SOMMARIO: Premessa; Abstract; 1. Ricostruzione del sottostante, complessivo approccio regolamentare adottato nel Documento dalla Commissione, nei suoi presupposti e finalità; 2. La nozione rilevante di “prodotto finanziario” applicabile ai token; 3. L’approccio regolatorio adottato nel Documento: concessione di una “deroga” dalla disciplina dei “prodotti finanziari”, subordinatamente alla duplice circostanza dell’utilizzo di “piattaforme di offerta regolate” e di “sistemi di scambio vigilati”; 4. Conseguenti e preliminari considerazioni critiche in relazione alla “breve descrizione del fenomeno” offerta nel par. 1 del Documento; 5. In particolare, gli “Utility Token” quale nuova (rinnovata) “terza via” per il “finanziamento” dell’attività di impresa?; 6. Conseguenti considerazioni e proposte di affinamento in relazione agli “aspetti definitori” suggeriti nel par. 2 del Documento; 7. Conseguente inquadramento critico della proposta regolatoria formulata nel par. 3 del Documento in relazione alla necessità di far ricorso a “piattaforme per le offerte di cripto-attività” regolate e vigilate, quale condizione per accedere al regime di “deroga” dalla disciplina dei “prodotti finanziari”; 8. Considerazioni critiche in relazione alla proposta regolatoria formulata nel par. 4 del Documento in relazione alla necessita di accedere a “sistemi di scambi di cripto-attività” autorizzati e vigilati quale ulteriore condizione per accedere al regime di “deroga” dalla disciplina dei “prodotti finanziari”; 9. Prospettive regolatorie ulteriori e a più lungo termine.
Premessa
La Consob ha avviato in data 19 marzo 2019 una “consultazione pubblica” sul Documento per la Discussione avente ad oggetto “Le offerte iniziali e gli scambi di cripto-attività”, (il “Documento”)[1] che delinea un primo approccio regolatorio domestico ai fenomeni ormai internazionalmente noti come ICO di “crypto-asset”[2], nell’attesa che maturino i tempi di un intervento armonizzato in sede europea[3] ove, come noto, il fenomeno è attualmente in fase di avanzato monitoraggio e di studio al fine di individuare le migliori strategie regolamentari per approcciarlo efficacemente.
L’analisi del Documento – al fine della sua comprensione e valutazione critica – richiede l’applicazione “incrociata” di competenze di “diritto dei mercati finanziari”, con una approfondita comprensione del fenomeno dei crypto-asset, nella loro dimensione tecnologica e operativa e nella prospettiva tipicamente delocalizzata e trans-nazionale che li caratterizza.
Abstract
Il Documento risulta ispirato da una encomiabile e condivisibile volontà “agevolatrice” del fenomeno – con l’obbiettivo di sottrarlo, quindi, a limiti e rigidità che oggi esso presenta nell’ordinamento domestico in maniera anche più stringente di quanto possa osservarsi in altre giurisdizioni, anche europee – proponendo soluzioni regolatorie certamente interessanti e auspicabili. In uno spirito di analisi costruttiva dell’impostazione prefigurata da Consob, abbiamo inteso evidenziare in appresso alcune possibili “correzioni di prospettiva”, che potrebbero rendere più incisivo l’intervento regolatorio proposto. Tre in particolare gli interventi di riconsiderazione critica che si avanzano nel presente lavoro, sviluppando più nel dettaglio in appresso il sottostante percorso ricostruttivo che li giustificano.
a). Affinamento di alcuni profili definitori. (punti da 1 a 50)
Preliminare e funzionale alla corretta comprensione delle opzioni (definitorie e, quindi, disciplinari) prospettate nel Documento, è risultata una attenta ricostruzione – nei suoi presupposti e nelle sue implicazioni – della ratio e degli obiettivi perseguiti con il prospettato intervento regolatorio dalla Commissione. In tal senso, l’intervento in esame risulta riconducibile: (i) in primis e sostanzialmente, alla volontà di disegnare un safe harbour per quei token che – pur non essendo qualificabili e/o descrivibili come “strumenti finanziari” o “prodotti d’investimento, tale situazione rimanendo espressamente e consapevolmente sottratta all’ambito regolamentare qui considerato da Consob – siano cionondimeno qualificabili e/o descrivibili, in virtù dei tratti che presentino, in termini di “prodotti finanziari” e conseguentemente sottoposti alla relativa disciplina domestica oggi ad essi applicabile, nel caso in cui siano oggetto di offerta pubblica e/o “promozione e collocamento a distanza”; secondariamente (ii) a supportare un ulteriore istanza regolatoria che pare enunciata e perseguita dalla Commissione, volta a disegnare un incentivo, anche per le ICO che non necessitassero della suddetta deroga disciplinare, (non essendo i relativi token riconducibili alla nozione di “prodotto finanziario”), ad avvalersi comunque di “piattaforme regolate” per lo svolgimento dell’ offerta, al fine di perseguire vantaggi di natura essenzialmente reputazionale.
Una volta così ricostruito l’intento perseguito dal Regolatore e conseguentemente delimitato, con particolare riguardo all’istanza regolatoria di cui sopra sub (i), l’ambito “necessario” del suo intervento ai soli token qualificabili – secondo la tassonomia internazionalmente invalsa – come utility token o payment token, si è innanzitutto suggerita l’opportunità di adottare una definizione diversa da quella di “cripto-attività” (traduzione letterale di “crypto-asset”) qui proposta dalla Commissione per riferirsi al fenomeno da sottoporre a regolazione. Per quando appena detto, infatti, l’ambito regolatorio nel radar della Commissione, appare subito e per sua esplicita e consapevole opzione, assai più circoscritto rispetto a quello ben più ampio dei “crypto-asset” (categoria che nella tassonomia classica ricomprende infatti anche i security token descrivibili o qualificabili come “strumenti finanziari” o “prodotti d’investimento”); in assenza di una tale accortezza linguistica il rischio è quello di ingenerare facili fraintendimenti nella lettura che di esso venisse fatta, soprattutto da parte di osservatori stranieri.
Ciò chiarito, si è quindi ritenuto di evidenziare il limite insito di alcune opzioni regolatorie adottate dall’Autorità di vigilanza e recepite a livello di contenuto nel proposto concetto di “cripto-attività”; opzioni che, non risultando pienamente aderenti al sottostante fenomeno, rischierebbero dunque di escludere dal prefigurato intervento regolatorio “di favore” – ma allora del tutto paradossalmente e ingiustificatamente – proprio quelle fattispecie che più paiono oggi meritevoli di esso, rischiando così di ingessare il mercato e i suoi possibili sviluppi. Ci riferiamo qui alla categoria degli “utility tokens” e, in particolare, a quelli tra essi che non risultino caratterizzati dal requisito della “negoziabilità” su “mercati secondari”, tale parendo essere oggi la maggioranza delle esperienze osservabili sul nascente (tumultuosamente incipiente) mercato. Considerazioni critiche di analogo tenore, con riguardo alla definizione di “cripto-attività” da sottoporre a regolazione quale proposta nel Documento, potranno avanzarsi con riferimento a quei token che, pur non essendo “strumenti finanziari” ma presentando cionondimeno tutti i tratti qualificanti della fattispecie “prodotti finanziari”, (rectius “altri investimenti”), risulterebbero esclusi dalla possibilità di rientrare nel safe harbour (o sand-box) così approntato, per il sol fatto di non presentare quell’ulteriore “requisito” che pare richiesto dalla definizione proposta e consistente nel risultare, essi token, funzionali al “finanziamento di progetti imprenditoriali”; tale ultimo elemento oltre ad essere anch’esso di per sé estraneo – al pari di quello della negoziabilità – alla fattispecie degli “altri investimenti”, sottoposti come tali alla disciplina domestica dei “prodotti finanziari” appare, comunque, altamente fuorviante rispetto all’esigenza di pervenire ad una efficace delimitazione delle categorie degli utility e dei payment token (oggetto dello specifico intervento regolatorio), rispetto alla categoria dei security token (esclusa invece qu quello) . Quest’ultima considerazione critica viene formulata sul presupposto che, sottese alle istanze di regolazione ritenute meritevoli di considerazione da parte della Commissione, non vi siano (anche) quelle di affidare alla disciplina del fenomeno il perseguimento di obiettivi di “politica industriale” nazionale; prospettiva infatti che non emerge mai esplicitamente nel Documento (anche se forse potrebbe intravvedersi sottesa a certe opzioni analitiche e disciplinari adottate? V. punti 8, 9 e 71 (v)).
Infine, con specifico riferimento proprio a tali utility tokens, dopo una attenta ricostruzione del loro peculiare sostrato negoziale, in ottica civilistica, non si potrà non avanzarsi la delicata e intrigante questione di quali possano ritenersi i limiti (quantitativi e strutturali) oltre i quali, la loro natura di emergente, nuova (rinnovata?) modalità “finanziamento” (o “pre-finanziamento”) dell’attività d’impresa – utilizzando qui il termine in senso “economico”, lato e giuridicamente a-tecnico, (ponendosi nella prospettiva dell’”investitore”/acquirente) – e, corrispondentemente, di emergente, nuova (rinnovata?) modalità di “raccolta di capitali” (ponendosi invece nella prospettiva dell’”emittente”/venditore), non trascolori in un vero e proprio “finanziamento” ovvero in un “conferimento” – qui utilizzando invece i termini in senso stretto e giuridicamente “tecnico” – e quindi in “strumenti finanziari” di raccolta (di debito o equity), a prescindere da quella che risulta essere la “causa” civilistica sottostante, qui perlopiù, come vedremo, formalmente riconducibile ad una di “compravendita di bene futuro” e non (almeno formalmente, appunto) ad una di di un vero finanziamento, “ ex mutuo”, ovvero “conferimento” di capitale di rischio.
Alla luce dell’analisi che verrà svolta si perverrà infine a suggerire l’adozione di una definizione più analiticamente pregnante e più concettualmente disambiguante, nei seguenti termini:
“Cripto-investimenti”: tutte quelle “cripto attività” – intendendosi con ciò ogni rappresentazione di valore o di diritti che faccia ricorso a “tecnologie basate su registri distribuiti” come definite dall’art. 8-ter del d.l. 14 dicembre 2018, n. 135 – di per sé non qualificabili o descrivibili in termini di “strumenti finanziari” o “prodotti di investimento” e che siano cionondimeno qualificabili o descrivibili in termini di “prodotti finanziari”.
Si osservi come da tale definizione rimangono volutamente escluse quelle situazioni – da ritenere forse residuali e marginali – che possono essere ricondotte alle ipotesi “intercettabili” dalla istanza regolatoria di cui sopra sub (ii), e cioè quei token che non fossero comunque qualificabili e/o descrivibili in termini di “prodotti finanziari”; situazioni che, come tali, non necessitano di essere “catturate” nella “definizione” di natura regolatoria del fenomeno sopra elaborata, quale invece resa necessaria – alla luce dell’attuale quadro normativo, imperniato sulla nozione di “prodotti finanziari” – in relazione al perseguimento della centrale istanza regolatoria di cui sopra sub (i).
Schema 1: Rappresentazione grafica delle rilevanti (concentriche) categorie concettuali
* Nel Documento: definizione di “cripto-attività”.
b). Inquadramento critico e focalizzazione della (implicita e condivisibile) scelta di sottoporre ad intervento regolatorio la (sola) fase dell’“offerta” di token (e non anche quella dell’“emissione/collocamento”) di essi (punti da 51 a 74).
Sebbene possa condividersi la scelta regolatoria di individuare nei gestori di piattaforme di crowdfunding (fenomeno che ha trovato nell’ordinamento domestico un pionieristico quadro di disciplina, sebbene ad oggi non privo di rigidità) gli operatori meglio posizionati per intercettare il “contiguo” (?) fenomeno delle “cripto-attività” e sui quali, dunque, più facilmente innestare un impianto regolatorio che possa così parzialmente sfruttare la curva di esperienza normativa per essi già sviluppata, tale approccio, ove non “criticamente” orientato, rischia di rendere scarsamente efficace comprensibile l’intervento prefigurato. Le differenze dei sottostanti fenomeni – strutturalmente, morfologicamente e funzionalmente – non consentono infatti di replicare per le “cripto-attività” un approccio che prescinda da una corretta comprensione del loro ben diverso “sottostante”, nelle sue marcate specificità; il rischio è quello di un appiattimento su schemi operativi tipici del crowdfunding che però non risultano efficacemente sovrapponibili, sic et simpliciter, al fenomeno delle “cripto-attività”. In particolare, non deve sottovalutarsi come il tratto tipico dei modelli di business caratterizzanti la totalità delle ICO “piattaforme” osservabili sul nascente (tumultuosamente incipiente) mercato delle “cripto-attività”, pare proprio identificabile – diversamente da quanto invece tipico del “contiguo” fenomeno del crowdfunding, incentrato su uno schema di tipo classicamente “intermediario”, tecnicamente riconducibile al servizio di investimento della “ricezione e trasmissione di ordini”– nella spesso inestricabile commistione dei ruoli e delle funzioni di “emittente” e “collocatore”, quale conseguenza tipica del pervasivo fenomeno di “disintermediazione” che le caratterizza; ruoli e funzioni che invece nel crowdfunding sono tradizionalmente associabili ad attori ben distinti. Tale peculiarità dello schema operativo di “emissione/collocamento” di “cripto-attività”, rischia di rendere dunque poco proficua (e potenzialmente fuorviante) l’applicazione di un approccio regolamentare che assumesse, anche per esse, come nettamente distinti e distinguibili quei ruoli e funzioni. Appare, quindi, pienamente convincente e condivisibile la scelta operata dalla Commissione di sottoporre a regolazione la (sola) fase dell’“offerta” – questa sì tecnicamente e giuridicamente distinta e distinguibile da quella della “emissione/collocamento” deitoken – potendosi allora, qui si, trovare elementi di indubbia affinità con il modello del crowdfunding, pur dovendosi meglio focalizzare quelli che dovranno essere i peculiari contenuti e modalità con cui l’attività di “offerta” di token dovrà svolgersi. Nella prospettazione della Commissione, dunque, tale fase di una ICO dovrà essere affidata – e deve ritenersi, allora, in via esclusiva e riservata – ad apposite “piattaforme di offerta regolate”, perlomeno laddove si voglia beneficiare del regime “agevolato” di disapplicazione della disciplina dei “prodotti finanziari”; viene quindi delineato un regime di facoltatività (opt-in) che, però, per le considerazioni più oltre sviluppate, appare porsi, sin d’ora e nei fatti, come una “scelta obbligata” per gli operatori (v. oltre punti 24 – in particolare ivi, nota (23) -, 57 e 58). Infine, attesa la peculiare specificità del modello di business che dovrà caratterizzare le “piattaforme di offerta” di token che, solo lontanamente e superficialmente, risulta accostabile a quello tipico delle piattaforme di crowdfunding, si è ritenuto, per le considerazioni meglio in appresso sviluppate, che tali piattaforme potrebbero a nostro avviso ben essere gestite da gestori già autorizzati a svolgere attività di crowdfunding, come anche, però, da altri “nuovi” operatori, purché ovviamente siano sottoposti ad analogo regime di autorizzazione e di vigilanza in relazione alla specifica attività di offerta qui considerata.
Occorrerà infine soffermarsi in appresso a valutare più nel dettaglio come dovranno articolarsi le suddette opzioni regolamentari attorno alla “riserva di attività” che dovrà essere disegnata per le “piattaforme di offerta regolate” e consistente, allora, nello svolgimento di “offerte autorizzate”; dovendosi invece ritenere pur sempre libera l’offerta “non regolata” di token che, non essendo qualificabili in termini di “prodotti finanziari”, non necessitino di alcuna “deroga” disciplinare, così come di quelli che pur essendo tali, ritengano volontariamente di non aderire al regime “speciale” di deroga e di sottoporsi alla disciplina ordinaria – ammesso che, come detto sopra, questa possa ritenersi una opzione concretamente perseguibile alla luce dei dubbi che verranno avanzati in appresso.
Schema 2: Albero delle opzioni per l’effettuazione dell’“offerta” di token (nostra proposta)
Schema 3: Matrice della “riserva di attività” (nostra proposta)
c).Riconsiderazione critica della scelta di subordinare l’accesso al regime “agevolato” così disegnato dalla Commissione, oltre che all’obbligo di avvalersi di “piattaforma d’offerta regolate”, anche a quello di prevedere che itoken così offerti siano altresì ammessi alla negoziazione su “sistemi di scambio” vigilati (punti da 75 a 85).
Alla luce delle considerazioni già sopra anticipate circa la non significatività e tipicità dell’elemento della “negoziabilità” attuale o potenziale (per lo meno con riguardo a quella tipologia di utility token che costituiscono oggi l’oggetto della più amplia platea di ICO che dovrebbero/potrebbero beneficiare della soluzione regolatoria delineata condivisibilmente dalla Commissione), può allora anticiparsi come – per le molteplici ragioni che si svilupperanno in appresso – non risulti condivisibile la scelta di concedere il suddetto descritto regime “agevolato” solo a quei token che scelgano di adottare il “doppio binario” del ricorso, cioè, ad una “piattaforma di offerta regolata” congiuntamente al ricorso – contestuale alla “emissione primaria” e in “stretto collegamento” con la fase dell’“offerta regolata” – a “sistemi di scambio vigilati”. Scelta che potrebbe semmai giustificarsi – pur continuando però, tale opzione, ad apparire discutibile per più di un motivo che avremo modo di approfondire, anche in tale ipotesi – solo in tanto in quanto sia effettivamente osservabile o prevista una negoziazione di tali token; solo in tal caso potendosi infatti giustificare, semmai, la prescrizione che imponesse – sempre al fine di poter godere del regime “agevolato” – che tale negoziazione debba avvenire sui “sistemi di scambi autorizzati”; ove, viceversa, non sia previsto alcun regime di “negoziabilità” per itoken emessi, alla luce delle istanze regolatorie perseguite non si riscontrano valide ragioni affinché non debba risultare sufficiente il solo requisito dell’utilizzo di “piattaforme di offerta” regolate e vigilate, al fine di poter beneficiare della suddetta “deroga” disciplinare opportunamente approntata per favorire lo sviluppo del fenomeno dell’ICO anche nel nostro ordinamento.
Si è infine osservato come l’attenzione del Regolatore dovrebbe piuttosto appuntarsi sulla verifica che – in sede di collocamento “primario” dei token e, quindi, in “stretto collegamento”/simultaneità con la fase di offerta – più che l’accesso a “sistemi di scambio vigilati” (ipotesi, come visto, non imprescindibile, attesa la natura non necessariamente “negoziabile” dei token) venga adottata (qui si, imprescindibilmente) una affidabile struttura di deposito/custodia dei token assegnati agli investitori, tramite appositi e tecnologicamente affidabili e-wallet o wallet providers; questa fase di “regolamento/pagamento” dell’offerta, infatti, appare nel business model che caratterizza ogni ICO, uno dei passaggi più critici del processo di “collocamento” deitoken (fonte delle più frequenti frodi perpetrate a danno degli investitori) su cui quindi dovrebbe concentrare lo sguardo regolatorio, seppur – per lo meno in una prima fase – con l’approccio agile più oltre delineato, tra quelli ipotizzati in appresso (v punto 82).
Schema 4: Road Map concettuale
4.1 Schema grafico dell’approccio regolatorio prospettato nel documento Consob
4.2 Schema grafico dell’approccio regolatorio suggerito
4.3 Schema grafico dell’approccio regolatorio suggerito in via subordinata (solo in caso di effettiva “negoziazione” dei tokens)
1. Ricostruzione del sottostante, complessivo approccio regolamentare adottato nel Documento dalla Commissione, nei suoi presupposti e finalità
1. Al fine di impostare utilmente l’analisi critica di alcune opzioni concettuali e disciplinari adottate dalla Commissione nel Documento sottoposto a consultazione, occorre partire dalla accurata ricostruzione del complessivo approccio regolatorio che essa pare aver adottato nel delineare questo primo intervento di regolamentazione del fenomeno.
2. L’intervento in esame parte dalla consapevolezza di come il quadro normativo europeo sia tuttora in divenire, come ben emerge dall’analisi del recente Advice elaborato dall’ESMA[4]; analisi questa che si è focalizzata sulle problematiche di (possibile/eventuale) applicazione della disciplina dei servizi di investimento, per quei token che fossero qualificabili o descrivibili come “strumenti finanziari”/”prodotti di investimento” (e definiti ormai nella prevalente letteratura specialistica e regolamentare come “security-like/investment-type token/asset token”, sinteticamente“security tokens”), limitandosi poi essa a suggerire, senza peraltro proporre univoche scelte normative, l’opportunità di valutare una regolamentazione per quei token che, invece, non si possano qualificare come tali (v. in particolare par. 8 ESMA Advice 2019).
3. Conseguentemente, già in apertura del secondo paragrafo del Documento, intitolato “aspetti definitori”, emerge la dichiarata intenzione della Commissione di adottare una impostazione definitoria che sia idonea “a tipizzare le cripto-attività diverse da strumenti finanziari, quale autonoma categoria…” (evidenza aggiunta), funzionalmente a quello che risulta essere l’approccio regolatorio perseguito (nei termini che ora andremo a ricostruire). La delimitazione oggettiva dell’intervento regolamentare prospettato da Consob con il Documento nel senso ora indicato, emerge ulteriormente e chiaramente dalle esplicite affermazioni che possono leggersi nel “Riquadro 1”, ove si evidenzia come quello intrapreso risulta essere un “un esercizio definitorio che viene condotto al di fuori del perimetro degli strumenti finanziari e dei prodotti di investimento (PRIIP, PRIP e IBIP), disegnato dal legislatore UE”.
4. In ossequio ad un approccio di “neutralità tecnologica” e di rispetto della sovraordinata competenza europea, una tale opzione metodologica risulta dunque, innanzitutto e condivisibilmente, escludere (perlomeno in questa fase e fuori da un armonizzato approccio europeo) alcun intervento sulla nozione normativa domestica di “strumenti finanziari” di derivazione MIFID, al fine di ricomprendervi esplicitamente quei token che risultino descrivibili e/o qualificabili come security token.
5. Né, conseguentemente, la Commissione ritiene di intervenire ad adattare alle numerose specificità che i security token presentano, la disciplina che già oggi potrebbe risultare conseguentemente applicabile ad essi (disciplina di varia natura: da quella dei servizi di investimento a quella del prospetto; da quella della market abuse, a quella dello short selling, etc.). Tale attività di “adeguamento” disciplinare, come ben rilevato da ESMA, potrebbe risultare assai delicata; correttamente la Commissione non ritiene dunque di dover intervenire (almeno per ora) unilateralmente al di fuori di un coordinato intervento armonizzato in sede europea.
6. Per gli operatori occorrerà dunque e non sempre facilmente, interrogarsi, di volta in volta, se e in che misura risulti già (automaticamente?) applicabile la disciplina MIFID/TUF laddove, con riguardo al token analizzato, ricorrano – ad esito di una attività ermeneutica che, certo ma inevitabilmente, non risulterà sempre semplice o dai risultati inequivoci, alla luce delle peculiarità del fenomeno, come ben sottolineato anche nell’Advice di ESMA – i tratti costitutivi e qualificanti della (variegata e articolata) categoria “strumenti finanziari” “prodotto di investimento”, a prescindere dunque dal supporto tecnologico (digitale e crittografico) di cui ci si avvalga[5] nella loro “emissione/collocamento”.
7. Quanto sopra ci consente di affermare con sicurezza una prima conclusione. Le istanze regolatorie perseguite dalla Commissione sono rivolte esclusivamente a quelle “cripto-attività” che: (i) non risultino già, di per sé, riconducibili alla fattispecie degli strumenti finanziari/prodotti d’investimento – che, in quanto tali, devono quindi già (automaticamente ?) ritenersi sottoposte alla relativa disciplina di settore e; (ii) che risultino cionondimeno meritevoli di considerazione sotto il profilo della disciplina domestica oggi applicabile alla categoria (più ampi di quella di strumenti finanziari) dei “prodotti finanziari”, alla cui risalente e approfondita elaborazione la Commissione si richiama, pur correttamente “calandola” nello specifico caso dei token[6].
8. Nel delimitare l’ambito di intervento che si è data la Commissione, occorre infine interrogarsi se non vi sia sotteso ad esso la (seppur non esplicitata) opzione di fondo di voler/poter affidare alla disciplina domestica del fenomeno una finalità (anche) di politica industriale, come lascerebbero pensare alcune discutibili opzioni definitorie e disciplinari suggerite nel Documento che in questa prospettiva potrebbero allora assumere una più comprensibile, seppur opinabile, giustificazione (v. oltre al successivo punto e al punto punto 71 (v)) e che – ove così fosse – dovrebbero allora essere oggetto di esplicita e chiara previsione nelle norme a cui sarà affidata l’introduzione della disciplina qui oggetto di discussione nel nostro ordinamento finanziario.
9. In particolare, ci riferiamo qui – rimandando più diffusamente all’analisi che verrà sviluppata nel prosieguo – alla opzione di ritenere un tratto qualificante della fattispecie “cripto-attività” la circostanza di risultare essa finalizzata al “finanziamento” di progetti imprenditoriali dell’“emittente” (tratto questo che può semmai dirsi “normale” non tanto della “cripto-attività” emessa ma dello schema di ICO, nella prospettiva, quindi, dell’emittente”/prenditore/venditore, specie ove queste abbiano ad oggetto la “emissione/collocamento” di utility token) e, in tal senso, potrebbe allora ipotizzarsi che tale scelta sottenda l’opzione di voler riservare il prefigurato “trattamento agevolato”, solo a quelle ICO che appaiano meritevoli in base a valutazioni di politica industriale nazionale. In tal senso, dunque, l’accesso al safe harbour potrebbe venire concesso solo a soggetti che rivestano una particolare forma giuridica e, tipicamente, lo status di PMI o start-up di diritto italiano, in linea quindi con quello che risulta l’approccio adottato nel disegnare una disciplina nazionale di incentivazione al Crowdfunding (che, allora, da questo punto di vista forse non a caso, potrebbe proprio esser stato individuato nel Documento come possibile modello di riferimento sul quale innestare, perlomeno inizialmente, la disciplina delle cripto-attività)e al Venture Capital. Può però sin d’ora osservarsi come un tale approccio si risolverebbe in un riduttivo appiattimento del nuovo fenomeno sugli schemi “classici” del crowdfunding, in palese controtendenza rispetto alla intrinseca e specifica sua natura, massimamente ispirato ad una filosofia di globalizzazione, decentralizzazione e disintermediazione (“democratizzazione”[7]), escludendosi così dunque, in radice, qualunque possibilità di avvalersi di “piattaforme di offerta regolate”, per offrire token a soggetti investitori residenti in Italia, per tutte quelle ICO (ad oggi, la totalità del fenomeno) progettate/e create/collocate all’/dall’estero e/o da soggetti esteri, nell’ambito quindi dei più diversi contesti giuridici di riferimento.
2. La nozione rilevante di “prodotto finanziario” applicabile ai token
10. Come noto, l’art. 1, comma 1, lettera u) del TUF, definisce la fattispecie dei “prodotti finanziari”, come quella in cui sono ricompresi, in un rapporto di species a genus, gli “strumenti finanziari”, oltreché “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”[8]. Si tratta di una definizione aperta che richiede, per poter essere delineata con precisione, di indagare in due direzioni: una volta individuati gli “strumenti finanziari” attraverso la definizione “chiusa” fornita dalla norma, occorrerà poi individuare le “altre forme di investimento di natura finanziaria” (gli “altri investimenti”) che completano la definizione “aperta” di “prodotti finanziari”. Tale approccio è stato anche recentissimamente ribadito dalla Consob proprio in relazione a schemi negoziali aventi ad oggetto l’offerta di token[9].
11. Le “altre forme di investimento di natura finanziaria” ricomprendono dunque, secondo la consolidata elaborazione della giurisprudenza e della dottrina specialistica, tutte quelle forme di impiego di un capitale nell’aspettativa di un rendimento il cui conseguimento non risulti influenzabile in modo decisivo dall’investitore e che comportino l’assunzione di un rischio di natura finanziaria; e conformemente, la risalente prassi interpretativa della CONSOB ha enucleato ormai in maniera consolidata quali tratti tipici dell’“investimento di natura finanziaria” i seguenti elementi: (i) l’impiego di capitale; (ii) l’aspettativa di un rendimento e (iii) il rischio connesso[10]. La casistica presa in esame dai provvedimenti CONSOB nell’applicazione di quella griglia ermeneutica è ormai assai ampia[11].
12. La caratteristica della prevalenza del godimento di un bene o servizio, rispetto alle attese di rendimento finanziario che si nutrono in relazione ad esso, ha costituito sin dall’inizio, alla luce del più risalente orientamento della Consob in materia, un importante discrimen nel valutare se alla fattispecie in oggetto dovesse essere applicata la disciplina dei prodotti finanziari. Ma proprio questo elemento si rivela, talora, di difficile ponderazione a fronte della possibilità di riscontrare facilmente in tali negozi o schemi negoziali che abbiano ad oggetto le più diverse asset class, almeno due dei tratti qualificanti della nozione di “prodotto finanziario” – e, cioè, l’impiego del capitale e il rischio connesso – potrebbe risultare spesso non facile valorizzare il citato orientamento della Consob, volto ad escludere la qualificazione come “prodotto finanziario” in quei casi in cui l’elemento del “godimento” possa coesistere con, pur risultando prevalente rispetto a, quello del ritorno finanziario[12].
13. Dalla lettura della nutrita elaborazione di orientamenti Consob, può tuttavia estrapolarsi un percorso logico più raffinato, quale venuto evolvendosi nel tempo, nello sforzo di mettere a fuoco, in una linea di sostanziale continuità e coerenza, quelle che risultavano già le più risalenti opzioni interpretative, recentemente confermate anche nella giurisprudenza della Suprema Corte[13]. Come confermato dalla recente sentenza della Cassazione, è il carattere “intrinsecamente” finanziario dell’investimento che, sul piano funzionale, definisce il prodotto finanziario, non la natura o il tipo contrattuale adoperato, aderendosi così all’opzione ermeneutica ormai pacifica, in base al quale la qualificazione del negozio deve avvenire sulla base della causa in concreto, ovvero “dell’operazione economica complessiva”; ciò che appare decisivo, ad avviso della Corte, per qualificare l’investimento, come “bene materiale suscettibile di godimento” o, al contrario, come “investimento di natura finanziaria” è infatti l’intento pratico delle parti, le finalità complessive dello scambio. E, a tal fine, viene richiamato il consolidato orientamento della Consob in base al quale sono stati ritenuti, ad esempio, non sussistenti i caratteri minimi e necessari per ricondurre una compravendita cadenzata di oro all’interno della nozione di “appello al pubblico risparmio in prodotti finanziari”. Per la Corte, quindi, “non risulta decisivo il trasferimento di un bene in sé, neppure se suscettibile di un godimento, ma la finalità complessiva dell’operazione posta in essere e le prospettive generali proposte agli investitori/acquirenti”.
14. Gli orientamenti valorizzati dalla citata sentenza sono stati anche da ultimo confermati, e ulteriormente affinati dalla Consob, nel valutare operazioni di compravendita di diamanti tramite canale bancario[14]; nella fattispecie veniva rilevata la mancanza di un elemento fondamentale per l’individuazione di un “prodotto finanziario” proprio nella circostanza che in quel caso non si riscontrava, “la prospettazione, da parte delle società fautrici dell’iniziativa, di uno specifico rendimento. Difatti, sebbene la res materiale possa apprezzarsi (o anche deprezzarsi) per effetto dell’andamento delle quotazioni del bene nel tempo, tale circostanza non è di per sé sufficiente per affermare che l’eventuale apprezzamento del bene in parola possa de facto costituire una forma di “rendimento di natura finanziaria”. Ciò che rileva (ai fini dell’individuazione dell’investimento di natura finanziaria) è piuttosto l’effettiva e predeterminata promessa, all’atto dell’instaurazione del rapporto contrattuale, di un rendimento collegato alla res. Detta caratteristica, come riferito, non è rinvenibile nel caso di specie”. Chiarendosi altresì come non rilevi a tal fine“l’eventuale rappresentazione da parte del preponente, in sede di promozione dei contratti in esame, della performance registrata dai diamanti in un determinato intervallo temporale, come si evince ad esempio dal sito internet della [… società] nel quale si riporta un grafico rappresentativo dell’andamento di tale bene, dal quale si denota un incremento del valore dei diamanti, anche in confronto con altri indicatori, quale l’andamento del tasso di inflazione, dell’oro, etc”. E quindi, “per configurare un investimento di natura finanziaria, non è sufficiente che vi sia accrescimento delle disponibilità patrimoniali dell’acquirente (cosa che potrebbe realizzarsi attraverso talune modalità di godimento del bene come ad esempio con la rivendita del diamante) ma è necessario che l’atteso incremento di valore del capitale impiegato (ed il rischio ad esso correlato) sia elemento intrinseco all’operazione stessa”.
15. In conclusione, sulla base della citata, risalente elaborazione amministrativa e giurisprudenziale, una particolare asset class non già riconducibile ex se agli “strumenti finanziari”, può cionondimeno assumere le caratteristiche di un “prodotto finanziario” solo se presenti una natura “intrinsecamente” finanziaria e, quindi, solo se siano esplicitamente previsti, anche tramite contratti collegati, ulteriori – intrinseci – elementi come, ad esempio, promesse di rendimento e di realizzazione di profitti, obblighi di riacquisto, ovvero vincoli al godimento del bene[15], non assumendo, viceversa, a tal fine, pregnanza euristica di per sé determinante il tratto della “negoziabilità”[16] e, tanto meno, quello della funzionalità dei mezzi “investiti” dall’“investitore” al “finanziamento” di progetti o attività imprenditoriali del “emittente”/venditore.
16. Conseguentemente, tutte le volte in cui (e solo se) ai modelli operativi e agli schemi negoziali di base (acquisto/vendita) che possono riscontrarsi sulle piattaforme di “cripto-attività”, anche solo di tipo “monetario” o “utility” – che abbiamo visto non costituire di per sé “servizi di investimento” per il sol fatto di non avere ad oggetto “strumenti finanziari” – vengano associati più complessi o articolati schemi negoziali, quali tipicamente promesse di rendimento (legati ad es. alle prospettive di apprezzamento di valore intrinseco del token), obblighi di riacquisto, promesse di realizzazione di profitti ovvero vincoli al godimento del bene o servizio, potrà allora aversi un “prodotto finanziario”, con tutto ciò che ne consegue in termini di disciplina, nei termini che ora vedremo, laddove esso sia oggetto di “offerta al pubblico” o “promosso e collocato a distanza”, come tipicamente (necessariamente) avviene nell’ambito di una ICO.
17. Questa prima conclusione merita però una ulteriore qualificazione, proprio con riferimento al peculiare caso dei “token”, in considerazione del particolare atteggiarsi di questo “prodotto”. Laddove, infatti per uno specifico token possa osservarsi l’esistenza di un “mercato secondario” sul quale esso, in quanto tale, possa essere scambiato (e magari cambiato in fiat money)[17], allora le suddette conclusioni – in merito alla necessità di un quid pluris negoziale affinché possa configurarsi un “prodotto finanziario” – parrebbero spesso chiaramente confermate e assorbite (superate), al pari quindi di quanto emerge dagli orientamenti consolidati in relazione ad altre asset class di investimento “alternativo”: diamanti, oro, opere d’arte etc. per le quali sia osservabile un “mercato”.
18. Non può però sottovalutarsi il dato che molti utility token potrebbero ben non presentare quel carattere di oggettiva “negoziabilità” – tratto questo non riconducibile a quello della mera “trasferibilita [18] – riducendosi a meri schemi negoziali di investimento che trovano la loro genesi, il loro sviluppo e il loro esito all’interno della relativa intelaiatura negoziale che caratterizzerà, di volta in volta, il loro sottostante particolare modello dibusiness; in tal caso allora, ad evidenza, lo schema negoziale stesso in cui appare descrivibile il token, potrà risultare qualificabile in termini di “prodotto finanziario”, ove ne ricorrano tutti i tratti sopra illustrati (promesse di rendimento, legate ad es. alle prospettive di apprezzamento del valore intrinseco del token – quale conseguenza diretta o indiretta, delle prospettive del sottostante progetto dibusiness – obblighi di riacquisto, promesse di realizzazione di profitti ovvero vincoli al godimento del bene o servizio). E proprio questo ci appare l’approccio che emerge in alcuni dei recenti casi esaminati dalla Consob[19].
19. E la stessa Commissione pare ben consapevole del fenomeno ora descritto laddove osserva come “nel caso dei token vengono spesso prospettati “rendimenti” che non sono chiaramente ricollegabili ai “rendimenti di natura finanziaria” (requisito quest’ultimo che costituisce uno degli elementi caratterizzanti il “prodotto finanziario”; cfr. supra). Le ICO, in base alle caratteristiche dei token offerti, possono determinare negli acquirenti aspettative di rendimenti/ritorni economici rappresentati, a grandi linee, da proventi: i) in via diretta (rendimenti parametrati all’andamento dei ricavi, dei volumi di beni e servizi venduti o dei profitti dell’iniziativa imprenditoriale); ii) in via indiretta, correlati al potenziale apprezzamento del valore dei token negoziati in dedicati exchange (che può dipendere dalla positiva performance dell’iniziativa imprenditoriale così come dalle sole dinamiche di mercato)”. (evidenza aggiunta)
3. L’approccio regolatorio adottato nel Documento: concessione di una “deroga” dalla disciplina dei “prodotti finanziari”, subordinatamente alla duplice circostanza dell’utilizzo di “piattaforme di offerta regolate” e di “sistemi di scambio vigilati”
20. Ricostruita sommariamente nei termini di cui sopra la nozione di “prodotti finanziari”, il chiaro e circoscritto approccio regolamentare seguito dalla Commissione pare dunque ed effettivamente coerente con l’obiettivo dichiarato in apertura del Documento di “dare certezza ai relativi destinatari e neutralizzare un eventuale obiettivo elusivo che potrebbe essere sotteso all’attività di ingegnerizzazione di quei token che si differenziano dagli strumenti finanziari ma che, al tempo stesso, potrebbero presentare elementi eventualmente suscettibili di integrare la nozione domestica di prodotto finanziario, inteso quale investimento di natura finanziaria diverso dagli strumenti”.
21. In particolare, l’ intervento della Commissione pare dunque sostenuto da una volontà “agevolatrice” dello specifico fenomeno, in quanto volto a disegnare per esso un regime di “deroga” (disapplicazione) dalla disciplina dei prodotti finanziari, ove questa risultasse altrimenti applicabile in base alla ricorrenza, nelle fattispecie di token prese in esame caso per caso, degli elementi qualificanti di quella fattispecie; elementi che, come visto sopra dalla ricognizione della risalente elaborazione fatta dalla Commissione, pur non risultando sempre di facile e immediata enucleazione e descrizione appaiono per più versi (se non proprio tipici) più che compatibili con, in particolare, gli utility token, come meglio vedremo.
22. E infatti, il pregio che la Commissione stessa attribuisce a tale approccio, viene individuato “in primo luogo, con la possibilità di contenere l’onere di condurre (da parte sia del mercato sia dell’autorità) un’analisi case-by-case volta all’individuazione della sussistenza (o meno) delle caratteristiche del prodotto finanziario”. E inoltre, sottolinea ancora la stessa Commissione, “la previsione di una disciplina speciale delle cripto-attività consente di affrontare la materia tenendo conto delle sue peculiarità, evitando quindi ai promotori dell’iniziativa (emittente/offerente/proponente) (…) di essere soggetti, al ricorrere degli elementi caratterizzanti la nozione di prodotto finanziario (inteso quale investimento di natura finanziaria diverso dallo strumento finanziario), alla disciplina stabilita a livello nazionale per questi ultimi (in materia di prospetto e offerta a distanza)”.
23. In particolare, deve qui allora ricordarsi come per effetto della qualifica di un utility token come “prodotto finanziario” – a parte l’eventuale applicabilità della disciplina del prospetto ove non ricorrano specifiche ipotesi di esenzione – conseguirà la necessità di avvalersi obbligatoriamente di soggetti abilitati[20] tenuti al rispetto di specifici standard comportamentali (ex combinato disposto dell’art. 32 TUF con l’art. 127 Regolamento Intermediari), tutte le volte in cui la loro “promozione e collocamento” avvenga (i) anche a clienti non professionali; e (ii) con modalità che configurano l’impiego di “mezzi di comunicazione a distanza”[21]. Entrambe condizioni che nella ricorrenza di una ICO risulteranno sempre (e inevitabilmente) soddisfatte.
24.La possibilità per gli operatori di “rifugiarsi” nelsafe harbour così disegnato, beneficiando del regime di “deroga” e sottraendosi conseguentemente e automaticamente alla disciplina dei “prodotti finanziari” che altrimenti potrebbe spesso risultare applicabile[22], risulta condizionata alla circostanza – rimessa alla libera determinazione degli operatori (opt-in) – che “siano impiegate piattaforme dedicate e vigilate dalla Consob rispondenti ai requisiti di seguito tratteggiati”; dalla complessiva analisi del Documento e dalla ricostruzione in essa fatta della fattispecie “cripto-attività” da sottoporre a regolazione, pare evincersi come la Commissione intenda riferirsi qui ad un “doppio binario”, costituito dal ricorso a piattaforme di “offerta” e,al contempo, a piattaforme di “negoziazione” ovvero “sistemi di scambio” a cui si faccia ricorso “in stretto collegamento con le offerte (in fase di primario) che sono state condotte per il tramite di piattaforme dedicate e regolamentate”; in mancanza di tale scelta “facoltativa” da parte degli “emittenti/collocatori/offerenti”, questi non potranno godere automaticamente del safe-harbour, potendo cionondimeno procedere all’offerta sottoponendosi – purché sempre, però, ricorrano i tratti qualificanti della fattispecie – all’applicazione della relativa disciplina dei “prodotti finanziari”[23]; rimandandosi alle considerazioni che svilupperemo in appresso (punti 57 e 58) e dalle quali emergerà come, in realtà, alla luce dello specifico tratteggiarsi tecnologico del fenomeno, quella di ricorrere al regime speciale di “deroga” appaia piuttosto una “scelta obbligata”.
25. Se dunque quello sopra ricostruito deve ritenersi il sottostante (circoscritto) approccio regolatorio adottato (condivisibilmente) dalla Commissione, allora: (A) la definizione di “cripto-attività” che essa si prefigge conseguentemente di elaborare per esso, dovrebbe essere capace di “catturare” efficacemente tutte e sole quelle tipologie di token che (i) innanzitutto non presentino di per sé (e più o meno pacificamente) la natura morfologica e/o funzionale tipica e qualificante degli “strumenti finanziari/prodotti di investimento” (o, in particolare, più spesso, dei “valori mobiliari” o dei “derivati”[24]), e che (ii) secondariamente, possano invece presentare i tratti qualificanti della fattispecie dei ”prodotti finanziari” e; (B) il regime di “regolazione”pensato per quelle “cripto-attività” dovrebbe risultare coerente col modello di business di queste, quale strettamente condizionato e vincolato dalla sottostante infrastruttura tecnologica di cui si avvale e che ne costituisce l’intima sua natura (modello, come vedremo, tendenzialmente non riconducibile ad uno schema “intermediario” ma dalla natura peculiarmente disintermediata, decentralizzata, automatizzata e globalizzata).
Rinvio agli Schemi 4: Road Map concettuale
4. Conseguenti e preliminari considerazioni critiche in relazione alla “breve descrizione del fenomeno” offerta nel par. 1 del Documento
26. Alla luce della ricostruzione sopra condotta del complessivo, sottostante approccio regolamentare accolto dalla Commissione nel Documento, in considerazione della disciplina domestica applicabile ai “prodotti finanziari”, non pare allora pienamente condivisibile l’approccio analitico adottato dalla Commissione nel paragrafo iniziale “Breve descrizione del fenomeno”; in particolare non pare giustificata la scelta di prescindere da – o forse dare per assodata – una tassonomia ormai invalsa in dottrina e tra i regolatori[25] nella descrizione del fenomeno, la quale pare, invece, capace di apportare indubbi vantaggi di semplificazione e inquadramento di esso, in considerazione del suo carattere quanto mai articolato, proteiforme, mobile e mutevole. Ci riferiamo qui a quell’approccio analitico e tassonomico che descrive e classifica il fenomeno dei “crypto-assets”[26] in tre macro-categorie: (i) investment-type o security-like o asset tokens o (security tokens); (ii) payment-tokens; (iii) utility-type tokens.Pur riconoscendosi la frequenza, nella realtà osservabile del fenomeno, di una ibridazione dei modelli che non ne rende spesso facile una precisa catalogazione, dovendosi allora procedere attraverso un criterio di prevalenza dei caratteri qualificanti.
27. Alla luce di quanto sopra e, in particolare, della condivisibile opzione regolatoria adottata dalla Commissione, dovrebbero essere con più chiarezza delineati gli elementi distintivi da considerare al fine di escludere dal perimetro definitorio i security tokens e, corrispondentemente, l’attenzione dovrebbe esser rivolta più esplicitamente e approfonditamente ad enucleare gli elementi qualificanti di quelle “cripto-attività” otoken da ricomprendere invece nello specifico ambito regolatorio a cui verrà dunque esclusivamente rivolta l’attenzione della Commissione nel Documento; fattispecie che, in base alla citata tassonomia paiono dunque con chiarezza riconducibili alle tipologie dei payment–type crypto-assets (payment tokens)e, soprattutto, degli utility-type crypto-assets (utility tokens)[27].
28. Da questo punto di vista, potrebbe apparire per certi versi fuorviante la generale ricostruzione descrittiva del fenomeno, quale preliminarmente svolta dalla Commissione nel par. 1 del Documento, nel momento in cui:
- viene inizialmente e correttamente indotta nel lettore una assimilazione concettuale/lessicale, tout-court, tra la locuzione “cripto-attività” con il fenomeno generale dei “token”, salvo poi, nel prosieguo del Documento, proporre l’adozione di una definizione “regolamentare” di “cripto-attività” che escluda dal suo spettro gli investment-type crypto-assets (security tokens), quei token, cioè, assimilabili agli strumenti finanziari;
- si individua, quale carattere qualificante e “normale” (anche) dei token (al pari degli strumenti finanziari) quello della negoziabilità in “mercati secondari” (exchange);
- si suggerisce una generale (e dunque fuorviante) descrizione della fattispecie dei token in quanto tali, (e non solo e non tanto della specifica tecnica di loro “emissione/collocamento”, la ICO) in termini di funzionalità al “finanziamento” di una “iniziativa imprenditoriale”;
- si fa ampio utilizzo, in tutto il Documento di termini e locuzioni che – con riguardo al fenomeno dei token oggetto della proposta di regolazione – inducono ad un troppo marcato (e quindi potenzialmente fuorviante) parallelismo concettuale e lessicale con il fenomeno della “emissione” o “sottoscrizione” di “strumenti finanziari”[28].
29. In definitiva nell’impostazione adottata da Consob, pare dunque omettersi, prescindersi da, o darsi per acquisita, la più ampia fenomenologia in cui dovrebbero invece esser utilmente collocate quelle particolari fattispecie di token che, alla luce dell’approccio regolamentare sopra ricostruito e ben esplicitato dalla Commissione stessa, dovrebbero risultare essere oggetto di esclusivo e specifico suo interesse – quelle cioè che non siano già riconducibili di per sé alla fattispecie degli strumenti finanziari/prodotti d’investimento; per chiarezza analitica sarebbe stato invece assai utile richiamarsi a e adottare quella che appare la già riferita e ormai invalsa convenzione analitica e linguistica che associa al fenomeno dei “token” una molteplicità di funzioni/nature, almeno riconducibili alla summenzionata tripartizione.
30. E infatti, la ricostruzione del fenomeno proposta dalla Consob che – sulla base della opzione regolatoria sopra ricostruita – dovrebbe essere qui oggetto del suo specifico intervento di “definizione” prima e di regolazione poi, mostra infatti, con immediata evidenza, rilevanti limiti nella capacità di distinguerlo efficacemente da quello (certamente contiguo per molti versi) che invece si dichiara di voler tenere nettamente distinto e estraneo a tale ambito, quello cioè dei security token che fossero di per sé già qualificabili e/o descrivibili come strumenti finanziari[29].
31. Da questo punto di vista, ad esempio e soprattutto, descrivere il fenomeno delle ICO che dovrebbero essere oggetto del descritto e specifico approccio regolatorio, individuandone la funzionalità in quella di “finanziamento di una attività/un progetto, ovvero ad una “iniziativa imprenditoriale” o “progetto imprenditoriale” da parte di “veicoli” “emittenti” che possono essere, società, persone fisiche, o networks di sviluppatori di prodotti”, rende immediatamente evidente la estrema difficoltà (financo impossibilità) di distinguerlo concettualmente e giuridicamente da quello della “emissione/collocamento” di tradizionali valori mobiliari di tipo “di debito” (obbligazioni, titoli di debito e similari) ovvero anche “di equity”, (adottandosi qui una nozione ampia, generale e a-tecnica del termine “finanziamento”).
32. Il modello funzionale generale e “neutro” a cui, viceversa, dovrebbe più correttamente farsi riferimento con riguardo alle ICOs generalmente intese, appare piuttosto quello descrivibile – sulla scorta della definizione proposta dalla stessa ESMA[30] per le ICOs – in termini di “raccolta di capitali” (fund raising o raising capital V. ESMA Advice 2019, definizione di ICO) da parte di soggetti (società, imprenditori individuali, sviluppatori, promotori) da destinare a “supportare” o “sviluppare” (evitandosi l’utilizzo del termine “finanziare”, a favore di quello più “neutro” di funding[31]) loro progetti imprenditoriali (scaling of business) in cambio della “creazione”[32] (“creation” non “issuing”) e simultanea “distribuzione” di token. Come si vede, la prospettiva qui adottata è innanzitutto ed esclusivamente quella del “percettore” dei fondi (che variamente, a seconda della natura dei sottostanti token, potrà descriversi in termini di emittente/prenditore/venditore) e non tanto, dunque, quella dell’“investitore” (che variamente, a seconda della natura dei sottostanti token, potrà descriversi in termini di sottoscrittore/prestatore/ acquirente), rifuggendosi poi volutamente, in particolare, dall’utilizzo di locuzioni giuridiche ambigue (quali quelle di “finanziamento”, “iniziativa imprenditoriale finanziata”, “emissione” etc.) che porterebbero subito e inevitabilmente l’analisi a collocarsi nell’ambito degli strumenti finanziari (in particolare, valori mobiliari), e, quindi, in quello che sarebbe in un chiaro fenomeno di IPO.
33. Volendosi, dunque escludere – in base alla sopra ricostruita scelta regolatoria dalla Commissione– dal novero dei token oggetto della specifica e circoscritta prospettiva regolatoria accolta nel Documento, quelliriconducibili alla categoria deisecurity token[33], deve concludersi comele tipologie di token oggetto di ICO da sottoporre a regolazione dovranno essere: (i) innanzitutto e tipicamente quelli descrivibili in termini di tipo utility; (ii) secondariamente (residualmente) i token payment-type e, infine; (iii) tutte quelle fattispecie “ibride” riconducibili alle prime due in virtù di un criterio di prevalenza dei loro specifici tratti.
5. In particolare, gli “Utility Token” quale nuova (rinnovata) “terza via” per il “finanziamento” dell’attività di impresa?
34. Chiarito necessariamente quanto sopra per precisione terminologica e incisività analitica, può allora certamente ritenersi che la gran parte delle ICO – strettamente intese[34] – abbia oggi ad oggetto utility token[35]. Nella “neutra”, e di generale accettazione, descrizione fattane da ESMA[36], trattasi di quei token che conferiscono (“al portatore”) una qualche utilità in termini di utilizzo/consumo/acquisto di beni e/o servizi resi dalla piattaforma stessa (o dal suo “ecosistema”), e non invece per “pagare” beni e/o servizi “esterni” (rientrandosi altrimenti nella categoria dei token payment-type).
35. Pur volendosi qui prescindere da una più accurata ricostruzione dei tratti civilistici del fenomeno – nella ricostruzione quindi (i) del sottostante profilo causale, in termini di compravendita di bene futuro o di empio spei, ovvero (ii) della possibile loro natura di “titoli di credito”[37], ovvero di “titoli impropri”, per quanto “atipici”, (iii) o addirittura, in una eventualmente applicabile ottica societaria, quali “strumenti finanziari partecipativi” (?); tutti profili che pure andrebbe accuratamente analizzati di volta in volta, al fine di mettere a fuoco i confini e gli effetti giuridici di questi che possono dunque apparire, talora, “familiari” schemi negoziali, oggi (ri)proposti sotto questa nuova veste tecnologica – è vero che, nei suoi tratti funzionali, una ICO, in particolare di utility token, apparirà pur sempre e nella assoluta maggioranza dei casi, un fenomeno descrivibile in termini funzionali come “finanziamento” (lato “investitore”/acquirente) – termine da intendersi qui in senso lato e a-tecnico – e di “raccolta capitali” (lato “emittente”/venditore), destinato allo sviluppo di una sottostante attività o progetto imprenditoriale. Non sempre, quindi, tali token, ad una approfondita analisi, potrebbero essere facilmente distinguibili, sotto un profilo funzionale, dai valori mobiliari. E ciò, peraltro, anche sotto un profilo strutturale o morfologico, atteso che il token rappresenta (incorpora) una posizione di legittimazione a ricevere beni o servizi (futuri?) “prepagati”, con la conseguenza che la distinzione dalla categoria degli “strumenti finanziari” pare spesso sfumare impercettibilmente, ove si abbiano a mente i titoli di credito rappresentativi di merci, ovvero i “derivati”[38].
36. Ciò detto, tale modello pare allora reinterpretare, in chiave nuova e originale, un risalente modello di “finanziamento” di progetti imprenditoriali; quello che ricorre al “credito commerciale”, prestato dai clienti, tramite “acconti” o “anticipi” prezzo, ovvero a modelli negoziali riscontrabili in certi settori; ad es. quello della produzione cinematografica – ove si assiste da sempre a contratti di “prevendita” dei diritti cinematografici, quale metodo di finanziamento della sottostante produzione – o quello immobiliare, con riferimento allo schema negoziale dell’acquisto di immobili da costruire o c.d. “su carta”.
37. Con riferimento a tali utility tokens – alla luce del delinearsi di un loro crescente utilizzo come “terza via” al finanziamento dell’attività d’impresa rispolverando e dando nuova vita a modelli operativi sinora di nicchia – ci sarebbe dunque e semmai da interrogarsi[39] su quali siano i limiti (quantitativi e strutturali) oltre i quali questa funzione di sostanziale “finanziamento” (o “pre-finanziamento”) – sempre utilizzando qui il termine in senso lato e a-tecnico – di un progetto imprenditoriale (ponendosi qui nella prospettiva dell’“investitore”/acquirente) e, corrispondentemente di “raccolta di capitali” (ponendosi invece nella prospettiva dell’“emittente”/venditore) non trascolori in un “conferimento” ovvero in un vero e proprio “finanziamento” – qui utilizzando invece il termine in senso stretto e “tecnico”[40]– ovvero in uno “strumento finanziario” di raccolta, a prescindere da quella che risulta essere la “causa” civilistica sottostante, qui perlopiù, come visto, formalmente riconducibile ad una di “compravendita di bene futuro” e non (almeno formalmente, appunto) ad una di “conferimento” di capitale di rischio, ovvero di un vero finanziamento, “ex mutuo”.
38. Rimandando altrove per una più approfondita disamina della intrigante domanda formulata al punto precedente e concludendo, perlomeno in prima approssimazione, sul punto, può adottarsi la medesima conclusione formulata da ESMA (v. par 86), in base alla quale i diritti associati a tale tipologia di token sembrano discostarsi eccessivamente da quelli di natura strutturalmente “finanziaria” e “monetaria” tipica dei valori mobiliari e/o degli strumenti finanziari.
6. Conseguenti considerazioni e proposte di affinamento in relazione agli “aspetti definitori” suggeriti nel par. 2 del Documento
39. Una preliminare osservazione attiene alla scelta terminologica adottata dalla Commissione di qualificare come “cripto-attività” quello che risulta essere l’oggetto dell’approccio regolatorio prefigurato nei termini sopra descritti. Alla luce del circoscritto e specifico ambito di intervento di quell’approccio, infatti, una tale definizione rischia di apparire imprecisa e fuorviante, nel momento in cui risulta essere la traduzione letterale in italiano del termine “crypto-asset”, termine ormai invalso a livello internazionale, anche da parte dei principali regolatori internazionali, per identificare in via generale l’intero fenomeno dei token (nelle sue varie articolazioni: payment token, utility token e security token) e non solo quel suo più circoscritto sotto-insieme (costituito da payment token e utility token)che, alla luce di tutto quanto sin qui esposto, dovrebbe essere invece oggetto esclusivo della prospettata regolazione domestica a cui quella definizione è funzionale.
40. Una tale generica locuzione – ove venisse dunque riferita, in ambito domestico, solo a quel sottoinsieme della più ampia categoria – rischierebbe allora di generare fraintendimenti e ambiguità nella lettura e comprensione dell’apparato regolamentare italiano, specie da parte di osservatori e interlocutori stranieri e/o comunque non avvezzi al quadro normativo domestico, nei suoi presupposti e nelle sue implicazioni. Occorrerebbe quindi oltremodo garantire una “comparabilità” e “compatibilità” terminologica tra categorie concettuali omogenee, riservando dunque il termine “cripto-attività” al fenomeno genericamente inteso dei crypto-asset (e comprensivo, dunque, anche dei security token, esclusi invece dall’ambito di intervento della categoria che si intende regolare) e prevedendosi una diversa locuzione per quella parte di esso che è qui oggetto di specifica considerazione e disciplina. Una possibile locuzione analiticamente pregnante e lessicalmente “disambiguante” potrebbe allora essere quella di “cripto-investimenti”[41].
41. Ciò premesso – e richiamando la sottostante filosofia che muove la proposta di approccio regolamentare al fenomeno qui propugnata dalla Commissione – i tratti qualificanti, utili alla ricostruzione della categoria “cripto-attività” (rectius “cripto-investimenti”) che sia dunque capace di tracciare efficacemente i confini del safe harbour da ritagliare per essa, vengono individuati dalla Commissione nel par. 2, Riquadro 1, del Documento nei seguenti:
- In via di premessa logica, la ricorrenza in capo ai token – che non siano già di per sé descrivibili e/o qualificabili in termini di “strumenti finanziari/prodotti di investimento” – di tutti quei “tradizionali” elementi e tratti tipici sopra analizzati che li rendano, di per sé e cionondimeno, qualificabili e/o descrivibili come “prodotti finanziari” (rectius, “altri investimenti”).
- Quindi, innanzitutto uno di natura puramente tecnica, e cioèla natura di registrazioni digitali e l’impiego di tecnologie del tipo comunemente noto come distributed ledger technology o blockchain, osservandosi poi come tali registrazioni digitali dovrebbero essere create, conservate e trasferite mediante tecnologie basate su registri distribuiti, alle quali tuttavia occorre riconnettere la capacità di consentire l’identificazione del titolare dei diritti relativi agli investimenti sottostanti e incorporati nella cripto-attività o crypto-asset”.
- Secondariamente uno di tipo funzionale, facendosi esplicito riferimento alla circostanza che tali registrazioni digitali siano “rappresentative di diritti connessi a investimenti in progetti imprenditoriali. E che i token debbano quindi incorporare “diritti dei soggetti che hanno investito con l’obiettivo del finanziamento del progetto imprenditoriale sottostante” .
- infine un elemento “giuridico”, di natura strutturale, chiarendosi come la categoria dovrebbe ricomprendere soltanto quelle cripto-attività che sono destinate a essere negoziate o sono negoziate all’interno di uno o più sistemi di scambi. (evidenze aggiunte).
42. Con riguardo al requisito sub 2., ci si può limitare ad osservare come questo tratto può darsi come presupposto e imprescindibile per integrare lo stesso ambito “cripto” a cui si fa riferimento.
43. Con riguardo al requisito sub 3., richiamandosi le considerazioni già sopra sviluppate ai punti 31 e 32, in ordine alla fuorvianza di questo elemento – semmai riferibile alle ICO intese come tecniche di “raccolta di capitali” e non tanto e necessariamente ai token che di quelle ICO costituiscano l’oggetto – deve sottolinearsi come ai fini della consolidata ricostruzione della nozione di “prodotti finanziari” (con specifico riguardo agli “altri investimenti”, diversi quindi dagli “strumenti finanziari”) assuma rilevanza – ove pur sempre associata ad una “finanziarietà” intrinseca del prodotto – la prospettiva “finanziaria” (o “speculativa”) in capo all’“investitore”, intesa come riferentesi ad una aspettativa di “rendimento finanziario” atteso dall’atto di “investimento” effettuato e, non certo, nella sua accezione funzionale e “tecnica” di atto di “finanziamento” ex mutuo di una economia terza (o progetto imprenditoriale); peraltro, può semmai osservarsi come questo tratto “funzionale” sia, semmai (piuttosto), osservabile classicamente nella prospettiva dell’“emittente”/venditore che organizzi una ICO di utility tokens[42]. Ma in ogni caso questo elemento appare del tutto spurio rispetto ai tratti caratterizzanti e qualificanti della consolidata categoria degli “altri investimenti”, sottoinsieme concettuale dei “prodotti finanziari” e alle esigenze di disciplina ad essa sottese, oltreché all’approccio regolamentare qui perseguito.
44. Introdurre dunque nella definizione questo elemento, legato agli obiettivi funzionali dell’investimento – in termini di “finanziamento” di un progetto imprenditoriale – sia che ciò avvenga con riguardo alle motivazioni (spesso imperscrutabili e non esplicitate) in capo all’investitore ovvero a quelle in capo (più spesso, semmai) all’“emittente”, comporta comunque la ingiustificata esclusione dalla categoria – e quindi dal regime di “beneficio” per essa prefigurato – di una serie di token (specie quelli di tipopayment) che pur potrebbero invece presentare tutti i tratti tipici del “prodotto finanziario”, meritando dunque quel trattamento agevolativo qui disegnato.
45. Con riguardo all’elemento sub 4., deve osservarsi come nello sforzo descrittivo e definitorio adottato dalla Commissione, per le dichiarate finalità “agevolative” da essa esplicitate e sopra già da noi richiamate, assume dunque una valenza centrale – assente però nella tradizionale categoria degli “altri investimenti” qualificabili come “prodotti finanziari”, quale evolutasi nella risalente elaborazione della Commissione – l’elemento della “negoziabilità” (da ritenersi come tale distinto e non riducibile a quello della mera “trasferibilità”[43]), elemento che tradizionalmente è invece un tratto qualificante della ben diversa nozione di “valori mobiliari”. Una tale scelta non appare condivisibile ove si consideri che, in molti modelli di business relativi alla creazione di utility token sembra invece mancare quel carattere di oggettiva “negoziabilità”, (come emerge anche dall’ Advice di ESMA, par. 35[44]) riducendosi essi a meri schemi negoziali di investimento che trovano la loro genesi, il loro sviluppo e il loro esito all’interno della relativa intelaiatura negoziale che caratterizzerà, di volta in volta, ciascuno di quei particolari modelli dibusiness; in tal caso allora, ad evidenza, lo schema negoziale stesso in cui consisterà il token, risulterà pur sempre descrivibile in termini di “prodotto finanziario”, ove ne ricorrano tutti i tratti sopra illustrati, a prescindere dalla sua “negoziabilità” su un mercato secondario, potendo dunque legittimamente meritare il medesimo trattamento agevolativo, a prescindere dall’esistenza o meno di quel carattere[45].
46. Peraltro, proprio alla luce del tendenziale dissolversi dei confini tra utility token e strumenti finanziari a cui spesso, come visto, può assistersi, proprio l’elemento della “negoziabilità” pare allora poter utilmente assumere centralità descrittiva[46], quale criterio che aiuti a distingue i primi dai secondi, per assoggettare alla disciplina regolatoria proposta (finalizzata essenzialmente a disapplicare la disciplina dei “prodotto finanziari”) anche (e anzi, allora soprattutto) quegli utility token che non presentino quel tratto (la cui presenza, molto spesso, potrebbe invece giustificarne una più facile assimilazione agli “strumenti finanziari”, rectius, “valori mobiliari”[47]) pur potendo presentare tutti i tratti qualificanti degli “altri investimenti” qualificabili come “prodotti finanziari”, in particolare quello di una “intrinseca” prospettiva di rendimento “diretto” (v. sopra al punto 19).
47. In assenza di tale aggiustamento definitorio, rimarrebbero dunque ingiustificatamente (paradossalmente) sottratte alla possibilità di trovar riparo nel safe harbour appositamente approntato dal Regolatore, tutte quelle piattaforme di business che “creano” e/o “collocano” utility token (e sono la maggioranza) che non prevedano o consentano la “negoziabilità” di quelli su “mercati secondari”. Certo, la logica sottesa a tale approccio è chiara, nel momento in cui, come meglio si vedrà (e come già visto sopra, nelle parole della stessa Commissione) la “deroga” dalla disciplina applicabile ai token qualificabili come “prodotti finanziari” verrebbe concessa solo “a condizione che siano impiegate piattaforme dedicate e vigilate dalla Consob rispondenti ai requisiti di seguito tratteggiati”, laddove la Commissione pare riferirsi, come vedremo nel prosieguo, all’utilizzo di “piattaforme di offerta regolate” ma al contempo anche al connesso utilizzo “in stretto collegamento” con esse, di “sistemi di scambio” secondario. Ma, come detto, tale approccio appare riduttivo, tagliando allora fuori tutti quei token, di natura utility che non prevedono un carattere di negoziabilità, pur presentando una intrinseca – o come riconosce la Commissione stessa nel Documento – una “diretta” componente, (promessa o garantita), di rendimento di natura finanziari (v. punto 19). Anticipando quanto si svilupperà meglio in appresso, deve ritenersi che il requisito dell’accesso a “sistemi di scambi vigilati”, dovrebbe allora valere come condizione per godere della “deroga” dall’applicazione della disciplina dei “prodotti finanziari” – semmai e pur sempre con le perplessità che si evidenzieranno – solo nel caso in cui essi risultino effettivamente “negoziabili” e “negoziati”, dovendo in caso contrario esser sufficiente al fine di giustificare l’accesso alla “deroga”, il solo requisito dell’utilizzo di “piattaforme di offerta regolate” in sede di loro offerta/“collocamento”.
48. In conclusione, dunque – nel rispetto di quello che è il chiaro e condivisibile approccio regolamentare adottato dalla Commissione e al fine, allora, di evitare facili confusioni o equivoci nella lettura o definizione del fenomeno, (che potrebbero venir indotti facilmente dal ricorso a termini ambigui o polimorfi quali “finanziamento” di “progetti imprenditoriali” o iniziative imprenditoriali”, etc.) rispetto a quello “affine” degli “strumenti finanziari” esclusi dall’ambito regolatorio – occorrerebbe, da un punto di vista definitorio: (i) ricorrere innanzitutto ad una disambiguante qualificazione delle tipologie di token oggetto di regolazione, evitando il ricorso al termine generico di “cripto- attività”, (direttamente evocativo della più ampia categoria dei crypto-asset), a favore di una più coerente locuzione di “cripto-investimenti” e, successivamente; (ii) procedere ad una più chiara individuazione dei tratti qualificanti del fenomeno da sottoporre a regolazione.
49. In tale ultimo senso potrebbe, alternativamente procedersi: (i) o in via positiva, ricorrendo ai concetti ormai invalsi di utility token e payment token (ma certo dai confini mutevoli e spesso indefiniti), ovvero, (ii) in via negativa, facendosi allora riferimento a tutte quelle “cripto-attività” che non siano di per sé qualificabili come strumenti finanziari o prodotti d’investimento; soluzione questa ultima che appare preferibile alla luce della citata mutevolezza e indefinitezza delle categorie “positive” di utility token e payment token, pur ponendosi, certo, (ma come già oggi fisiologico) in capo agli operatori l’onere e la responsabilità di procedere, di volta in volta e caso per caso, ad una corretta lettura e qualificazione (auto-diagnosi) del “bene” che si trovino ad “emettere”, “offrire”, “negoziare” o “detenere”, al fine di poterlo ritenere escluso dal novero di quelli.
50. In definitiva, una definizione analiticamente pregnante e concettualmente disambiguante, capace di delineare con chiarezza l’ambito regolatorio a cui essa debba applicarsi, con il precipuo obbiettivo di rendere applicabile il prefigurato regime di “deroga” dalla disciplina dei “prodotti finanziari” che dovesse altrimenti risultare applicabile, selezionando dunque efficacemente e razionalmente le tipologie di token che possano invocare l’accesso a tale “deroga” – purché subordinatamente alla ricorrenza dei modelli operativi individuati dal regolatore come funzionali alle esigenza di tutela degli “investitori” e da quest’ultimo individuati, come già accennato, nel ricorso (seppur facoltativamente, opt-in) a piattaforme (di offerta e/o di negoziazione) autorizzate e vigilate – potrebbe allora essere la seguente:
“Cripto-Investimenti”: tutte quelle “cripto attività” – intendendosi con ciò ogni rappresentazione di valore o diritti che fa ricorso a “tecnologie basate su registri distribuiti” come definite dall’art. 8-ter del d.l. 14 dicembre 2018, n. 135 – di per sé non qualificabili o descrivibili in termini di “strumenti finanziari” o “prodotti di investimento” e che siano cionondimeno qualificabili o descrivibili in termini di “prodotti finanziari”.
Si osservi come da tale definizione rimangono escluse quelle situazioni – da ritenere però residuali e marginali – che potrebbero essere ricondotte alle ipotesi “intercettabili” dalla ulteriore istanza regolatoria che pare perseguita dalla Commissione e volta a disegnare un percorso di incentivazione all’accesso volontario ad “offerte regolate” (in virtù di benefici meramente “reputazionali” che per effetto di ciò possano conseguirsi) anche per quei token che non fossero di per sé qualificabili e/o descrivibili in termini di “prodotti finanziari”; situazioni che, come tali, non necessitano però di essere “catturate” nella “definizione” di natura regolatoria del fenomeno sopra elaborata, quale invece resa necessaria – alla luce dell’attuale quadro normativo, imperniato sulla nozione di “prodotti finanziari” – in relazione al perseguimento della centrale istanza regolatoria consistente nel disegnare per quei token che invece così fossero qualificabili, il regime “speciale” (seppur facoltativo) di “deroga” dall’applicazione della relativa disciplina.
Si rinvia qui allo Schema 1: Rappresentazione grafica delle rilevanti (concentriche) categorie concettuali.
7. Conseguente inquadramento critico della proposta regolatoria formulata nel par. 3 del Documento in relazione alla necessità di far ricorso a “piattaforme per le offerte di cripto-attività” regolate e vigilate, quale condizione per accedere al regime di “deroga” dalla disciplina dei “prodotti finanziari”
51. Occorre richiamare qui, ancora una volta, la condivisibile impostazione regolatoria di fondo adottata dalla Commissione nella disciplina del fenomeno in esame, quale emerge, pur con le segnalate criticità, dall’intero Documento; tale impostazione pare dunque esser giustificata e sostenuta, innanzitutto, dalla condivisibile volontà “agevolatrice” di sottrarre all’applicazione della disciplina dei “prodotti finanziari”, quelle “cripto-attività” – diverse da quelle che fossero già pacificamente riconducibili alle categorie degli “strumenti finanziari” e “prodotti di investimento” e quindi, sostanzialmente riconducibili agli utility token o ai payment token – che a quella categoria potrebbero cionondimeno essere ricondotte, in virtù della ricorrenza dei “tradizionali” elementi “finanziari” di quella fattispecie. In aggiunta a questo approccio regolamentare, deve segnalarsi l’ulteriore istanza regolatoria che pare enunciata e perseguita dalla Commissione e volta a disegnare un incentivo anche per le ICO che non necessitassero della suddetta deroga disciplinare (essendo i relativi token non riconducibili alla categoria dei “prodotti finanziari”) ad avvalersi comunque di “piattaforme regolate” che (a prescindere dunque dall’effetto abilitante della “deroga” qui non necessaria) possano conferire vantaggi di natura essenzialmente reputazionale. Occorrerà allora in appresso (v. punto 72) soffermarsi a valutare più nel dettaglio come dovrà articolarsi un tale regime regolamentare attorno alla “riserva di attività” da disegnare a favore degli operatori che saranno dunque autorizzati allo svolgimento di “offerte regolate” (dovendosi allora pur sempre ritenere libera l’offerta “non regolata” di ICO).
52.In tal senso, allora, la soluzione condivisibilmente prefigurata dalla Consob, muove dalla necessità di, (i) consentire una tale “deroga” dalla vigente disciplina dei “prodotti finanziari” che potrebbe altrimenti spesso applicarsi agli utility token; (ii) conferire una “patente” di affidabilità anche a quei token che, comunque, non necessitassero di tale “deroga” non essendo riconducibili a quella categoria normativa; in entrambi i casi però, solo a condizione che risultino “offerti” da parte di soggetti abilitati a svolgere “offerte regolate”; il modello regolatorio delineato, individua dunque correttamente – come ora meglio si vedrà – nel (solo) momento dell’“offerta” l’unica fase procedimentale di una ICO efficacemente “intercettabile” al fine di imperniare su di essa il perseguimento di obbiettivi di tutela e “garanzia” degli acquirenti/“investitori”, affidando per tale via agli operatori (“piattaforme”) autorizzati e vigilati a cui dovrà obbligatoriamente farsi ricorso per poter accedere al regime di deroga disciplinare, compiti di verifica/validazione “a monte” dei requisiti di natura informativa e/o sostanziale – che dovranno essere definiti nel dettaglio dal regolatore nei termini del tutto peculiari che ora vedremo – al fine di accrescere il grado di consapevolezza degli “investitori” e il livello di affidabilità dei “prodotti” e/o degli “emittenti”.
53. Ciò premesso, la Commissione fa subito seguire la seguente affermazione:“Allo stato, gli operatori meglio posizionati per poter offrire professionalmente assistenza nella realizzazione delle offerte di cripto-attività a un numero potenzialmente indeterminato di investitori appaiono, in ambito domestico, i gestori di portali per la raccolta di capitali di rischio autorizzati ai sensi dell’art. 50-quinquies del d. lgs. N. 58 del 1998 (TUF) e la cui attività è disciplinata con il regolamento Consob n. 18592 del 26 giugno 2013 (Regolamento Crowdfunding). Potrebbe altresì prevedersi che soggetti diversi, purché in possesso di requisiti soggettivi richiesti all’anzidetta categoria di gestori di portali di crowdfunding, possano gestire piattaforme per le offerte di cripto-attività. Ciò al fine di non precludere lo sviluppo di modelli di business alternativi, in cui cioè il soggetto gestore intenda specializzarsi, pur nel rispetto di requisiti soggettivi analoghi a quanto ritenuto congruo per i gestori di portali di crowdfunding, soltanto al settore delle initial coin offerings. (evidenze aggiunte)”[48].
54. Ciò premesso, al fine di valutare l’approccio regolatorio così adottato e ai fini dell’analisi che segue, non può allora prescindersi dal ricostruire il retroterra tecnologico che consente l’effettuazione di ICO e la connessa attività di creazione (“emissione”)/collocamento[49] (momenti questi che, infatti, risultano qui caratterizzati da una tendenziale simultaneità/identità logica) di token.
7.1 Illustrazione del modello tipico di costruzione effettuazione di una ICO
55. In tal senso, ci si può limitare ad osservare come tipicamente gli utility tokens possono essere “creati” (“emessi”) da chiunque, utilizzando una blockchain che si avvalga della tecnologia Distributed Ledger Tecnology (DLT), tipicamente la blockchain Ethereum[50], (di tipo permissionless e decentralizzata) utilizzando protocolli e smart contracts standardizzati – il più noto è il “ERC20 token standard” o la sua versione Basic Attention Token (BAT) – normalmente col supporto tecnico di operatori specializzati che rilasciano i codici al pubblico (sotto forma di open source license), dopo averli “validati”. Il momento della “creazione” (coincidente qui indissolubilmente con il momento del “collocamento”) avviene quindi direttamente sulla blockchain da parte di “creatori” – detti founders/promoters o developers – che provvedono a redigere documenti informativi/pubblicitari noti come white papers, “pubblicizzati” (diffusi) poi attraverso internet o social media (Twitter, Reddit, Telegram, Slack etc.); una volta così creato iltoken e “messo in vendita” – talora articolandosi la vendita in più fasi, “pre-sale” e “sale”– chiunque, worldwide, disponga di una connessione internet ha allora la possibilità di “acquistarlo”, facendolo trasferire e mantenendolo poi custodito in appositi digital wallet. In sostanza si può descrivere il fenomeno in termini di un “collocamento” su scala mondiale e totalmente disintermediato (self-placed) che si svolge sulla (e si avvale della) piattaforma blockchain supportata da internet. Da quanto sopra può intanto osservarsi come gli attori tipici del fenomeno[51] son qui normalmente individuati nei seguenti: (i) i promoters/founders (emittenti?); (ii) i developers (esperti tecnologici che forniscono il supporto tecnico nello sviluppo di protocolli e smart contract); (iii) i wallet providers o digital wallet (ove distinti dai founders) che svolgono servizi di custodia dei token “emessi” e; (iv) sebbene non sempre e non necessariamente (specie, come visto, per gli utility token), gli exchange o trading platform (e cioè piattaforme di negoziazione “secondaria” dei token). Significativamente, nella descrizione ormai consolidata del fenomeno, non è imprescindibile o anche solo usuale assistere alla presenza di una categoria di ulteriori “operatori” che gestiscano “piattaforme di offerta” del token, forse perché tale fase del processo può anch’essa essere facilmente gestita “in autonomia” dal “creatore” dei token, in stretto parallelismo/simultaneità con la fase della creazione/“collocamento” dei medesimi, quest’ultima avvenendo sulla piattaforma blockchain.
7.2 Illustrazione del processo tipico di creazione/collocamento di token nell’ambito di una ICO
56. Occorre ora soffermarsi a descrivere, seppur sommariamente, quello che sul mercato appare oggi il modello di business sottostante da ogni ICO finalizzata alla “creazione”/“collocamento”, in particolare, di utility token. Dall’analisi dei più rilevanti casi sin qui osservabili sul “mercato”, esso pare tipicamente articolato in questi passaggi:
(i) – definizione del “progetto imprenditoriale” da parte del soggetto promotore (“emittente”?) – founder/promoter – che potrà variamente essere identificato in una persona fisica, una società, un network di sviluppatori etc.
(ii) – scelta della piattaforma blockchain da utilizzare (come detto, in relazione a utility token, oggi pare dominante il ricorso alla piattaforma Ethereum, utilizzando il protocollo ERC20).
(iii) – redazione del c.d. “white paper”, il documento informativo descrittivo della ICO.
(iv) – gestione dell’“offerta”: consistente nella progettazione e “lancio” del sito web collegato alla ICO. Oltre alla pubblicazione del white paper – spesso accompagnato da un “presentation video” – in esso dovranno essere riportate le seguenti informazioni: (i) team di promotori dell’iniziativa; (ii) finalità del progetto e “case study”; (iii) misure adottate a protezione degli investitori; (iv) “modulo di sottoscrizione” ed eventuale altra contrattualistica tipo SAFT[52]; (v) “roadmap” con indicazioni delle fasi cronologiche in cui si dipana il progetto; (vi) documenti legali (terms&conditions, disclaimer….etc); (vii) indicazione di eventuali partners e advisors, ed early investors; (viii) indicazioni di contatto con specifico riguardo ai link degli account del progetto sui social network.
al fine di aderire alla ICOcosì “lanciata”:
(v) – qualsiasi investitore che, worldwide, disponga di un accesso a rete internet, dovrà normalmente “registrarsi” sul sitoweb del progetto.
(vi) – successivamente, l’investitore registratosi dovrà procedere a trasferire al project wallet address, che sarà indicato dal sito web del progetto, i necessari fondi (tipicamente espressi in una cripto-valuta che, quindi, l’investitore dovrà essersi precedentemente procurata, detenendola con le varie possibili modalità oggi configurabili: e- wallet; hard wallet o wallet providers).
(vii) – una volta effettuato regolarmente il “pagamento” dei token da parte dell’investitore, questi verranno automaticamente assegnati e trasferiti sul wallet dell’investitore che questo avrà preventivamente comunicato; normalmente i token emessi tramite ICO che avvengono ad es. su Ethereum sono “supportati” dai più diffusi wallet service providers.
57. Alla luce dell’analisi sopra condotta, deve allora osservarsi in primis come appaia del tutto impossibile o velleitario pensare che operatori (o piattaforme) diverse dall’emittente/collocatore, possano assumere un ruolo “interno” al descritto processo di “creazione/collocamento”, processo di per sé non “intercettabile” e sottoponibile ad un regime domestico di regolazione; appare infatti assai difficile (se non impossibile) ipotizzare che essi possano efficacemente inserirsi nel sopra-descritto processo di articolazione operativa di una ICO, potendone gestire direttamente le fasi operative che sono invece tipiche dell’“emissione” di strumenti finanziari” (la interazione con gli “investitori”, la ricezione degli ordini, la esecuzione, il pagamento, l’“emissione”, il collocamento, etc.), così da poterne garantire l’affidabilità tecnica e giuridica. Tutte quelle fasi – nell’ambito di una ICO – avvengono, in maniera inestricabile e simultanea, nell’ambito dell’unico contesto decentralizzato, disintermediato, automatizzato (tramite ricorso ai c.d. smart contract) e globale della sottostante infrastruttura blockchain di cui si avvale imprescindibilmente la ICO stessa.
58. Da questo punto di vista, come già anticipato, la natura opt-in della prefigurata opzione regolatoria appare solo teorica; alla luce del descritto modello di business, appare infatti tecnicamente incompatibile e operativamente improponibile anche solo ipotizzare di poter affidare la fase di “promozione e collocamento/emissione” a tradizionali intermediari abilitati, come richiederebbe l’applicazione della disciplina ex art. 32 TUF ove si ritenesse di non optare per il safe-harbour. In realtà, la soluzione regolamentare proposta dalla Commissione di intervenire sulla fase dell’“offerta” – quella cioè sopra descritta al punto 56(iv). – appare (apparirà) come la sola efficacemente applicabile, intervenendo all’esterno del processo di “creazione/collocamento” – necessariamente disintermediato, decentralizzato, automatizzato e globalizzato sulle piattaforme blockchain. La fase dell’“offerta”, risulta invece tecnologicamente e giuridicamente distinguibile ed isolabile, affiancandosi – tecnicamente e giuridicamente – a quella di “creazione/collocamento”, senza necessariamente sovrapporsi ad essa inestricabilmente[53].
7.3 Limitata valenza euristica del modello delcrowdfunding
59. Dal carattere necessariamente disintermediato, decentralizzato e globalizzato che qualifica la peculiare operatività delle piattaforme di “creazione/collocamento” di token, ne consegue una prima conclusione: non può applicarsi al fenomeno qui indagato un approccio analitico tipico di un “modello intermediario” – quale risulta invece quello “classicamente” adottato nell’ordinamento domestico per regolare il fenomeno del crowdfunding – nel quale le piattaforme intervengono essenzialmente a intermediare tra “emittenti” e “sottoscrittori”, gestendo la fase distributiva; modello intermediario che non pare dunque in alcun modo applicabile al caso delle piattaforme di “emissione” (creazione) di utility tokens e/o payment tokens, ove, tipicamente, i confini tra “collocatore” ed “emittente” sfumano, come visto, impercettibilmente, caratterizzandosi esso proprio per la marcata disintermediazione che comporta rispetto ai consueti modelli di “collocamento”/“raccolta e trasmissione ordini”.
60. Alla luce di quanto sopra, il rinvio sic et simpliciter al modello operativo e al quadro normativo del crowdfunding[54], ove non correttamente inteso e riorientato, può dunque apparire fuorviante sotto un duplice profilo:
1) da un lato si rinvia ad un “classico” modello tipicamente “intermediario” pensato per la “emissione” di “strumenti finanziari”, riproducendosi per certi versi l’ambiguità di fondo già sopra segnalata (v. in particolare, punto 31) in ordine alla natura delle “cripto-attività” che dovrebbero qui essere definite tali e disciplinate (ambiguità, come visto, già di per sé ingenerata dal riferirsi a concetti come “finanziamento” di “progetti imprenditoriali” ovvero di “società”.
2) Sotto un altro profilo, si omette di considerare come la specificità, davvero tipica, delle piattaforme di crypto-asset e, specie, di quelle di “emissione” (creazione) di “utility token” (che, per tutto quanto sopra visto, dovrebbero costituire l’oggetto privilegiato di regolazione), può proprio individuarsi nella mancanza di alterità soggettiva tra “emittente” (creatore) e “collocatore” che invece – sebbene non più estranea anche al nostrano modello di crowdfunding, essendo oggi consentito il self-placing – appare tuttora quella tipica di questo modello, il quale è infatti tradizionalmente riconducibile ad una attività di “collocamento” (rectius “tecnicamente” ad una attività di “ricezione e trasmissione ordini” esentata ex art. 3 MIFID) con quel che ne consegue allora in termini di inidoneità a fungere da efficace (o anche solo plausibile) modello operativo di regolazione delle ICO, alla luce dei sottostanti interessi di tutela, se non tenendo conto di tale rilevante differenza strutturale e funzionale[55].
61 . Ciò detto, può comunque apparire condivisibile e utile la scelta della Commissione di riferirsi, perlomeno in questa prima fase, ai gestori di crowdfunding che operano in un contesto che certamente presenta tratti di affinità con specifico riferimento alla fase dell’”offerta” (e alle modalità di suo svolgimento, on-line, in deroga alla ordinaria disciplina del prospetto), per “innestare” su di esso – sfruttando così la curva di esperienza normativa sin qui sviluppata – il nuovo specifico apparato regolamentare; ciò però presuppone e implica che quel modello operativo di riferimento venga opportunamente (e profondamente) reinterpretato e riorientato, alle luce delle rilevanti peculiarità e delle marcate differenze del fenomeno indagato. E in tal senso – alla luce delle profonde differenze tra i sottostanti modelli di business – appare più che condivisibile l’indicazione della Commissione stessa in base alla quale la promozione di offerte di cripto-attività “debba esser tenuta distinta da quella connessa con le offerte di crowdfunding” (evidenza aggiunta).
7.4 La condivisibile opzione adottata da Consob di concentrare l’intervento regolatorio sulla fase dell’“offerta”
62. In base al modello operativo sopra delineato appare come, viceversa, le due fasi della “creazione/collocamento” e dell’“offerta” appaiono logicamente, tecnologicamente e giuridicamente distinte e distinguibili nell’ambito di quel medesimo, articolato, processo che abbiamo visto caratterizzare ogni ICO (Offering, “offerta” qui, allora, in senso lato). E, infatti, la scelta di affidare a soggetti distinti quelle fasi del processo non può ritenersi del tutto estranea (anche se non forse tipica) del fenomeno, come rilevato anche da ESMA[56] quando segnala come “some digital platforms have specialised in the promotionof ICOs”; trattasi sostanzialmente di attività promozionale e commerciale dell’offerta che, evidentemente, non può prescindere da o sostituirsi ai meccanismi di “creazione/collocamento” dei token sopra illustrati.
63. La fase dell’“offerta” in senso stretto – in quanto “isolabile” tecnologicamente e giuridicamente dalla fase di “creazione/collocamento” dei token per essere allora affidata a tali operatori (o piattaforme) “dedicati”, deve qui intendersi “tecnicamente”, riferendosi quindi alla tradizionale e vigente definizione normativa, che fa riferimento ad “ogni comunicazione rivolta a persone, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari”[57]; e in tal senso appare allora pienamente coerente al modello operativo di ogni ICO, la scelta della Consob di intervenire, nella regolazione del fenomeno, solo su questa fase; l’unica, come detto, efficacemente isolabile da quella di “creazione/collocamento”.
64. In particolare, poi, alla luce del modello operativo e procedimentale sopra illustrato, tale attività di “promozione e realizzazione dell’offerta” di token, dovrà qui identificarsi in quell’attività di progettazione, sviluppo, gestione e controllo del portale on-line (il sito web) dedicato alla ICO.
65. E da questo (solo) punto di vista, può allora apparire sicuramente utile riferirsi a quanto può già osservarsi nel modello normativo e operativo del crowdfunding – seppur ciò non costituisca qui il “cuore” del fenomeno che deve invece individuarsi nel ruolo di “intermediazione” – in cui è comunque classicamente osservabile un ruolo di gestione dell’offerta attraverso “vetrine” on-line in cui vengono “esposte” le occasioni di investimento preselezionate dalla piattaforma stessa.
7.5 L’“offerta regolata” come momento di centralizzazione della diffusione – in esclusiva allora – delle “informazioni critiche” della ICO, al fine di accedere alla deroga di disciplina
66. E’ dunque, quella della offerta “on-line” via web, quale modalità che deroga alla ordinaria disciplina del prospetto, la fase operativa che potrà semmai essere efficacemente mutuata dal modello del crowdfunding – ampliandone e riorientandone i contenuti alla luce delle specificità del sottostante fenomeno – con riguardo dunque ai compiti di “garanzia” affidati alla piattaforma in ordine innanzitutto: (i) all’informazione da prestare pubblicamente alla platea dei potenziali “investitori” sotto il duplice profilo della: (a) completezza ed eventualmente; (b) dellaaffidabilità, previa verifica quindi della veridicità di alcune informazioni critiche (identità promoters efounders; indicazioni sulle modalità di “pagamento” e “regolamento” dei token, wallet, etc.) e; (ii) alla verifica e “certificazione” di alcuni requisiti che l’“emittente” (o i suoi “prodotti finanziari”) devono presentare (similmente a quanto avviene con riguardo alla disciplina domestica del crowdfunding, in ordine alla verifica affidata ai gestori delle piattaforme di alcuni requisiti che devono presentare gli “strumenti finanziari” emessi e collocati, ovvero gli emittenti stessi, ad esempio con riguardo a specifici requisiti statutari).
67. In definitiva, allora, nel modello regolatorio prefigurato, al fine di poter beneficiare di quel trattamento “agevolato”, i “creatori/collocatori” dovranno obbligatoriamente avvalersi di quelle piattaforme autorizzate e vigilate in via esclusiva, non potendosi cioè ipotizzare il contemporaneo svolgimento di una offerta “diretta”, ovvero il contemporaneo ricorso a (una o più) piattaforme non regolate; frustrandosi altrimenti l’obiettivo di concedere il trattamento “di favore” da parte dell’ordinamento solo a quelle ICO che presentino i caratteri di affidabilità individuati dall’ordinamento e rimessi quindi alla preventiva verifica affidata ai gestori delle piattaforme “autorizzate”, attraverso le quali solamente, dunque, l’offerta potrà essere centralizzata e veicolata, con riguardo ai suoi contenuti più delicati (“informazioni critiche”).
68. Stante questo regime di necessaria esclusiva del canale attraverso cui deve avvenire l’“offerta” di token nell’ambito di una ICO che voglia beneficiare del trattamento “agevolato”, occorrerà definire con cura gli spazi di compatibilità e le necessarie regole di coordinamento da adottarsi in relazione agli ulteriori usuali – nella realtà, immancabili e imprescindibili – canali di commercializzazione, pubblicità, promozione e supporto tramite, tipicamente, social media; i quali, ovviamente, non potranno sovrapporsi, nei loro contenuti, alle “informazioni critiche” che invece dovranno essere necessariamente centralizzate e veicolate in via esclusiva attraverso il canale autorizzato di “offerta” (in particolare, quindi, le indicazioni tecniche di adesione all’offerta e, in particolare quelle di “pagamento” e regolamento dei token emessi; questi costituendo i profili critici del processo che più spesso sono esposte a frodi a danno degli “investitori”). A questo riguardo potranno applicarsi, mutatis mutandis, le stesse “classiche” modalità di coordinamento, richieste dall’art. 101 TUF, tra i contenuti del “prospetto” (che nella fattispecie qui in esame, deve farsi corrispondere logicamente al sito web, on-line, gestito e controllato dalla “piattaforma di offerta”, e ai contenuti in essa pubblicati) e qualsiasi ulteriore e connessa attività pubblicitaria concernente l’offerta.
69. con riguardo ai modelli di intervento con cui presidiare la fase dell’“offerta” al fine di veicolare su di essa le istanze regolatorie e di vigilanza perseguite a salvaguardia degli interessi degli investitori, possono ipotizzarsi due schemi, tra loro parzialmente sovrapponibili: (i) un coinvolgimento diretto di una “piattaforma di offerta” gestita/operata e controllata da operatori distinti dall’“emittente/collocatore” che, quindi, progetti, sviluppi e gestisca e controlli in esclusiva, per conto del primo, il sito web, on-line su cui dovrà essere offerta la ICOs; (ii) un intervento “esterno” di affiancamento dell’ “emittente/collocatore” – del tipo di quello affidato allo “sponsor” in sede di quotazione di “strumenti finanziari”; in particolare questo modello parrebbe poter essere utilmente affiancato al primo, con particolare riguardo a compiti di verifica e “validazione” dei supporti/presìdi tecnologici utilizzati dall’“emittente/collocatore” nella strutturazione della ICO.
7.6 I contenuti dell’“offerta regolata”
70. Volendo ora guardare ai contenuti che – e a prescindere dal modello di intervento che venisse adottato, tra i due sopra ipotizzati al punto precedente – potrebbero e dovrebbero essere dunque affidati alla “piattaforma di offerta” occorre preliminarmente soffermarsi ad identificare le peculiari aree di rischio che questi “prodotti” e il descritto modello che presiede alla loro “creazione/collocamento” presentano – focalizzandoci qui sui rischi in capo agli acquirenti/investitori e tralasciando, viceversa, quelli di tipo sistemico (tradizionalmente individuati in quelli di prevenzione di fenomeni di antiriciclaggio, AML, e terrorismo; stabilità dei mercati; salvaguardia della funzione monetaria; etc.) – al fine di identificare quelle che più potrebbero essere presidiate dal prefigurato intervento regolatorio, a tutela degli acquirenti/investitori:
(i) Rischio di controparte o di performance: gli utility token, in virtù della loro sottostante causa civilistica (perlopiù riconducibile, come visto, ad una compravendita (di bene o servizio) futura, o emptio spei), presentano eminentemente un rischio di “controparte” e di “performance”, con riguardo alla capacità dell’”emittente” di “consegnare” (delivery) il bene o servizio nei tempi e modi prefigurati in sede di “collocamento” del token; problema reso ancor più acuto dall’utilizzo di tale modello di business con finalità eminentemente di “finanziamento” (in senso lato)/“raccolta di capitali” a supporto del sottostante progetto imprenditoriale (c.d. “scaling” del business project) in maniera che potrebbe spesso grandemente eccedere o sovrastimare la capacità produttiva futura necessario a consentire il puntuale e regolare adempimento dell’obbligazione assunta.
(ii) Rischio di dipendenza tecnologica; cyber-resilienza e ICT security. Alla luce della natura altamente tecnologica e ingegneristica (cibernetica e crittografica) della infrastruttura utilizzata per le ICO, è cruciale l’aspetto della tenuta, affidabilità e sicurezza informatica e tecnologica, questo risultando il punto di debolezza attraverso il quale vengono perpetrate le più frequenti frodi a danno degli investitori, soggetti a rischi di breakthroughs, incursioni di hackeraggio ovvero anche solo a cadute/collasso/discontinuità dell’infrastruttura tecnologica.
71. Ciò premesso, quelli che tipicamente dovranno delegarsi alla piattaforma autorizzata d’offerta, dovranno essere ruoli di verifica della completezza dell’informazione e, entro certi limiti, di certificazione/validazione dei suoi contenuti, oltreché, eventualmente, dei presìdi organizzativi e tecnologici adottati dall’emittente nella strutturazione della relativa ICO: in particolare quindi:
– (i) verifica della completezza dell’“informazione” che dovrebbe essere obbligatoriamente fornita agli utenti sui contenuti della ICO, secondo griglie standardizzabili (i c.d. white papers);
– (ii) “identificazione” dei soggetti “emittenti” (founders, promoters) e in particolare dei loro indirizzi di contatto e modalità di “pagamento” dei token creati tramite wallet del progetto;
– (iii) verifica di eventuali requisiti in capo ai medesimi “emittenti” (forma giuridica, localizzazione, requisiti professionali o reputazionali degli esponenti aziendali, requisiti di capitalizzazione etc.;
– (iv) “validazione”/”certificazione” dei protocolli tecnologici adottati (in linea con quello che oggi è ad es. il ruolo affidato alle piattaforme di crowdfunding di verifica degli statuti degli emittenti); in tal senso occorrerebbe definire da parte della Commissione (ragionevolmente con il supporto “tecnico” di AGID) quali possano/debbano essere gli standard minimi tecnologici a cui debbano attenersi i “creatori” di utility tokens e la cui verifica/certificazione/validazione dovrà essere appunto demandata o direttamente alle “piattaforme d’offerta”, ovvero secondo il modello alternativo sopra delineato ad appositi “sponsor” tecnologici dei “creatori/collocatori” (promotori) della ICO, riconosciuti tali (da AGID?).
– (v) viceversa – pur risultando qui tipico un rischio di “performance” e di “controparte”, nei termini peculiari sopra illustrati e nonostante la Commissione parrebbe orientata a non escludere affatto in capo alle piattaforme compiti di “selezione dei progetti imprenditoriali meritevoli di accedere alla piattaforma” – pare davvero difficile da ipotizzare un ruolo di valutazione/validazione del contenuto imprenditoriale dei progetti sottostanti alla ICO, se non altro per la molteplicità dei contenuti e dei modelli di business che essi possono assumere, per contenuti e fasi di sviluppo, nell’impossibilità quindi di loro standardizzazione e traduzione in “rating”, modelli valutativi, o anche solo descrittivi, significativi e comparabili. A meno che non si voglia effettivamente adottare, in relazione al fenomeno qui indagato, la riduttiva e discutibile prospettiva regolatoria ispirata (anche) al perseguimento di obiettivi di politica industriale nazionale, quale già sopra ipotizzata (v. punti 8, 9 e 71(v)) che si proponesse, dunque, l’obbiettivo di delimitare e riservare la possibilità di offerta di ICO a soggetti residenti in Italia, esclusivamente a quelle che vedano – come sottostante – progetti imprenditoriali perseguiti, ad esempio, esclusivamente start-up o PMI localizzate nel territorio nazionale[58]. Se così fosse si finirebbe allora con l’escludere in radice ogni possibilità di avvalersi di “piattaforme di offerta” autorizzate ad offrire a soggetti investitori residenti in Italia, per tutte quelle ICO (ad oggi, può ben ritenersi, la quasi totalità del fenomeno!) progettate/ create/collocate dall’/all’estero e/o da soggetti esteri, nell’ambito quindi dei più diversi contesti giuridici di riferimento. Peraltro, alla luce di tutta l’analisi sin qui condotta, risulta evidente come un tale approccio risulterebbe criticabile anche per l’effetto di “inquinamento” della filosofia di regolazione del fenomeno che sembra consapevolmente e condivisibilmente adottata dalla Commissione scegliendo di “intercettare” e sottoporre a regolazione la sola fase – giuridicamente e operativamente isolabile e “controllabile” – dell’“offerta” e non invece quella, sottostante e preliminare, della “creazione” del token, di per sé decentralizzata, disintermediata e automatizzata.
7.7 La riserva di attività – a piattaforme autorizzate e vigilate – della gestione di piattaforme per lo svolgimento di“offerte regolate” (abilitanti o meno alla deroga dalla disciplina dei prodotti finanziari)
72. Nel modello regolatorio prefigurato tale attività di offerta “regolata” parrebbe dover essereinnanzitutto “riservata” a piattaforme a loro volta “regolate” e vigilate, solo in tanto in quanto attraverso il loro ricorso si vogliano ottenere gli effetti abilitanti della “deroga” dall’applicazione della disciplina dei “prodotti finanziari”; viceversa, nulla dovrebbe impedireche lo svolgimento di “offerte” (non “regolate”, allora) di ICO possa esser svolta anche da piattaforme non autorizzate e vigilate, laddove (i) i relativi token non siano descrivibili o qualificabili come “prodotti finanziari”, ovvero, pur essendolo; (ii) il “creatore”/”collocatore” dei relativi token non intenda avvalersi della “deroga” e procedere dunque alla loro emissione/collocamento nel rispetto della vigente disciplina del prospetto e della “promozione e collocamento a distanza” (ammesso che sia concretamente configurabile, rimandando alle considerazioni già sopra sviluppate sulla natura solo teoricamente facoltativa della scelta regolatoria ipotizzata). Inoltre, nulla dovrebbe impedire a “piattaforme regolate” di promuovere e gestire, in regime di riserva – purché ovviamente ciò avvenga sempre nel rispetto dei medesimi standard comportamentali e organizzativi – anche offerte “autorizzate” di token che non siano riconducibili alla nozione di “prodotti finanziari” e che quindi – non necessitando di alcuna deroga di disciplina – ben potrebbero essere offerti direttamente dal creatore/collocatore (come tipicamente avviene) o da piattaforme non regolate. Ciò avrebbe il benefico effetto di promuovere sul mercato il ricorso volontario, anche dove non utile o necessario, a tutte quelle offerte che volessero fregiarsi del “marchio” di affidabilità di “offerta regolata”. Non dovrebbe invece esser consentito ad un gestore “autorizzato” di piattaforme, di gestire al contempo offerte “regolate” (e quindi anche abilitanti alla deroga) e “non regolate”. In sostanza, dalla natura di “piattaforma regolata” (e “autorizzata”) deve necessariamente conseguire la natura di “offerta regolata”, a prescindere dalla circostanza che da ciò conseguano o meno gli effetti abilitanti della deroga dalla disciplina dei “prodotti finanziari”, ove questa fosse risultata altrimenti applicabile. Il pregio di questa opzione regolatoria appare anche quello di contribuire a diffondere e radicare da subito in maniera quanto più ampia, modelli organizzativi e comportamentali specifici per il particolare ecosistema “cripto”, nell’attesa che in una fase più avanzata del mercato si possa pensare di estendere la “riserva di attività” a qualunque offerta avente ad oggetto “cripto attività”.
73. Il contenuto dell’attività rimessa alle piattaforme “autorizzate”, solo parzialmente riconducibile a quello “classico” del crowdfunding (pensato per un ruolo “intermediario” in un processo di emissione di “strumenti finanziari” tradizionali), richiederà dunque l’imposizione e la verifica in capo al gestore e/o alla piattaforma di skills, competenze, apparati informativi, presidi organizzativi e di controllo, requisiti di capitalizzazione regole procedurali e comportamentali assai diversi e specifici, rispetto a quelli oggi richiesti ai gestori di piattaforme autorizzate di crowdfunding dalla vigente normativa che dovrà, conseguentemente, essere opportunamente adeguata.
74. Inoltre, attesa comunque la solo parziale (e, di fatto, alla luce della analisi sopra condotta, solo superficiale) coincidenza di modelli operativi che rendono dunque alquanto limitate le “economie di scala” regolamentari, ottenibili appoggiandosi al modello regolatorio in essere per il crowdfunding, ben può ipotizzarsi di affidare anche altri operatori un tale ruolo, purché, ovviamente, presentino identità di requisiti e siano sottoposti ad un analogo regime autorizzativo e di vigilanza.
Rinvio allo schema 2: “Albero delle opzioni di effettuazione dell’“offerta” e allo schema 3: “Matrice della “riserva di attività”
8. Considerazioni critiche in relazione alla proposta regolatoria formulata nel par. 4 del Documento in relazione alla necessita di accedere a “sistemi di scambi di cripto-attività” autorizzati e vigilati quale ulteriore condizione per accedere al regime di “deroga” dalla disciplina dei “prodotti finanziari”
75. Alla luce delle considerazioni già sopra esposte (v. in particolare punto 45) in relazione alla identificazione degli elementi utili e funzionali alla definizione della “categoria” di “cripto-attività” da sottoporre al peculiare e circoscritto approccio regolatorio adottato in questa sede dalla Commissione, con particolare riferimento alla non significatività e tipicità dell’elemento della “negoziabilità” attuale o potenziale (specie con riguardo agli utility token che paiono costituire oggetto della più amplia platea di ICO che dovrebbero/potrebbero beneficiare della soluzione regolatoria delineata dalla Commissione), può allora e innanzitutto osservarsi come non paia condivisibile la scelta di concedere il suddetto descritto regime “agevolato”[59] solo a quei token che scelgano di adottare il “doppio binario” del ricorso cioè, ad una piattaforma di offerta “regolata” congiuntamente al ricorso – contestualmente alla “emissione primaria” e in “stretto collegamento”, quindi, con lo svolgimento dell’offerta – a “sistemi di scambio” autorizzati.
76. Ora, una tale scelta potrebbe semmai giustificarsi in relazione solo all’ipotesi in cui sia effettivamente osservabile o prevista una negoziazione di tali token, richiedendosi allora che – sempre al fine di poter godere del regime “agevolato” – tale negoziazione debba avvenire su “sistemi di scambio vigilati”; ma, ripetiamo, tale non può porsi come un requisito imprescindibile della fattispecie e quindi come condizione imprescindibile per accedere al regime “di deroga”, atteso che in molti casi di utility token quel requisito di “negoziabilità” e/o di effettiva “negoziazione” pare mancare del tutto, senza potersi per ciò escludere che essi possano cionondimeno risultare ben descrivibili in termini di “prodotti finanziari” e non vedendosi, allora, ragioni per cui debbano essere esclusi dalla possibilità di accedere comunque alla deroga disciplinare, purché venga ovviamente utilizzata – qui si imprescindibilmente – una “piattaforma di offerta” autorizzata.
77. Peraltro, anche laddove i token presentino effettivamente il tratto della “negoziabilità” o dell’“effettiva negoziazione” e siano quindi oggetto di, o destinati alla, negoziazione, possono avanzarsi le seguenti perplessità circa l’opportunità di imporre come ulteriore requisito per accedere al “regime agevolato” quello di essere negoziati/negoziabili presso sistemi di scambio dedicati e autorizzati:
78. (i) innanzitutto tale istanza regolatoria appare “esorbitante” rispetto al generale approccio regolamentare accolto in questa sede dalla Commissione e circoscritto volutamente e consapevolmente dalla medesima alle esigenze di tutele, tipiche della fattispecie dei “prodotti finanziari” che, come tali, esauriscono la loro portata in relazione alla fase dell’offerta (al pubblico); la successiva fase di negoziazione “secondaria” – per quanto certamente presenti non minori esigenze di tutela – pare allora estranea, o meglio, esorbitante rispetto a questo approccio e perimetro regolamentare;
79. (ii) in tal senso, essa, infatti, appare tipica della disciplina degli “strumenti finanziari” – parendo quindi anomala una estensione alla diversa e più ampia categoria dei “prodotti finanziari” qui oggetto di attenzione regolatoria, un approccio regolamentare – e quindi l’imposizione di prescrizioni organizzative e comportamentali – tipici invece della prima categoria, inquinandosi la corretta separazione degli ambiti regolamentari mantenuta sin qui dalla Commissione.
80. (iii) inoltre e conseguentemente, non può sottolinearsi come alla luce del peculiare fenomeno tecnologico in esame, occorrerebbe comunque anticipare qui e precorrere, assai impegnativamente, soluzioni regolamentari di complessissima risoluzione che comunque dovranno trovare soluzione nel momento in cui, in ambito comunitario, dovesse maturare un armonizzato approccio regolamentare al fenomeno dei “security token” (assimilabili a o descrivibili come “strumenti finanziari” o “prodotti d’investimento”) ad esito delle attività di analisi in corso in sede ESMA e di Commissione UE; in tale contesto tali “sistemi di negoziazione” – con le rilevanti, peculiari specificità tecnologiche che essi presentano rispetto ai modelli “classici” in cui vengono negoziati i “tradizionali” strumenti finanziari- dovranno infatti essere oggetto di considerazione nell’ambito della disciplina MIFID, quali MTF o OFT.
81. (iv) infine può segnalarsi come alcune indicazioni regolamentari già abbozzate nel Documento in merito a quelli che dovrebbero essere i requisiti di tali “sistemi di negoziazione” affinché possano essere “autorizzati”, non paiono rispondere a quella che risulta oggi la prassi assolutamente invalsa e osservabile sul mercato con riguardo alle sedi (“trading venues” o “exchanges”) su cui oggi vengono negoziati la stragrande maggioranza dei token, ricorrendosi perlopiù a piattaforme di negoziazione decentrate e permissionless. Imporre quindi la necessità di avvalersi di sedi di negoziazione che non prevedano quei caratteri, vorrebbe dire allora escludere dall’ambito dell’intervento di favore qui prefigurato – rendendolo allora vano – la stragrande maggioranza deitoken (negoziabili/negoziati), con la conseguenza pratica di escluderli del tutto dal mercato ove si consideri che – come più volte sottolineato – la natura di scelta op-in, facoltativa finalizzata a sottrarsi all’applicazione della disciplina dei “prodotti finanziari”, risulta nella sostanza una scelta “obbligata” (v. sopra punti 57 e 58)[60].
82. Può infine ultimativamente osservarsi come l’attenzione del Regolatore dovrebbe piuttosto appuntarsi sulla verifica che – in sede di collocamento “primario” dei token e in stretto collegamento/simultaneità con l’offerta – più che l’accesso a “sistemi di scambio vigilati” (ipotesi, come visto, non imprescindibile, attesa la natura non necessariamente “negoziabile” dei token), sia stata adottata (qui si, imprescindibilmente) una affidabile struttura di deposito/custodia deitoken assegnati agli investitori, tramite appositi e tecnologicamente affidabili e-wallet o wallet providers. Pur costituendo infatti, tale operatività, oggetto di specifica considerazione nell’ambito del Documento (in connessione però non tanto alla fase di offerta primaria ma a quella di negoziazione, nella nostra prospettazione solo eventuale), più approfondita attenzione andrebbe riservata ai possibili approcci regolatori da adottarsi in relazione alla fase di “regolamento/pagamento/assegnazione” dei token – necessariamente connessa a quella della loro “creazione” e non tanto alla loro eventuale ammissione alle negoziazioni – e, successivamente, di loro deposito e custodia, in appositi digital wallet, nell’interesse degli investitori a cui siano stati assegnati in sede di “collocamento”. Questo momento rappresenta infatti forse tra i più delicati profili di criticità con riguardo alla necessità di approntare un effettivo regime di tutela agli “investitori”.
83. Tra i possibili e realistici approcci regolatori ci si potrebbe limitare – perlomeno in una fase iniziale di regolazione del fenomeno – ad imporre in capo al gestore della piattaforma di offerta, ovvero dello “sponsor tecnico”, la verifica che l’individuazione di tali e-wallet o wallet providers sia avvenuta attingendo ad un elenco di operatori “accreditati” o anche solo “internazionalmente riconosciuti” nell’ecosistema “cripto” (valutazione che, ancora una volta, potrebbe esser rimessa ad AGID). In una fase più avanzata della regolazione potrebbe forse pensarsi – pur con le difficoltà spesso insuperabili della natura delocalizzata e transnazionale del fenomeno che fa apparire oggi velleitaria ogni ambizione regolatoria su esso – ad un regime di autorizzazione/vigilanza diretta anche su questi attori dell’ecosistema (da normare e svolgere congiuntamente a Banca d’Italia e AGID), previa verifica in capo ad essi di idonei presìdi organizzativi e comportamentali (tipicamente, presidi di segregazione e tracciabilità, AML, conflitti di interessi, cyber-resilienza, affidabilità delle infrastrutture tecnologiche etc.).
84. In particolare occorrerà tenere nella debita considerazione – ove tale attività venisse svolta sul territorio italiano – la normativa attinente agli obblighi regolamentari stabiliti dall’art. 17-bis del D. Lgs. 141/2010 a carico degli operatori dell’attività di cambio valuta nei confronti del pubblico, e consistenti nell’iscrizione ad un apposito Registro tenuto dall’Organismo degli Agenti e dei Mediatori (di seguito “OAM”) previsto dall’art. 128-undecies del D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (anche “Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”, per brevità “TUB”), che sono stati estesi anche ai “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale” di cui all’art. 1, comma 2, lett. ff) del D. Lgs. 231/2007, ovvero ogni “persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale”[61].
9. Prospettive regolatorie ulteriori e a più lungo termine
85. Il pregio dell’approccio regolatorio adottato dalla Commissione (perlomeno per ora, in questa fase di primo “approccio” regolamentare al fenomeno) pare anche essere quello di poter fungere da “banco di prova” e da “trampolino di lancio” di quello che sarà il probabile secondo step regolamentare a cui si tenderà una volta che si saranno consolidati/standardizzati i modelli operativi e le infrastrutture tecnologiche sottostanti, in particolare allorché in sede europea si sia raggiunto un sufficiente consenso circa l’approccio regolatorio comune da adottare con riguardo ai security-type o investment-like token.
[1] Per un primo commento si rinvia A. Sciarrone Alibrandi, Offerte iniziali e scambi di cripto-attività: il nuovo approccio regolatorio della Consob, in Diritto Bancario online, 4 aprile 2019 e M. Nicotra, Il regime giuridico delle ICOs. Analisi comparata e prospettive regolatorie italiane, in Diritto Bancario online, Aprile 2019.
[2] Per un generale e approfondito inquadramento del fenomeno in dottrina, anche in una prospettiva comparatistica, può rinviarsi per tutti a F. Annunziata, Speak, If You Can: What Are You? An Alternative Approach to the Qualification of Tokens and Initial Coin Offerings, in Bocconi Legal Studies Research Paper No. 2636561, febbraio 2019 e all’ampia letteratura internazionale ivi richiamata. Con riferimento alle tematiche di inquadramento dei crypto-asset nell’ambito dell’ordinamento finanziario italiano mi sia consentito rinviare P. Carrière, Le “criptovalute” sotto la luce delle nostrane categorie giuridiche di “strumenti finanziari”, “valori mobiliari” e “prodotti finanziari”; tra tradizione e innovazione, in Rivista di Diritto Bancario, n. 2/2019.
[3] Volendoci solo riferire alla più avanzata e recente elaborazione analitica, nell’ambito di regolazione qui considerato, può rinviarsi a ESMA Advice- Initial Coin Offrings and Crypto-Assets, 9 gennaio 2019 (ESMA-157-1391), consultabile in https://www.esma.europa.eu/sites/default/files/library/esma50-157-1391_crypto_advice.pdf.
[4] ESMA Advice- Initial Coin Offrings and Crypto-Assets, 9 gennaio 2019, op. cit.
[5] Deve però sin d’ora osservarsi come la comprensione delle peculiari modalità di funzionamento della infrastruttura tecnologica sottesa necessariamente a ogni fenomeno dell’“ecosistema” “cripto” (riconducibile essenzialmente all’utilizzo di tecnologia blockchain o DLT), rende financo difficile da concepire che possa parlarsi (perlomeno ad oggi, seppur esperienze in tal senso sono state avviata in qualche giurisdizione) di token assimilabili a o descrivibili in termini di tradizionali “valori mobiliari” (in particolare azioni o obbligazioni), in assenza di una adeguata disciplina di diritto societario che consenta e disciplini l’emissione e il collocamento di essi, “alla radice”, avvalendosi della citata tecnologia e quindi in via diretta, contestuale e disintermediata; nella maggior parte dei casi, oggi, potrà al più parlarsi di – e descrivere il fenomeno in termini di “derivati”, rappresentativi di sottostanti tradizionali valori mobiliari, (per tale lungimirante e inedita prospettiva analitica cfr. F. Annunziata, op. cit.). Dalla medesima considerazione sopra formulata, consegue altresì che l’approccio regolatorio applicabile a tale tipologia di token ben difficilmente potrebbe limitarsi ad un intervento di mero “allargamento” della definizione MIFID di “strumenti finanziari”, dovendosi considerare che le consuete, “tradizionali” modalità di emissione/collocamento/negoziazione/custodia, (deposito e detenzione), non possono applicarsi sic et simpliciter a tali nuovi “beni”, dovendosi invece e necessariamente ripensare e riorientare profondamente i consolidati presidi organizzativi e comportamentali pensati per lo svolgimento di attività e servizi di investimento aventi ad oggetto i “classici” strumenti finanziari; da questo punto di vista l’approccio di “neutralità tecnologica” mostra un evidente limite.
[6] Con riferimento al tema dell’inquadramento dei token nelle tradizionali categorie giuridiche nostrane mi sia consentito rinviare a P. Carrière, Le “criptovalute” sotto la luce delle nostrane categorie giuridiche di “strumenti finanziari”, “valori mobiliari” e “prodotti finanziari”; tra tradizione e innovazione, op.cit.
[7] Il riferimento qui non può che essere a J. Rohr e A. Wright, Blockchain-Based Token Sales, Initial Coin Offerings, and the Democratization of Public Capital Markets, in Hastings Law Journal, febbraio 2019.
[8] Trattasi di fattispecie per molti versi analoga a quella – di elaborazione giurisprudenziale – adottata negli Stati Uniti per individuare la fattispecie del “contratto di investimento”, sulla scorta del “Howey test” risalente al notorio leading case deciso dalla Corte Suprema nel 1946 (caso SEC v. W.J. Howey Co), oltreché a quella di “Specified Investment” adottata nel Regno Unito nell’ambito del Financial Services and Markets Act (2000) (Regulated Activities) Order (RAO).
[9] Si veda in particolare il recente caso “TOGACOIN” (rispettivamente in Delibera n. 20660 del 31 ottobre 2018 – Sospensione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 58/1998, dell’offerta al pubblico residente in Italia avente ad oggetto “token TGA”, effettuata da Togacoin LTD anche tramite il sito internet https://togacoin.come Delibera 20786 del 22 gennaio 2019, Divieto, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 58/1998, dell’offerta al pubblico residente in Italia avente ad oggetto “token tga”, effettuata da Togacoin ltd anche tramite il sito internet https://togacoin.com. In questo caso la Consob è intervenuta a censurare il (solo) profilo dell’“offerta al pubblico” in violazione alla disciplina informativa del prospetto ((art. 94 TUF), probabilmente perché la valutazione dell’Autorità non ha potuto, nei casi esaminati, estendersi oltre la fase preliminare dell’offerta (o ancor meglio della “comunicazione” di essa al pubblico), avendo il meritorio, tempestivo, intervento dell’autorità di vigilanza evitato che si determinassero in quei casi, i presupposti per valutare e censurare altri delicati profili che ben potrebbero porsi; quelli cioè attinenti alla riserva e alle modalità di quell’offerta che, ragionevolmente avrebbe potuto comportare l’applicazione della disciplina dell’“offerta e collocamento a distanza di prodotti finanziari”.
[10] L’orientamento della CONSOB in tal senso è costante, cfr. già nelle delibere 13 febbraio 2004 n. 14422, 10 dicembre 2003 n. 14347, 3 giugno 2003 n. 14110, 22 gennaio 2002 n. 13423, e le comunicazioni 19 dicembre 2003 n. DEM/3082035 e 12 aprile 2001 n. DEM/1027182. Gli elementi enucleati dalla Consob possono, per molti versi, accostarsi a quelli individuati nel citato leading case statunitense SEC v. W.J. Howey co (1946).
[11] Con specifico riguardo al caso delle “cripto-valute” o meglio, crytpo-assets, si rinvia alla nutrita serie di orientamenti elaborati dalla Consob negli ultimi anni. In aggiunta a quelle già sopra citate alla nota 9 si vedano: Delibera n. 19866 del 1° febbraio 2017 – Sospensione, ai sensi dell’art. 101, comma 4, lett. b), del D.lgs. n. 58/1998, dell’attività pubblicitaria effettuata tramite il sito internet www.coinspace1.com relativa all’offerta al pubblico promossa dalla Coinspace Ltd. avente ad oggetto “pacchetti di estrazione di criptovalute“; Delibera n. 19968 del 20 aprile 2017 – Divieto, ai sensi dell’art. 101, comma 4, lett. c), del Tuf, dell’attività pubblicitaria effettuata tramite il sito internet www.coinspace1.com relativa all’offerta al pubblico promossa dalla Coinspace Ltd. avente ad oggetto “pacchetti di estrazione di criptovalute“; Delibera n. 20110 del 13 .9.2017, Sospensione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. b), del Tuf, dell’offerta al pubblico residente in Italia effettuata dalla società Cryp Trade Capital avente ad oggetto investimenti di natura finanziaria promossi tramite il sito internet https://cryp.trade; Delibera n. 20346 del 21 marzo 2018 – Ordine, ai sensi dell’art. 7-octies, comma 1, lett. b), del Tuf di porre termine alla violazione dell’art. 18 del Tuf posta in essere tramite il sito internet www.coinoa.com; Delibera n. 20536 del 25 luglio 2018 – Ordine, ai sensi dell’art. 7-octies, comma 1, lett. b), del Tuf di porre termine alla violazione dell’art. 18 del Tuf posta in essere tramite il sito internet www.swisscci.com; Delibera n. 20381 del 13 aprile 2018,Ordine, ai sensi dell’art. 7-octies, comma 1, lett. b), del D. Lgs. n. 58/1998 Tuf, – Ordine di porre termine alla violazione dell’art. 18 del Tuf posta in essere tramite il sito internet www.royalcripto.com; Delibera n. 20693 del 14 novembre 2018 – Sospensione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. b), del Tuf, dell’offerta al pubblico avente ad oggetto la moneta digitale denominata “Crypton”; Delibera n. 20694 del 14 novembre 2018 – Sospensione, ai sensi dell’art. 101, comma 4, lett. b), del Tuf, dell’attività pubblicitaria effettuata dal sig. Alessandro Brizzi tramite la propria pagina facebook relativa all’offerta al pubblico correlata all’acquisto della moneta digitale denominata “CRYPTON”; Delibera n. 20751 del 19 dicembre 2018, divieto ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. d) del Tuf, di offerta al pubblico residente in Italia avente ad oggetto il “Piano di investimento AvaCrypto”. Delibera n. 20741del 12 dicembre 2018, Sospensione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. b), del D. lgs. n. 58/1998, dell’offerta al pubblico avente ad oggetto i contratti su “Bitsurge token” promossa sul sito www.bitsurge.io e sulla pagina facebook “Bitsurge Token” e la Delibera n. 20845 del 13 marzo 2019, Divieto, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. d), del D. lgs. n. 58/1998, dell’offerta al pubblico avente ad oggetto i contratti su “Bitsurge token” promossa sul sito www.bitsurge.io e sulla pagina facebook “Bitsurge Token”; Delibera n. 20740 del 12 dicembre 2018, Sospensione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. b), del D. lgs. n. 58/1998, dell’offerta al pubblico avente ad oggetto i “certificati Green Earth” promossa sulla pagina facebook “Progetto Crypto Green Earth” e la Delibera n. 20844 del 13 marzo 2019,Divieto, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. d), del D. lgs. n. 58/1998, dell’offerta al pubblico avente ad oggetto i “certificati Green Earth” promossa sulla pagina facebook “Progetto Crypto Green Earth; Delibera n. 20814 del 14 febbraio 2019, Divieto, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. d), del D. lgs. n. 58/1998, dell’offerta al pubblico avente ad oggetto investimenti di natura finanziaria promossa dalla Cryptoforce Ltd.
[12] E proprio questo elemento può rivelarsi spesso particolarmente rilevante proprio nella fattispecie dell’utility token.
[13] Cfr. Cass civ. Sez. II, 12.3.2018, n. 5911 avverso il decreto n. 4027/2014 della Corte d’appello di Napoli, depositato il 29 agosto 2014, caso giurisprudenziale avente ad oggetto un articolato scema negoziale relativo ad “opere d’arte” che origina dal provvedimento sanzionatorio adottato da Consob con Delibera n. 18443 del 17 gennaio 2013 e su cui mi sia consentito rinviare a P. Carrière, L’“opera d’arte” nell’ordinamento finanziario italiano, in Banca impresa società, n.3, 2018.
[14] Cfr. Comunicazione Consob, n. DTC/13038246 del 6 maggio 2013.
[15] Cosi, esplicitamente, ancora in relazione alla vendita di diamanti, v. da ultimo, Comunicazione “La Consob richiama l’attenzione del pubblico e degli intermediari sulla compravendita di diamanti”, 31 gennaio 2017, in “Consob Informa” n. 4/2017 del 6 febbraio 2017.
[16] Il caso della vendita di diamanti di cui alla precedente nota, è stato altresì oggetto di esplicita valutazione anche nei provvedimenti dell’AGCM nn. PS10677 e PS10678 del settembre 2017, in cui tra gli elementi che possono contribuire ad una caratterizzazione del servizio in termini di “prodotto finanziario”, viene esplicitato ulteriormente quello della limitazione al godimento del bene e quello della emissione di “certificati che attestino la titolarità del bene e che siano commercializzabili su un mercato secondario”.
[17] Come oggi pare di potersi dire per il bitcoin ma non solo.
[18] V. in tal senso anche Hacker, P. e Thomale C. (2018), Crypto-securities regulation: ICOs, token sales and cryptocurrencies under EU financial law, op. cit. p. 21.
[19] V. in particolare il recente caso “TOGACOIN” citato sopra, alla nota (9).
[20] Banche, imprese di investimento, ed intermediari finanziari ex art. 106 TUB, come emerge dal combinato disposto dell’art. 32 del TUF con gli artt. 125 ss. del Regolamento Intermediari che riservano a tali soggetti il “collocamento” (termine da intendersi qui utilizzato in senso a-tecnico, in quanto riferibile anche all’ipotesi di mancanza di alterità soggettiva dell’emittente/offerente) di prodotti finanziari propri o altrui.
[21] Che, ex art. 32 TUF, devono intendersi le “tecniche di contatto con la clientela, diverse dalla pubblicità, che non comportano la presenza fisica e simultanea del cliente e del soggetto offerente o di un suo incaricato”, quale sicuramente è internet, come chiarito dalla Commissione già con Comunicazione del 7 luglio 1999, n. DI/99052838.
[22] Come si evince dalla nutrita elaborazione svolta sin qui dalla Commissione quale diffusamente illustrata in P. Carrière, Le “criptovalute” sotto la luce delle nostrane categorie giuridiche di “strumenti finanziari”, “valori mobiliari” e “prodotti finanziari”; tra tradizione e innovazione, op. cit.
[23] Può sin d’ora anticiparsi che, come già anticipato e come illustreremo diffusamente in appresso (ai punti 57 e 58), la natura opt-in della prefigurata opzione regolatoria appare solo teorica; alla luce di quello che descriveremo essere il “classico” modello di svolgimento di qualsiasi ICO (e tipicamente quelle aventi ad oggetto utility tokens), appare infatti oggi tecnicamente impercorribile e operativamente improponibile la scelta di poter affidare la fase di “promozione e collocamento/creazione” a intermediari “tradizionali” abilitati, come richiederebbe l’applicazione della disciplina ex. art. 32 TUF ove si ritenesse di non optare per il safe-harbour. In realtà, la soluzione regolamentare proposta dalla Commissione appare come la sola efficacemente applicabile, intervenendo all’esterno del processo di “promozione e collocamento/emissione” – necessariamente disintermediato, decentralizzato e globalizzato sulle piattaforme blockchain – con riguardo alla fase dell’”offerta” che tecnicamente e giuridicamente appare distinta e distinguibile, affiancandosi al processo di promozione e collocamento/emissione, e identificandosi in quell’attività di sviluppo, gestione e controllo del portale on-line (il sito web) dedicato alla ICO.
[24] Rinviandosi qui alla prospettiva analitica inaugurata da F. Annunziata, op.cit., pp. 41 e ss.
[25] Hacker, P. e Thomale C. (2018), Crypto-securities regulation: ICOs, token sales and cryptocurrencies under EU financial law, in European Company and Financial Law Review, 2018; Rohr, J., Wright, A. (2018), Blockchain-Based Token Sales, Initial Coin Offerings, and the Democratization of Public Capital Markets, in Hastings Law Journal, febbraio 2019; Sorelanski, L., Réflexions sur la nature juridique des tokens”, Bulletin Joly Bourse, Maggio 2018; Bonneau, J., “«Tokens», tites financiers au bien divers?, in Revue de droit bancaire et financier, gennaio 2018. EBA, Report with advice for the European Commission on crypto-assets, gennaio 2019; ESMA, Advice to ESMA. Own Initiative Report on Initial Coin Offerings and Crypto-Assets, Security and Markets Stakeholder Group (SMSG), ottobre 2018; FCA, Guidance on Cryptoassets”, Consultation paper CP/19/3, gennaio 2019.
[26] Termine generale, adottato condivisibilmente da ESMA, in sostituzione di quello di “cripto-valute” (crypto-currencies), talora impropriamente utilizzato, in senso lato, per riferirsi genericamente all’intero fenomeno, mentre appare preferibile, come fa la Commissione relegarlo solo a quelli che nella tassonomia consolidata sono i “payment-type token)
[27] Mi sia consentito di rinviare all’approccio analitico adottato nel mio articolo P. Carrière, Le “criptovalute” sotto la luce delle nostrane categorie giuridiche di “strumenti finanziari”, “valori mobiliari” e “prodotti finanziari”; tra tradizione e innovazione, op. cit.
[28] Da questo punto di vista risulterebbe quanto mai opportuno, anche con un intento culturale e pedagogico, volto a diffondere un più chiaro, consapevole, corretto e coerente utilizzo di termini tecnici, che venisse adottato un approccio lessicale che tendesse inequivocabilmente a distinguere il fenomeno in esame delle “cripto-attività” (perlomeno di tipo utility e payment) da quello degli “strumenti finanziari” che – per esplicita e inequivoca, oltreché condivisibile, opzione regolatoria adottata nel Documento dalla Commissione deve ritenersi (e mantenersi) al di fuori del perimetro regolatorio qui disegnato. Occorrerebbe quindi utilizzare, per i due diversi fenomeni, i diversi termini delle seguenti endiadi per descrivere situazioni spesso solo apparentemente simili: “emissione”/”creazione”; “emittente”/”creatore”; “sottoscrittore”/”investitore”; “collocamento”/”diffusione sulla piattaforma originaria”; “finanziamento di una attività o di un progetto imprenditoriale”/ “adesione ad un programma di sviluppo di un modello (imprenditoriale o culturale, scientifico, sociale, ludico, charity, no – profit)”.
[29] Con riguardo alla nozione di Initial Coin Offering ICO, utilizzata per riferirsi alla generalizzata “offerta pubblica” di token, tendenzialmente di qualunque tipo, può osservarsi come si possa osservare un tendenziale prevalente utilizzo dell’acronimo proprio in relazione all’offerta di token che non siano qualificabili come securities, in tal caso dandosi luogo ad un fenomeno in tutto e per tutto analogo alle IPO, parendo poi farsi strada per esso il diverso acronimo di STO (Security Token Offering); talora, poi, l’offerta in particolare di utility token viene detta, “token sale”.
[30] Nell’Advice 2019, par.34.
[31] Nell’Advice 2019, par.70.
[32] Termine preferibile – e preferito dalla più accorta dottrina e anche da alcuni regolatori – a quello ambiguo di “emissione” che rinvia subito al fenomeno degli strumenti finanziari. Si veda ad es. P. Hacker e C. Thomale, Crypto-securities regulation: ICOs, token sales and cryptocurrencies under EU financial law, in European Company and Financial Law Review, 2018, passim, ovvero la stessa definizione di Initial coin offering (ICO) fornita nel glossario proposto da ESMA nell’Advice 2019: “an operation through which companies, entrepreneurs, developers or other promoters raise capital for their projects in exchange for crypto-assets (often referred to as ‘digital tokens’ or ‘coins’), that they create.” (evidenza aggiunta).
[33] Da questo punto di vista non pare conferente e per certi versi pare fuorviante il riferimento che può leggersi nella Q2, laddove – con riferimento alla volontà di escludere dall’ambito di regolazione i token non negoziabili – si parla, esemplificativamente, di commodity-token, categoria che in lettura pare generalmente ricondotta nell’ambito della categoria degli “strumenti finanziari” (in particolare a quella dei “derivati”; su tale prospettiva, cfr. F. Annunziata, op.cit.) Forse, dunque, il riferimento più corretto e comprensibile avrebbe qui dovuto essere a utility tokens? Non se ne comprenderebbe però, allora, la logica, alla luce delle considerazioni sin qui ampiamente sviluppate.
[34] V. sopra nota 29.
[35] Sul punto si veda I. Aru, The fundamental principles of utility Tokens in the Blockchain Eco 2018, disponibile al seguente link https://www.ccn.com/fundamental-principles-utility-tokens-blockchain-ecosystem.
[36] Nell’Advice 2019, par. 19. Ancor più chiara è la descrizione che può leggersi in Security and Markets Stakeholder Group (SMSG), Advice to ESMA. Own Initiative Report on Initial Coin Offerings and Crypto-Assets, ottobre 2018, parr. 37 e 38. In dottrina v. A. Caponera e C. Gola, Aspetti economici e regolamentari delle “cripto-attività”, in Banca d’Italia, Quaderni di Economia e Finanza, n.484, marzo 2019, p. 11.
[37] Ove potrebbero anche ipotizzarsi violazioni di quelle che, ad oggi, paiono rimanere “riserve di attività”, (in certi casi anche).
[38] Si veda F. Annunziata, op. cit., p. 43.
[39] Tema assai delicato – che però risulta difficile da sottoporre a regolazione, lasciandolo all’opera interpretativa che, di volta in volta e caso per caso, gli operatori o l’autorità di vigilanza potranno/dovranno svolgere nella qualificazione di una specifico token, al fine di individuare se esso ricada o meno nell’ambito della categorie degli “strumenti finanziari” o “prodotti di investimento” che, in quanto tali, sarebbero di per sé esclusi dalla nuova categoria delle cripto-attività e quindi sottratti al safe harbour per essa delineato – è dunque quello di individuare i casi in cui la finalità di utility token la cui sottostante intelaiatura negoziale, classicamente, risulta riconducibile ad un rapporto di compravendita di beni e servizi (presenti e/o futuri), venga ad assumere – in virtù del suo concreto atteggiarsi “sostanziale” – una finalità marcatamente e/o prevalentemente di “finanziamento” del sotteso “progetto imprenditoriale” (che trascenda quindi anche la fisiologica natura di “finanziamento commerciale” insita in ogni acquisto “a pronti” di bene futuro), il che comporterebbe allora la più corretta qualificazione del token in questione in termini di “strumento finanziario”.
[40] Il riferimento non può qui che essere alla lucida e approfondita disamina condotta da G. Ferri Jr, Investimento e conferimento, Milano, 2001.
[41] Non invece quella di “cripto-prodotti finanziari”, atteso che nella nozione di “prodotti-finanziari” rientrano anche gli strumenti finanziari esclusi qui dall’ambito di analisi (anche nella versione crypto-securities).
[42] Che come già accennato (v. punto 37) pare oggi emergere e imporsi effettivamente come una “terza via” (rispetto a quella classica che ricorre alla emissione di strumenti di “equity” o a quella alternativa che faccia ricorso all’emissione di strumenti di “debito”) nelle modalità di raccolta di fondi (capitali) per lo sviluppo (“finanziamento”, ma in senso lato e a-tecnico allora!) di progetti imprenditoriali. Terza via che forse inizialmente si è sviluppata proprio per sfruttare i varchi nella normativa finanziaria e che oggi sta però imponendosi proprio in virtù della efficacia ed efficienza del modello.
[43] V. in tal senso anche P. Hacker e C. Thomale (2018), Crypto-securities regulation: ICOs, token sales and cryptocurrencies under EU financial law, op. cit. p. 21.
[44] Dove, pur con riferimento generalizzato al fenomeno dei token, può leggersi: “Crypto-assets may be traded or exchanged for fiat currencies or other crypto-assets after issuance on specialised trading platforms. Estimates suggest that there are more than 200 trading platforms operating globally, although a handful concentrate most of the flows. The largest platforms are currently located outside of the EU, in Asia or in the United States. Only between a fourth and a third of those crypto-assets issued through ICOs are being traded.” (evidenza aggiunta). Nell’Annex 1 può poi leggersi come, con riferimento al caso di utility token ivi analizzato (case 5), la maggioranza dei regolatori abbia ritenuto non presente il tratto della “negoziabilità” (v. p. 6, par. 20). Si veda inoltre il Report SMSG 2018, dove può leggersi come “If the asset token gives right to an entitlement in kind, without giving the holder decision power, and the asset token is not transferable, these tokens share much characteristics with prepaid assets. The SMSG is of the opinion that they currently do not fall under the scope of application of financial regulation and the SMSG sees no need for those asset tokens to be covered in the future” (evidenza aggiunta). Anche in dottrina si sottolinea infine (forse troppo drasticamente) come gli “utility tokens/consumer tokens sono gettoni digitali non negoziabili (pur essendo talvolta trasferibili) che offrono unicamente diritti amministrativi o licenze d’uso, quali l’accesso a una piattaforma, a una facility, a un network di persone, a schemi di “fidelizzazione” (evidenza aggiunta); così, A. Caponera e C. Gola, Aspetti economici e regolamentari delle “cripto-attività”, op.cit., p 11 (e prima a p. 6).
[45] E proprio questo ci appare l’approccio che emerge in alcuni dei recenti casi esaminati dalla Consob: V. in particolare il caso TOGACOIN e il caso CRYPTON, citati rispettivamente alle note 9 e 11. Cfr Delibera n. 20693 del 14 novembre 2018 – Sospensione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. b), del Tuf, dell’offerta al pubblico avente ad oggetto la moneta digitale denominata “Crypton”; Delibera n. 20694 del 14 novembre 2018 – Sospensione, ai sensi dell’art. 101, comma 4, lett. b), del Tuf, dell’attività pubblicitaria effettuata dal sig. Alessandro Brizzi tramite la propria pagina facebook relativa all’offerta al pubblico correlata all’acquisto della moneta digitale denominata “CRYPTON”;
[46] E anzi, secondo la raffinata e “alternativa” lettura del fenomeno (top-down) proposta dalla più avveduta dottrina, dovrebbe giungersi alla conclusione di come l’elemento della “negoziazione” (o “negoziabilità”) dei token – perlomeno ove avvenga su trading venues centralizzate – dovrebbe comportare, di per sé, la loro qualificabilità in termini di “derivati” e quindi di strumenti finanziari con tutto ciò che ne consegue; e ciò a prescindere allora dalla necessità stessa di ricorrere alla loro più accurata classificazione in base alla consolidata tassonomia, la suddetta conclusione potendosi quindi applicare pacificamente anche agli utility token. In tal senso vedi F. Annunziata, op.cit.
[47] In tal senso v. ESMA Advice 2019, par. 44 e SMSG Report 2018 par. 43.
[48] Si noti che, ad oggi, non esiste ancora una normativa europea del fenomeno, pur esistendo una Proposta di Regolamento avanzata dalla Commissione Europea nel marzo 2018 – Proposal for a regulation of the European Parliament and of the Council on European Crowdfunding Service Providers (ECSP) for Business” (COM(2018)0113) – nel quadro disegnato dal Fintech Action Plan. Peraltro, proprio nell’autunno del 2018 il Parlamento Europeo – sulla scorta delle indicazioni formulate dal CEMA (European Parliament’s Committee on Economic and Monetary Affairs) nel “Draft Report” del 10 agosto 2018 (2018/0048(COD)) – aveva proprio valutato di estendere l’ambito di tale provvedimento anche al fenomeno (come diremo nel testo, contiguo e, per certi versi, sovrapponibile) dei secuity tokens e delle relative ICOs o meglio, STOs. L’approccio regolamentare proposto (che pare poi arenatosi) era quello del “doppio binario” che faccia salva, quindi, la normativa nazionale che fosse già presente nell’ambito dei singoli Stati Membri, questo essendo il caso dell’Italia. Con riguardo alla possibilità di accostare i due fenomeni delle ICO e del crowdfunding, laddove essi abbiano ad oggetto “valori mobiliari” classici (comprensivi in senso lato, oggi, anche delle quote di srl), mi sia consentito di rinviare a P. Carrière, Le “criptovalute” sotto la luce delle nostrane categorie giuridiche di “strumenti finanziari”, “valori mobiliari” e “prodotti finanziari”; tra tradizione e innovazione, op. cit., p. 28.
[49] Usando qui il termine in senso “tecnico”, come riferentesi quindi a quel complesso di attività finalizzato alla stipulazione dei contratti di sottoscrizione/vendita, e alla prestazione dei connessi servizi di regolamento, pagamento e assegnazione. A tale attività sono poi associati tipicamente attività di “promozione”, propedeutiche e finalizzate alla stipulazione di quei contratti.
[50] Altre piattaforme sono Waves, EOS, Cardano e Tezos.
[51] V., per tutti, ESMA Advice 2019.
[52] “Simple Agreement for Future Tokens”; fattispecie che a sua volta potrebbe costituire uno “strumento finanziario”.
[53] Peraltro, può osservarsi che anche in relazione ai processi di “emissione” di “strumenti finanziari” tradizionali, si è assistito ad un progressivo affrancamento del “servizio” di “collocamento”, dalla fase di vera e propria “offerta”.
[54] Sulle cui più recenti evoluzioni anche in prospettiva può rinviarsi alle considerazioni svolte da M. De Mari, Equity crowdfunding, PMI non quotate e mercati secondari: una lacuna da colmare?, in Diritto Bancario online, 4 febbraio 2019.
[55] Per considerazioni analoghe nell’ordinamento statunitense, si veda J. Rohr, e A. Wright, Blockchain-Based Token Sales, Initial Coin Offerings, and the Democratization of Public Capital Markets, op.cit., p.511.
[56] Cfr. ESMA nell’Advice 2019 (par. 34).
[57] Come da definizione di “offerta al pubblico di prodotti finanziari” di cui all’art. 1.1 lett. t) del TUF.
[58] Tale pare la prospettiva evidenziata da E. Franza, Nuove modalità di finanziamento: la blockchain per startup e piccole e medie imprese. Rischi e possibili vantaggi, in Diritto Bancario, maggio 2019, parendo però l’Autore prendere in considerazione essenzialmente l’ipotesi di “emissione”, tramite ICO, di tradizionali strumenti finanziari da parte di PMI o start-up, coerentemente quindi col modello classico del crowdfunding. Per tale ipotesi mi sia consentito rinviare anche a P. Carrière, Le “criptovalute” sotto la luce delle nostrane categorie giuridiche di “strumenti finanziari”, “valori mobiliari” e “prodotti finanziari”; tra tradizione e innovazione, op. cit. Con riferimento alla possibile “terza via” delle ICO di utility token come nuova (rinnovata) forma di “finanziamento” d’impresa, cfr. sopra punto 37.
[59] Che però nella sostanza – giova ribadire – risulterà in una “scelta obbligata”, non risultando nella realtà percorribile – tecnologicamente e operativamente – il regime “ordinario”, in assenza di opt-in (v. sopra punti 57 e 58).
[60] Si osservi, peraltro, come – in base alla lettura del fenomeno, quale proposta “alternativamente” in dottrina da F. Annunziata – op.cit. (cfr. in particolare p. 49) – la scelta di imporre l’utilizzo di un “sistema di scambio” non decentralizzato, potrebbe comportare la necessità di definire i token ivi negoziati (anche quelli di tipo utility, quindi) come “derivati” e, quindi, come “strumenti finanziari”; e allora con le conseguenze che si possono immaginare in ordine alla disciplina applicabile che non sarebbe quindi solo quella dei “prodotti finanziari” (che nella fattispecie risulterebbe peraltro disapplicata proprio per effetto del ricorso a tali “sistemi di scambio”).
[61] Detti obblighi, allo stato, sono ancora inattuati dal momento che a seguito della consultazione pubblica indetta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (richiamata con il Comunicato Stampa n° 22 del 2 febbraio 2018), risulta ancora pendente lo schema di decreto ministeriale avente ad oggetto le modalità e la tempistica di registrazione con cui i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale dovranno comunicare al MEF a propria operatività sul territorio della Repubblica italiana.