamento della transazione fiscale nonostante la sua formale accettazione da parte dell’Agenzia (sul punto si veda quanto illustrato infra).

A differenza di ciò che à previsto per il concordato preventivo (la cui unica ipotesi alternativa è per l’appunto rappresentata dalla soddisfazione realizzabile sul ricavato in caso di liquidazione sulla base del valore di mercato dei beni o dei diritti sui quali sussiste la causa di prelazione), il termine di raffronto per gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis è rappresentato da una pluralità di ipotesi alternative, con l’unica condizione che devono essere “concretamente praticabili” alla luce dello stato in cui versa l’azienda al momento della predisposizione dell’accordo.

Invero, l’accertamento richiesto a tal fine, pur non coincidendo con esso, sembra richiamare quello previsto dall’art. 186-bis l.f., a norma del quale, nel concordato preventivo con continuità aziendale, deve essere attestato che la prosecuzione dell’attività d’impresa sia “funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”.

Secondo alcune interpretazioni, l’attestatore dovrebbe eseguire la verifica ex art. 186-bis limitandosi a confrontare il soddisfacimento proposto ai creditori mediante la domanda di concordato con quello conseguibile attraverso la liquidazione volontaria del patrimonio del debitore o il fallimento. Tuttavia, poiché il comma 5 stabilisce che la comparazione deve avere a oggetto “le alternative concretamente praticabili”, il legislatore ha espressamente escluso questa limitazione o altre limitazioni di natura oggettiva, che riguardino cioè il tipo di soluzione alternativamente praticabile. Come è desumibile dall’uso dell’avverbio “concretamente”, deve trattarsi di soluzioni effettivamente adottabili (comprese le azioni esecutive individuali), in considerazione della specifica situazione in cui l’impresa debitrice si trova, e non semplicemente applicabili in astratto, indipendentemente dalle circostanze che connotano il caso concreto rispetto al quale l’attestatore è chiamato a esprimere il proprio giudizio. In definitiva, la comparazione richiesta all’attestatore ai fini della transazione fiscale formulata nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti, da sottoporre a specifica valutazione da parte del Tribunale, comprende sì l’accertamento previsto dal comma 1, ma ha un perimetro più ampio, nel senso che ha a oggetto qualunque soluzione alternativa – purché effettivamente attuabile – rispetto a quella proposta, potendo essa riguardare tanto il ricorso a una diversa procedura concorsuale quanto l’adozione di differenti iniziative nell’ambito del tipo di procedura prescelto e al di fuori di esso. Ne discende che, se per esempio la proposta di transazione fiscale prevede il pagamento dei crediti erariali nella misura del 35% del loro valore nominale (incluse le sanzioni e gli interessi), essa non sarebbe conforme alla legge qualora l’attestatore, pur riconoscendo che in caso di liquidazione o fallimento detti crediti non verrebbero soddisfatti in misura superiore a tale percentuale, dichiarasse che essi potrebbero trovare una soddisfazione maggiore attraverso il ricorso alla procedura di concordato preventivo con prosecuzione dell’attività.

In tal senso si è espressa anche l’Agenzia delle Entrate nei propri indirizzi operativi, riconoscendo che la previsione presente nel comma 5 è più onerosa di quella prescritta per il concordato preventivo, poiché l’analisi comparativa non è limitata all’ipotesi fallimentare, ma si estende alla stessa procedura concordataria (di tipo liquidatorio), all’esperimento di eventuali azioni esecutive individuali nonché a qualsiasi altra ipotesi effettivamente (e, dunque, non solo astrattamente) realizzabile.

Sempre in tema di attestazione, nel secondo capitolo si è riferito della posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate nel concordato preventivo, secondo cui non costituiscono “nuova finanza” i flussi finanziari derivanti dagli investimenti generati dalla continuità aziendale oppure ottenuti all’esito dell’attività liquidatoria gestita in sede concordataria, poiché si tratta di valori che entrano direttamente nel patrimonio del debitore. La medesima precisazione non è stata ribadita con riguardo all’attestazione da rendere nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, ma questa constatazione, di per sé, non potrebbe invero legittimare alcuna conclusione in proposito.

A ben vedere la ragione che induce a ritenere che la medesima problematica non possa comunque riguardare la soddisfazione parziale proposta nell’ambito degli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis va, invece, rinvenuta nel fatto che per essi non trova applicazione il disposto dell’art. 160, comma 2, l.f., sulla cui rigida interpretazione ed applicazione si fonda l’indirizzo dell’Agenzia. Le regole esposte relativamente ai criteri di attribuzione dell’attivo ai creditori sono applicabili al concordato preventivo in continuità, ma, in ogni caso, non all’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis, posto che in tale ambito i creditori possono liberamente e singolarmente prevedere un trattamento dei loro crediti differenziato, indipendentemente da quello convenuto con il debitore dagli altri creditori, privilegiati di grado superiore o inferiore o chirografari che siano (restano invece fermi il divieto di trattamento deteriore dell’erario e la necessità che il soddisfacimento dei crediti fiscali proposto sia più conveniente di quello discendente da qualsiasi altra soluzione concretamente praticabile). Infatti il concetto di “nuova finanza” non rileva ai fini degli accordi ristrutturazione, alla cui stipula i creditori ben possono aderire rinunciando all’applicazione degli artt. 2740 e 2741 c.c.; e lo stesso accade per il Fisco, una volta accertato che i criteri di trattamento dei crediti erariali siano stati rispettati nel raffronto con gli altri creditori aderenti, nonché di quello concernente la convenienza della proposta a confronto delle ipotesi alternative praticabili di cui al comma 5.

Ciò che l’Agenzia delle Entrate deve considerare a tal fine è il confronto tra quanto può realizzare l’Erario sulla base della proposta di transazione fiscale oggetto di esame e quanto può incassare in ciascuna delle ipotesi alternative concretamente praticabili (compresa la liquidazione dell’impresa), nel rispetto dell’applicazione delle legittime cause di prelazione. Questo confronto e il relativo giudizio di convenienza sono – come detto – oggetto di specifica attestazione da parte del professionista indipendente incaricato di attestare il piano di risanamento ovvero di altro professionista munito dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), l.f.; tuttavia l’Agenzia delle Entrate, nei propri indirizzi operativi, ha più volte ritenuto di potersi discostare dalle conclusioni cui l’attestatore è giunto in merito, quando sussistano apprezzabili motivi per disattendere alcune risultanze dell’attestazione o per giudicarla inattendibile in linea generale.

È inoltre necessario, secondo l’Agenzia delle Entrate, che venga valutata la serietà della proposta, allo scopo di evitare di dar corso a un risanamento a favore di soggetti che hanno sistematicamente e volontariamente omesso nel corso degli anni di versare le imposte dovute, accrescendo i debiti tributari a vantaggio di altri creditori, così come occorre evitare di concedere stralci a favore di soggetti che hanno compiuto atti distrattivi. A questo riguardo deve essere tuttavia considerato che scopo della transazione fiscale è quello di consentire al Fisco il recupero dei propri crediti nella misura più elevata possibile; occorre pertanto ripetere che, se una proposta di transazione è per l’Erario più conveniente di qualsiasi altra soluzione e il piano su cui si fonda è affidabile, tale proposta deve essere approvata in applicazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione, indipendentemente dalla commissione di comportamenti censurabili da parte degli amministratori dell’impresa debitrice. Deve infine essere valutato l’effetto positivo che il risanamento reso possibile dalla transazione fiscale produce in termini economici generali, assicurando il mantenimento di posti di lavoro, evitando gli oneri pubblici conseguenti all’utilizzo di ammortizzatori sociali, e costituendo le premesse per il realizzo di futuri redditi suscettibili di generare il pagamento di ulteriori imposte da parte dell’impresa, sei suoi dipendenti e di tutti i suoi stakeholder.

4. Le modalità di pagamento del credito erariale

Poiché l’art. 182-bis l.f. dispone che il debitore deve pagare integralmente tutti i creditori della società rimasti estranei all’accordo di ristrutturazione dei debiti, con una moratoria legale di centoventi giorni, decorrenti dall’omologazione dell’accordo ovvero dalla data di scadenza, a seconda che si tratti di debiti scaduti o meno al momento dell’omologazione, giova domandarsi se, in assenza di transazione fiscale, tale previsione sia compatibile con la possibilità di chiedere la rateazione, ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602. Infatti, nell’esaminare i termini di pagamento ammessi con riguardo al concordato preventivo si è avuto modo di riferire che, secondo la prassi amministrativa, la dilazione di pagamento dei tributi e delle relative sanzioni concedibile in tale sede non deve essere superiore a quella prescritta in via ordinaria dall’art. 19 del D.P.R. 602/1973, a norma del qualel’agente della riscossione, su specifica richiesta del contribuente, può concedere, in situazione di obiettiva e temporanea difficoltà di quest’ultimo, il pagamento dell’importo dovuto in settantadue rate mensili.

Già in via ordinaria può quindi essere concessa una dilazione di pagamento dei tributi e degli accessori dovutigli fino a settantadue rate mensili, che corrispondono a una durata della dilazione pari a sei anni; la rateazione può essere aumentata fino a centoventi rate mensili ove il debitore si trovi, per ragioni estranee alla propria responsabilità, in una comprovata e grave situazione di difficoltà legata alla congiuntura economica e, in caso di peggioramento della situazione finanziaria del contribuente, può essere aumentata fino ad un massimo di ulteriori settantadue rate mensili.

A favore della compatibilità depone il fatto che, se l’introduzione della suddetta moratoria legale di centoventi giorni impedisse la dilazione del pagamento dei debiti di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973, la disciplina – prevista per favorire le imprese nel risolvere le loro crisi aziendali – finirebbe invece per penalizzare queste ultime, violando la ratio della riforma del citato art. 182-bis l.f.; inoltre il rapporto sussistente tra le due norme testé citate dovrebbe essere interpretato applicando il principio di specialità e l’art. 19 presenta indubbi elementi specializzanti facendo riferimento, da un lato, solo ai debiti riscossi mediante ruolo (mentre l’art. 182-bis si riferisce alla generalità dei debiti) e, dall’altro, prevedendo per gli stessi una specifica modalità di adempimento dilazionato, tramite la rateazione, non estensibile agli altri crediti, in assenza di accordi con i singoli creditori. Infine, la concessione – da parte dell’agente della riscossione – della dilazione di cui all’art. 19 non può essere ostacolata dal fatto che il contribuente abbia stipulato un accordo di ristrutturazione dei debiti. In caso contrario, si creerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra contribuenti che si trovano nella medesima situazione di obiettiva difficoltà, con la violazione del principio di uguaglianza stabilito dall’art. 3 Cost., nonché del principio del buon andamento della pubblica amministrazione stabilito dall’art. 97 Cost.

Tuttavia, nella prassi operativa tale possibilità viene negata, giacché secondo l’agente della riscossione:

  1. la richiesta di beneficiare della rateizzazione prevista dall’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973 deve essere accompagnata da un’autocertificazione del debitore di non avere avviato il procedimento giudiziale per l’omologa dell’accordo di ristrutturazione;
  2. l’avvenuto deposito, all’atto di presentazione della richiesta di rateizzazione, di un’istanza di sospensione delle azioni cautelari ed esecutive ex art. 182-bis, comma 6, comporta il diniego della rateizzazione, poiché il deposito della suddetta istanza testimonierebbe che la situazione di obiettiva difficoltà del debitore non è temporanea (come richiesto dall’art. 19), dovendosi attendere la conclusione della procedura per l’accertamento di tale carattere;
  3. l’avvenuto deposito, all’atto di presentazione della richiesta di rateizzazione, del ricorso per ottenere l’omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis, cui non ha aderito l’ente impositore cui si riferiscono i debiti dei quali l’impresa ha chiesto di rateizzare il pagamento, comporta il rigetto della richiesta di dilazione, giacché, da un lato, l’attestazione che accompagna il ricorso testimonierebbe l’esistenza di una obiettiva difficoltà di carattere non permanente e, dall’altro, l’accordo presupporrebbe l’attestata sussistenza, in capo all’impresa debitrice, di risorse finanziarie in grado di consentire il pagamento dei debitori rimasti estranei all’accordo entro centoventi giorni dalla omologazione o dalla loro scadenza.

Resta comunque pacificamente ammissibile la presentazione della richiesta di rateizzazione ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973 prima di quella dell’istanza di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Inoltre occorre rilevare che, ai sensi del comma 1 dell’art. 182-bis, l’accordo di ristrutturazione dei debiti deve assicurare l’integrale pagamento dei creditori rimasti estranei ad esso “entro centoventi giorni dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data” oppure “entro centoventi giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla data dell’omologazione”, sicché i tempi di pagamento dei debiti tributari di cui è stata richiesta la rateizzazione prima della proposta di transazione fiscale, che sono rimasti estranei all’accordo e che alla data dell’omologazione non sono ancora scaduti, restano quelli previsti nel piano di rateizzazione convenuto con l’agente della riscossione.

Per altro verso, l’omologa di un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis accompagnato dalla transazione fiscale di cui all’art. 182-ter comporta la decadenza del piano di rateizzazione già accettato da parte dell’agente della riscossione, le cui tempistiche di pagamento vengono sostituite da quelle previste dalla transazione fiscale. Poiché la conclusione della transazione fiscale costituisce un sub-accordo facente parte integrante del complessivo accordo di ristrutturazione dei debiti e poiché l’art. 182-ter non pone particolari limiti e vincoli con riguardo alla dilazione dei tempi di pagamento dei debiti dovuti (richiedendo un trattamento dei crediti erariali “su misura”, variabile da contribuente a contribuente e da caso a caso, in considerazione della specifica situazione finanziaria e delle previsioni di recupero dell’equilibrio economico di ogni singola impresa), il debitore e il Fisco sono liberi di negoziare la relativa tempistica. Va infatti ricordato che, quando la transazione fiscale è attuata nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis, ha efficacia solo nei confronti dei creditori che vi aderiscono, i quali sono liberi di negoziare il trattamento che credono (fatta salva la necessità di provvedere al pagamento di quelli non aderenti nel termine previsto dalla norma testé citata).

5. La rinegoziazione dell’accordo di ristrutturazione in corso di esecuzione

Un ulteriore aspetto che merita di essere approfondito concerne il caso in cui, successivamente alla stipula di un atto di transazione fiscale nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti e alla omologazione di tale accordo, l’impresa debitrice si venga a trovare nell’impossibilità di adempiere alle obbligazioni oggetto dell’atto di transazione sottoscritto e ne proponga quindi la modifica.

In assenza di espresse disposizioni normative, le modifiche richieste, a seconda della loro rilevanza, possono rendere necessaria la stipula di un nuovo accordo transattivo (da omologare nuovamente) oppure possono essere acquisite mediante una mera integrazione dello stesso[14].

Se le modifiche richieste riguardano modalità e condizioni di pagamento (per la temporanea difficoltà sopravvenuta ad adempiere alle scadenze pattuite), esse possono essere introdotte mediante un semplice atto integrativo di quello precedentemente stipulato[15]. Se la modifica consiste invece nella rideterminazione del debito con ulteriore abbattimento della pretesa tributaria o in una rimodulazione dei tempi di pagamento talmente ampia da incidere sul giudizio di sostenibilità del piano nei termini stimati dall’attestatore, la procedura disciplinata dall’art. 182-bis va ripercorsa ex novo, dovendosi procedere ad una nuova certificazione dei debiti tributari e alla stipula di un’altra transazione fiscale, oltre che di un nuovo accordo di ristrutturazione da omologare.

L’orientamento assunto in merito dall’Agenzia delle Entrate risulta in linea con quello finora desumibile dalla (piuttosto scarna) giurisprudenza di merito sugli effetti derivanti dalla rinegoziazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati ai sensi dell’art. 182-bis[16]. Infatti, in presenza della necessità di rinegoziare l’accordo attraverso la modifica del piano di risanamento per cause sopravvenute, l’esigenza di ripercorrere ex novo l’iter previsto dalla norma citata, e di richiedere in particolare una nuova attestazione e una nuova omologazione, è fatta dipendere dall’importanza delle criticità emerse con riguardo all’attuabilità dell’originario piano di ristrutturazione e dalla rilevanza dei correttivi da apportare in tema di modalità, tempi e misura di soddisfazione dei creditori.

Sul carattere “essenziale” o meno delle modifiche apportate è incentrato anche l’art. 58 del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (“Codice dalla crisi di impresa e dell’insolvenza”) che disciplina espressamente le ipotesi di “rinegoziazione degli accordi o modifiche del piano”, stabilendo che, se prima dell’omologazione intervengono modifiche sostanziali del piano, occorre richiedere il rinnovo dell’attestazione al professionista e delle manifestazioni di consenso ai creditori aderenti; qualora le modifiche sostanziali del piano si rendano invece necessarie dopo l’omologazione, occorre procedere ad una nuova pubblicazione dello stesso nel registro delle imprese.

6. Efficacia del decreto di omologazione dell’accordo ed effetti del decreto di diniego

A differenza di quanto previsto per il decreto di omologazione del concordato preventivo, l’art. 182-bis non stabilisce espressamente la data in cui il decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti assume efficacia. Tuttavia, atteso che la medesima norma fa decorrere dalla data di omologazione i termini entro cui addivenire al pagamento dei crediti di cui sono titolari i creditori rimasti estranei all’accordo, è da ritenere che da tale data esso acquisti efficacia e sia quindi esecutivo, ancorché provvisoriamente, siccome soggetto a reclamo dinanzi alla Corte d’Appello entro quindici giorni dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese secondo le disposizioni dell’art. 183 l.f. (in quanto applicabili).

L’Agenzia non ha fornito alcuna indicazione circa la possibilità di definire in via transattiva la causa avente a oggetto il reclamo dell’Amministrazione contro l’avvenuta omologazione del concordato, nonostante il rigetto della proposta di transazione fiscale e l’opposizione alla omologazione stessa da parte del Fisco. Anche se questa fattispecie non è disciplinata, è da ritenersi che tale definizione sia consentita sulla base delle regole del processo, dovendo in tal caso l’Agenzia valutare la congruità dell’offerta propostale dall’impresa debitrice per dirimere la lite, rispetto ai presumibili vantaggi derivanti dalla prosecuzione della causa; la definizione non è infatti ostacolata da alcuna disposizione di legge né dal principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, il quale opera, nei limiti in cui opera, a livello sostanziale, mentre sul piano processuale la parte pubblica è una parte come le altre; costituisce, anzi, corretta applicazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione sancito dall’art. 97 Cost. l’adozione della soluzione più conveniente per l’Erario.

Poiché per espressa previsione normativa la stipula della transazione fiscale è ammessa solo se costituente parte integrante di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis, è unicamente con l’omologazione dell’accordo che la transazione fiscale può acquistare efficacia, analogamente a quanto accadeva con riguardo al perfezionamento della transazione fiscale che (nel regime ante Legge di Bilancio 2017) assisteva la domanda di accesso alla procura di concordato preventivo. Se così non fosse, il debitore potrebbe usufruire degli effetti della transazione fiscale limitandosi a ottenere l’accettazione della relativa proposta da parte delle agenzie fiscali, ma senza restare soggetto al controllo giurisdizionale imposta dall’art. 182-bis, che perciò è appositamente richiamato dal comma 5 dell’art. 182-ter, e ciò non è consentito da tale disposizione.

In altri termini, l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti costituisce il necessario presupposto affinché la transazione fiscale possa acquistare efficacia, insieme all’espressa accettazione della stessa da parte del Fisco. Ne discende altresì che l’ulteriore effetto discendente dall’omologazione dell’accordo, rispetto all’esenzione dalla revocatoria degli atti, delle garanzie dei pagamenti posti in essere in esecuzione dello stesso e alla prededucibilità dei finanziamenti erogati ai sensi dell’art. 182-quater l.f., è dunque rappresentato proprio dal perfezionamento della transazione fiscale (se proposta).

Per le medesime ragioni tali effetti non possono prodursi in caso di rigetto dell’omologazione (a causa dell’esito negativo del controllo di legittimità operato dal Tribunale), benché le pattuizioni di natura privatistica convenute con tutti gli altri creditori siano di per sé atte a mantenere la loro efficacia (a meno che non siano state espressamente subordinate alla omologazione dell’accordo, come normalmente accade), in quanto disciplinate dalla volontà negoziale ivi espressa: non si tratterebbe però dell’accordo di cui all’art. 182-bis; sarebbe magari riconducibile a quello previsto dall’art. 67 l.f., nel cui ambito la transazione fiscale non può tuttavia trovare applicazione[17].Ad ogni buon conto normalmente l’Agenzia delle Entrate richiede l’inserimento, nella proposta di transazione fiscale, della clausola risolutiva per cui la mancata omologazione dell’accordo costituisce ipotesi di risoluzione automatica della transazione fiscale, sicché al verificarsi di detto evento l’Agenzia comunica al debitore la propria volontà di avvalersene; salvo il caso in cui la risoluzione non sia condizionata al rigetto in via definitiva della omologazione. In questa ipotesi, infatti, poiché il decreto di rigetto del tribunale è soggetto a reclamo, la risoluzione interverrebbe solo all’esito del reclamo stesso. Tuttavia, tenuto conto della possibilità del contribuente di proporre reclamo avverso i diniego di omologazione, questi potrebbe presentare contestualmente al giudice istanza di sospensione del provvedimento, temendo gli effetti della riattivazione delle azioni esecutive, nel qual caso l’Agenzia può valutare l’opportunità di attendere l’esito del reclamo prima di comunicare la risoluzione della transazione e la riattivazione delle azioni esecutive sospese nelle more del procedimento di omologazione[18].

Altro rimedio contro il rigetto della omologazione è chiaramente rappresentato dalla presentazione di una nuova istanza di omologazione avente ad oggetto un accordo emendato (ovvero un accordo accompagnato da un’attestazione emendata) delle criticità precedentemente rilevate dall’autorità giudiziaria, cui sia connessa una transazione fiscale analoga a quella già accettata dall’Agenzia delle Entrate.

 


[1] Ciò spiegherebbe perché nel comma 5 dell’art. 182-ter il legislatore abbia mantenuto la locuzione “transazione fiscale” ed abbia utilizzato i termini “adesione” e “assenso” alla proposta, quasi a voler sottolineare il contenuto prettamente privatistico (a formazione progressiva) che ancora caratterizza la proposta di trattamento dei crediti tributari e contributivi presentata nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. L’utilizzo della locuzione “transazione fiscale” nel comma 5 è stato invece considerato un refuso, in cui sarebbe incorso il legislatore nella riscrittura dell’art. 182-ter con la Legge di Bilancio 2017, da E. Stasi, “Falcidiabilità dell’iva nella vecchia e nuova disciplina del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 1/2020, pag. 85. Secondo F. Paparella, “Il nuovo regime dei debiti tributari di cui all’art. 182-ter L.F.: dalla transazione fiscale soggettiva e consensuale alla retrogradazione oggettiva”, in Rassegna tributaria n. 2/2018, pag. 330, sarebbe stato più appropriato richiamare lo schema della rinunzia o del contratto remissorio.

[2] L’ultimo domicilio fiscale del contribuente va individuato alla data di presentazione della proposta di transazione fiscale. Qualora nelle more dell’istruttoria il debitore trasferisca la sede legale della propria impresa, tale variazione non assumerà rilevanza a tal fine, permanendo la competenza in capo all’Ufficio presso il quale l’istanza è stata presentata.

[3] Cfr. A. Albano, M. Tamburini, cit., pag. 3657. In senso critico verso il mancato coordinamento legislativo si veda anche M. Spadaro, “Il trattamento dei crediti tributari e contributivi secondo il nuovo art. 182-ter l.fall.”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 1/2018, pag. 16. Peraltro l’attestazione richiesta ai sensi dell’art. 182-ter, comma 5, attiene a profili differenti rispetto a quelli cui si riferisce l’attestazione richiesta dall’art. 182-bis, per il che potrebbe ipotizzarsi in astratto la coesistenza di due attestazioni rilasciate da due esperti diversi. Per converso, il fatto che i contenuti dell’attestazione siano indicati da due norme diverse non significa che occorrano necessariamente due attestazioni, potendo essere presentata un’unica attestazione contenente una sezione dedicata al confronto tra il (miglior) trattamento derivante dall’esecuzione dell’accordo e quello discendente dalle alternative concretamente praticabili, così come espressamente confermato dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 16/E/2018.

[4] In linea generale i principi di attestazione dei piani di risanamento (quali approvati dal CNDCEC con delibera del 3 settembre 2014) non ammettono che l’attestazione sia sottoposta a riserve o a indicazioni cautelative che ne limitino la portata. Tuttavia al par. 8.4.7 di detto documento si prevede quanto segue: “Qualora la fattibilità del Piano dipenda da specifici eventi futuri circoscritti nel tempo (quali ad esempio la firma da parte dei creditori degli accordi esaminati dall’Attestatore in bozza o l’esecuzione entro un termine di un determinato contratto), l’attestazione è immediatamente efficace se l’Attestatore attesta che sussiste una elevata probabilità che essi si verifichino; è sospensivamente condizionata negli altri casi. Nel secondo caso, la condizione deve verificarsi perché l’attestazione produca i propri effetti. L’attestazione condizionata è da considerarsi ammissibile purché gli eventi iniziali siano specificamente individuati ed esplicitati dall’Attestatore che deve anche indicare l’orizzonte temporale entro il quale devono verificarsi”.

[5] Ai sensi dell’art. 1, comma 2, l.f., sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo le imprese che congiuntamente: 1- nei tre esercizi antecedenti hanno presentato un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo superiore a 300.000 euro; 2- nei tre esercizi antecedenti hanno maturato ricavi lordi di ammontare complessivo annuo superiore a 200.000 euro; 3- l’ammontare di debiti, anche non scaduti, è superiore a 500.000 euro.

[6] L’art. 11, comma 2, del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque presenti la documentazione ai fini della procedura di transazione fiscale con errori rilevanti, ovverosia con elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o con elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo a 50.000 euro.

[7] Il comma 6 dell’art. 182-ter vigente fino al 31 dicembre 2016 prevedeva, invece, che l’Agenzia avrebbe dovuto rispondere alla proposta di transazione fiscale entro trenta giorni dal suo deposito, il che presupponeva il completamento dell’attività istruttoria entro il medesimo termine.

[8] In dottrina è stata rilevato come l’intervento dell’Amministrazione finanziaria costituisca esercizio dell’attività autoritativa di accertamento. Così A. Albano, M. Tamburini, cit., pagg. 3659 e 3661, che altresì censurano l’assenza di un termine perentorio per il rilascio della certificazione, la cui eccessiva dilatazione può compromettere la conclusione positiva dell’accordo.

[9] In tal senso, per esempio, si esprime la sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, 1° dicembre 2017, n. 26135. Sul punto si vedano anche A. Albano, M. Tamburini, cit., pagg. 3657 e 3658.

[10] La risoluzione dell’accordo di ristrutturazione per inadempimento può quindi essere richiesta dai creditori che lo hanno sottoscritto, ma non da quelli che ne sono rimasti estranei. Cfr. C. Trentini, Sub art. 182-bis, in Codice commentato del fallimento, (diretto da) G. Lo Cascio, 2017, pag. 2425; V. Zanichelli, I concordati giudiziali, 2010, pag. 619; G. Racugno, “Gli accordi di ristrutturazione dei debiti”, in Giurisprudenza commerciale, 2009, I, pagg. 667 e 668.

[11] Cfr. C. Proto, “Gli accordi di ristrutturazione dei debiti”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 2/2006, pag. 131; A. Patti, Crisi d’impresa e ruolo del giudice, 2009, pag. 81.

[12] Cfr. A. La Malfa, F. Marengo, cit., pag. 243, che rilevavano come la revoca fosse un rimedio proprio degli atti amministrativi unilaterali della pubblica amministrazione.

[13] In quanto espressamente richiesta una sua valutazione circa tali aspetti, si deve considerare legittima un’attività di indagine su iniziativa diretta del Tribunale o conseguente a specifiche osservazioni elevate in sede di opposizione all’istanza di omologazione. Cfr. M. Spadaro, cit., pagg. 16 e 17.

[14] Cfr. M. Arato, “Modifiche all’accordo di ristrutturazione dei debiti”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 2/2012, pag. 205.

[15] Si veda al riguardo la risposta n. 414 dell’11 ottobre 2019 fornita dall’Agenzia delle entrate con riferimento a un’istanza di interpello riferita agli effetti prodotti, ai fini dell’applicazione dell’art. 88, comma 4-ter, del T.U.I.R., da un nuovo accordo sottoscritto dall’impresa istante con i creditori aderenti a un precedente accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis l.f., la cui efficacia temporale era stata così concordemente estesa allo scopo di consentire l’esecuzione delle formalità necessaria per dare corso alla vendita immobiliare ivi prevista. Al riguardo l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto che l’integrazione nei termini suddetti dell’accordo di ristrutturazione originariamente omologato non presenta effetti novativi e dunque non comporta la necessità di procedere ad una nuova omologazione dell’accordo di ristrutturazione; di conseguenza è sufficiente l’iscrizione dell’integrazione nel registro delle imprese per ricondurre nell’alveo dell’art. 88, comma 4-ter, del T.U.I.R. la riduzione dei debiti dell’impresa che ne è conseguita, sebbene avvenuta in data successiva alla scadenza dell’accordo oggetto di omologa.

[16] Cfr. Trib. Terni, 4 luglio 2011; Trib. Milano, 17 giugno 2009 e 30 novembre 2010.

[17] Cfr. A. La Malfa, F. Marengo, cit., pagg. 238 e 239.

[18] La sospensione delle azioni esecutive, infatti, opera dalla data di pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese fino alla emanazione del decreto da parte del tribunale. Ai sensi del comma 2 dell’art. 182-bis, infatti, l’accordo acquista efficacia dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese.

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