1. Premessa
Con circolare n. 25/E del 16 ottobre 2017 (la “Circolare”), l’Agenzia delle entrate ha fornito alcuni chiarimenti in merito al regime fiscale dei proventi derivanti dalla detenzione da parte di dipendenti ed amministratori di società, enti od organismi di investimento collettivo, di azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati (c.d. carried interest).
In particolare, oltre a delimitare l’ambito applicativo della presunzione assoluta introdotta dall’art. 60 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50 (il “D.L. 50/2017”)[1], che qualifica, al ricorrere di determinati requisiti, i proventi derivanti da tali strumenti finanziari “rafforzati” come redditi di capitale o diversi, la Circolare ha altresì fornito alcuni utili criteri interpretativi relativamente alla qualificazione fiscale dei carried interest in assenza dei suddetti requisiti.
Prima di entrare nel dettaglio dei principali chiarimenti resi dalla Circolare con particolare riferimento ai proventi derivanti da partecipazioni societarie, è opportuno effettuare una breve sintesi delle disposizioni introdotte dal citato art. 60 del D.L. 50/2017.
2. Brevi cenni sull’art. 60 del D.L. 50/2017
L’art. 60 del D.L. 50/2017 ha introdotto una presunzione assoluta in forza della quale i proventi derivanti dagli strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati sono in ogni caso considerati redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria al ricorrere congiuntamente dei seguenti requisiti:
- un impegno di investimento complessivo di tutti i dipendenti e amministratori che comporti un esborso effettivo (tenendo conto anche del valore delle azioni assegnate e degli strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati) pari ad almeno l’1% dell’investimento complessivo effettuato (requisito dell’investimento minimo);
- il fatto che il diritto a percepire i proventi da parte di tali categorie di soggetti sia postergato rispetto a tutti gli altri soci o partecipanti ovvero, nel caso di change of control, sia soggetto alla condizione che gli altri soci o investitori abbiano realizzato, attraverso la cessione, un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito e al rendimento minimo (requisito del differimento nella distribuzione del carried interest);
- la circostanza che le azioni, le quote o gli strumenti finanziari siano detenuti dai dipendenti e amministratori o, in caso di decesso, dai loro eredi, per un periodo non inferiore a 5 anni ovvero, fino al cambio di controllo o di sostituzione del soggetto incaricato della gestione (requisito dell’holding period).
Il citato art. 60 prevede altresì che il regime ivi disciplinato trovi applicazione in relazione ai proventi: (i) derivanti dalla partecipazione a Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio (OICR), società o enti che siano residenti nel territorio dello Stato oppure in Stati e territori che consentano un adeguato scambio di informazioni con le autorità italiane; e (ii) percepiti a decorrere dall’entrata in vigore del D.L. 50/2017 (i.e., 24 aprile 2017).
3. Chiarimenti dell’Agenzia delle entrate e temi aperti
3.1 Investimento minimo
Un primo importante chiarimento fornito dalla Circolare attiene alla verifica dell’investimento minimo, che deve essere effettuata con riferimento al momento in cui si procede alla sottoscrizione o all’acquisto delle partecipazioni e impone a ciascun manager l’onere di “considerare se il proprio investimento, unitamente a quelli effettuati dagli altri manager, rappresenti l’1 per cento del valore corrente del patrimonio netto”.
Tale verifica pone dunque in capo al singolo manager un gravoso onere probatorio e documentale nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, specie in quei contesti in cui il numero dei manager (che investono) sia elevato e non risulti agevole per ciascuno di essi ottenere tutte le informazioni necessarie alla verifica del requisito in esame.
Sotto il profilo operativo, si potrebbe ovviare a tale elemento di complessità attraverso un apposito regolamento aziendale che disciplini gli obblighi informativi a carico di ciascun manager, oppure demandando l’onere di tale verifica alla società[2].
Una seconda interessante indicazione fornita dall’Agenzia delle entrate riguarda l’ipotesi di fuoriuscita di un manager dalla compagine sociale ovvero di suo decesso, eventi che (una volta raggiunta la soglia dell’1%) non fanno venir meno la sussistenza del requisito per gli altri manager[3].
Ne consegue che, ipotizzando un investimento societario da parte di tre manager che sottoscrivono partecipazioni per un ammontare rispettivamente pari allo 0,5%, 0,3% e 0,2% del patrimonio netto a valori correnti della società (cosicché l’investimento complessivo è pari alla soglia minima richiesta dalla norma), l’eventuale successiva fuoriuscita di uno dei tre (che non sia sostituito) non impone agli altri due di acquisirne le quote.
L’Agenzia delle entrate ha inoltre chiarito che, ove a seguito dell’investimento da parte dei manager, uno o più soggetti terzi – diversi dai manager stessi – effettuino delle sottoscrizioni in sede di aumento di capitale sociale ovvero acquisiscano partecipazioni societarie, occorre tenerne conto ai fini del computo dell’investimento minimo. In altri termini, la soglia dell’1% dovrà essere rideterminata in funzione del valore corrente aggiornato del patrimonio netto della società, con la conseguenza che i manager (investitori) saranno tenuti (entro la chiusura dell’esercizio) ad effettuare nuovi investimenti per raggiungere il valore della soglia minima, al fine di poter continuare a beneficiare del regime in esame.
A tal riguardo, si osserva innanzitutto che tale meccanismo di aggiustamento dell’investimento minimo:
- è previsto dalla Circolare solo con riferimento agli investimenti in partecipazioni societarie e non anche in relazione agli investimenti nei fondi di investimento: ciò appare dunque in contraddizione con il passaggio della Circolare in cui si afferma che “le considerazioni svolte in ordine agli investimenti effettuati nei fondi sono riferibili, seppur compatibilmente con il diverso contesto, anche agli investimenti aventi ad oggetto partecipazioni societarie”;
- attribuisce rilevanza a eventi successivi alla sottoscrizione iniziale (i.e., aumenti di capitale sociale ovvero acquisto di partecipazioni societarie da parte di soggetti terzi): ciò risulta in contraddizione con il chiarimento della Circolare (sopra esaminato) secondo cui la fuoriuscita di un manager dalla compagine sociale ovvero il suo decesso – a seguito della sottoscrizione inziale – non fanno venir meno la sussistenza del requisito dell’investimento minimo per gli altri manager;
- non è in alcun modo condivisibile nella parte in cui fa riferimento all’ipotesi di acquisto di partecipazioni, in quanto esso non comporta alcuna diluizione della percentuale posseduta dai manager.
Da ultimo, la Circolare precisa che, ai fini della verifica del requisito dell’ammontare minimo di investimento, la soglia dell’1% deve essere determinata in relazione al patrimonio netto della società “da computarsi a valori correnti determinabili sulla base di apposite perizie di stima”.
A tal proposito, appare dubbio se il riferimento al patrimonio netto a valori correnti imponga di tener conto anche dell’effetto di una eventuale riqualificazione in apporto di capitale del finanziamento soci ricevuto dalla società oggetto di investimento, circostanza che determinerebbe l’incremento del valore complessivo dell’investimento e, conseguentemente, dell’investimento minimo richiesto ai manager[4].
Peraltro, il riferimento al valore di perizia potrebbe dar luogo a delle criticità operative ogniqualvolta la sottoscrizione da parte dei vari manager avvenga in momenti diversi (ad esempio in occasione di successivi aumenti di capitale) e, pertanto, richieda di volta in volta la redazione di nuove perizie.
In assenza di indicazioni sul punto, appare ragionevole ritenere che il manager che sottoscrive le azioni in un momento successivo agli altri debba parametrare il proprio investimento minimo al patrimonio netto (espresso a valori correnti) risultante dalla perizia redatta alla data in cui sottoscrive le azioni, ancorché tale valore possa risultare anche sensibilmente diverso da quello in precedenza considerato dagli altri manager (i quali, specularmente, non dovrebbero risultare influenzati dalle nuove perizie)[5].
3.2 Differimento nella distribuzione del carried interest
Relativamente all’investimento in partecipazioni societarie, il requisito del differimento del carried interest richiede che la distribuzione dello stesso avvenga dopo che sia stato erogato ai soci un ammontare pari al capitale investito, oltre ad un rendimento minimo (cd. «hurdle rate», anche se tale termine è maggiormente riferibile ai fondi di investimento).
A titolo esemplificativo, l’Agenzia delle entrate ha individuato due ipotesi in cui tale requisito può essere riscontrato:
- liquidazione totale della società partecipata dal management, attraverso la quale si restituiscono ai soci della stessa il capitale e l’hurdle rate;
- partecipazione del management correlata ai risultati dell’attività societaria in un determinato settore (ai sensi dell’art. 2350 c.c.) o in uno specifico investimento. In tal caso, la distribuzione del carried interest è subordinata alla previa erogazione del capitale e all’attribuzione del rendimento minimo, riferibile a tale settore o investimento.
Sul punto, la Circolare ha precisato che la distribuzione differita del carried interest riguarda unicamente l’“extra-rendimento”, non precludendo, quindi, la possibilità di restituzione del capitale e del rendimento minimo ai manager titolari di strumenti finanziari rafforzati, prima della maturazione del carried interest.
Ne consegue che i manager possono nel frattempo beneficiare, al pari degli altri investitori, di eventuali rimborsi del capitale sociale ovvero, fino a concorrenza del rendimento minimo, delle distribuzioni di dividendi poste in essere dalla società partecipata.
Il requisito in esame opera anche in sede di liquidazione, riscatto o cessione delle quote in esito ad operazioni di dismissione dell’investimento, quando si verifica un change of control[6]. In tale ipotesi, ai fini della qualificazione come provento finanziario, il diritto alla corresponsione del carried interest è subordinato al fatto che “gli altri soci o partecipanti dell’investimento abbiano realizzato con la cessione un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito e al predetto rendimento minimo”.
La Circolare nulla prevede in relazione alla possibile dismissione dell’investimento in misura non integrale (ma sufficiente a consentire il change of control).
Si pensi al caso di una holding di investimento che detenga l’intero capitale azionario di una società target, in cui gli amministratori hanno a loro volta investito una somma complessivamente superiore all’1% del relativo patrimonio netto a valori correnti. Ove la holding trasferisca il controllo della target cedendone il 90% delle partecipazioni e, contestualmente, il management dismetta le proprie partecipazioni, si ritiene ragionevole che il rispetto del requisito in esame (recupero dell’investimento e dell’hurdle rate) possa essere verificato con riferimento alla sola quota dismessa (90%), a prescindere dalla sorte della partecipazione della target rimasta in possesso della holding.
3.3 Holding period
Quanto al periodo minimo quinquennale di detenzione dell’investimento, la Circolare ha precisato che il relativo computo decorre dalla data delle singole sottoscrizioni.
Inoltre, secondo l’Agenzia delle entrate, il predetto vincolo temporale non riguarda solo le partecipazioni con diritti patrimoniali rafforzati, ma anche quelle non aventi tali diritti che, unitamente alle prime, concorrono al raggiungimento della percentuale di investimento minimo.
Un ulteriore chiarimento rilevante è stato fornito in relazione alla portata della deroga al vincolo temporale di detenzione prevista dell’art. 60, co. 1, lett. c), del D.L. 50/2017, in base alla quale il requisito dell’holding period non opera in caso di “cambio di controllo o di sostituzione del soggetto incaricato della gestione”. Sebbene la norma si riferisca a vicende tipiche delle società di gestione del risparmio, l’Agenzia delle entrate ha esteso tale criterio anche alle partecipazioni detenute in società interessate da operazioni straordinarie di riorganizzazione in conseguenza delle quali i manager sono portati a cedere le partecipazioni in esse detenute.
Da ultimo, la Circolare effettua una condivisibile precisazione relativamente alla percezione del carried interest prima della conclusione del quinquennio. L’Agenzia delle entrate ha ritenuto infatti che il completamento del quinquennio può verificarsi anche dopo l’erogazione del provento derivante dalle partecipazioni con diritti patrimoniali rafforzati e, pertanto, eventuali proventi distribuiti prima del decorso del quinquennio (in presenza degli altri requisiti) saranno comunque qualificati come proventi finanziari.
Qualora, tuttavia, a seguito della distribuzione del carried interest e prima del completamento del quinquennio, il manager ceda dette partecipazioni, i proventi finanziari sarebbero riqualificati in redditi di lavoro dipendente, con conseguente applicazione della maggiore imposta in capo al manager.
3.4. Qualificazione reddituale del carried interest in assenza dei requisiti del D.L. 50/2017
Alcune interessanti indicazioni sono state fornite nel paragrafo 4 della Circolare, in cui l’Agenzia delle entrate ha voluto fornire una serie di criteri di cui tenere conto ai fini della qualificazione dei proventi derivanti da strumenti finanziari rafforzati in caso di mancato di rispetto (anche solo di uno) dei requisiti stabiliti dall’art. 60, del D.L. 50/2017.
Il tema non è di poco conto considerato che i requisiti normativi appaiono piuttosto stringenti e, pertanto, potrebbero risultare numerose le fattispecie escluse dall’ambito della disposizione in commento.
A tal riguardo, l’Agenzia delle entrate (in linea con quanto previsto la Relazione illustrativa al D.L 50/2017) ha confermato che la carenza di uno o più presupposti non comporta l’automatica riqualificazione del provento come reddito da lavoro dipendente o assimilato. In tali casi, si richiede piuttosto una analisi volta a verificare caso per caso la natura del provento, nell’ambito della quale dovranno essere valutati, tra gli altri elementi:
- l’idoneità dell’investimento, anche in relazione all’ammontare e alla correlata esposizione al rischio di perdite del capitale, a garantire l’allineamento di interessi tra investitori e management;
- il mantenimento da parte del manager della titolarità degli strumenti finanziari anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro;
- l’eventuale detenzione di partecipazioni con diritti patrimoniali rafforzati anche da parte di soci diversi dai manager;
- eventuali clausole di good o bad leavership, utili a collegare il provento all’impegno profuso dal manager nell’attività lavorativa;
- eventuali accordi contrattuali che garantiscono al dipendente la restituzione integrale del capitale investito;
- remunerazioni del manager molto inferiori alla media di mercato, che potrebbero indurre a considerare il carried interest quale componente integrativa della retribuzione ordinaria.
Più in generale, si ritiene che debbano essere presi in considerazione tutti gli elementi in grado di incidere sul reale rischio a cui il manager è esposto a fronte dell’investimento e quelli potenzialmente sintomatici di una correlazione del carried interest con il rapporto lavorativo che intercorre tra manager e società.
Con particolare riferimento alle clausole di leavership che, in ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro, attribuiscono alla società un’opzione di acquisto ovvero al manager un’opzione di vendita delle partecipazioni ad un dato prezzo, si ritiene che assuma rilievo il criterio di determinazione del prezzo stesso.
Infatti, laddove il prezzo pattuito tra le parti fosse pari al fair market value delle partecipazioni alla data della cessione, il manager verrebbe trattato alla stregua di qualsiasi altro investitore e, conseguentemente, tale circostanza potrebbe deporre a favore della qualificazione del carried interest come provento finanziario.
Viceversa, l’eventuale pattuizione di un prezzo pari al costo di acquisto originario (se inferiore al valore di mercato alla data del trasferimento) oppure, in ogni caso, inferiore al valore di mercato (con intento punitivo nei confronti del manager uscente) sembrerebbero idonei a ricollegare il provento al rapporto lavorativo tra manager e società.
La Circolare conclude precisando che il contribuente può presentare istanza di interpello al fine di ottenere un parere in ordine al trattamento fiscale di una fattispecie concreta e personale.
In linea di principio, l’istanza di interpello dovrebbe poter essere presentata sia dal manager sia dalla società (in qualità di sostituto d’imposta), dal momento che la qualificazione fiscale del provento ha riflessi di natura fiscale su entrambi i soggetti.
Pur in assenza di una puntuale indicazione sul punto da parte dell’Agenzia delle entrate, si ritiene che l’istanza di interpello in esame ricada nell’ambito dell’interpello qualificatorio di cui all’art. 11, co. 1, lett. a), della L. 27 luglio 2000, n. 12[7].
Infine, quanto al necessario carattere di preventività dell’interpello, l’istanza dovrebbe essere presentata entro il termine per l’assolvimento degli obblighi di sostituto di imposta da parte della società che eroga il carried interest e, conseguentemente, potrebbe riguardare anche piani di investimento già deliberati.
[1] Convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2017, n. 96 (pubblicata nella G.U. 23/06/2017, n. 144).
[2] Resta fermo, tuttavia, che tali accordi avrebbero efficacia esclusivamente tra le parti e che l’onere nei confronti dell’Amministrazione finanziaria resterebbe in capo ai manager stessi. In tal senso, cfr. anche G.M. Committeri e P.Claps, “L’Agenzia delle entrate chiarisce le regole per evitare la riqualificazione del carried interest in reddito da lavoro” in il fisco n. 43 del 2017.
[3] La Circolare fa salvi in ogni caso eventuali comportamenti abusivi.
[4] Si fa riferimento, in particolare, ai chiarimenti forniti dalla circolare dell’Agenzia delle entrate n. 6/E del 30 marzo 2016, la quale, con riferimento ai finanziamenti erogati da parte dei soci esteri (shareholder loan), ha precisato che – al ricorrere di particolari ed eccezionali circostanze – sia possibile riqualificare le operazioni di finanziamento in apporti di capitale sulla scorta delle indicazioni contenute nelle Linee Guida OCSE ai par. 1.64 -1.67. In senso dubitativo, si veda anche di G. Marianetti e L. D’Ambrosio, “Carried interest: regime fiscale da verificare caso per caso se non sono rispettate le condizioni” in Corr. Trib. 45/2017, pagg. 3502-3503.
[5] In senso conforme, cfr. anche G.M. Committeri e P.Claps, op. cit.
[6] La presunzione legale di cui all’art. 60 del D.L. 50/2017 non opera invece in ipotesi di cessioni che non determinano il change of control.
[7] Tale tipologia di interpelli è infatti finalizzata ad attribuire “la corretta qualificazione di fattispecie alla luce delle disposizioni tributarie applicabile alle medesime”.