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La Corte UE boccia la norma anti-abuso che nega l’esenzione dalla ritenuta sui dividendi da Madre-Figlia in presenza di controllanti extra-UE

10 Ottobre 2017

Stefano Massarotto e Alessia Vignudelli, Studio Tributario Associato Facchini Rossi & Soci

Di cosa si parla in questo articolo

La Corte di Giustizia UE,nella sentenza del 7 settembre 2017, causa C – 6/16, ha dichiarato illegittima la specifica normativa anti-abuso francese che negava, in via di principio, l’esenzione dalla ritenuta sui dividendi prevista dalla Direttiva “Madre-Figlia” per il solo fatto che lasocietà madre comunitaria era, a sua volta, controllata da una società residente in uno Stato terzo, senza prevedere l’obbligo per l’Autorità fiscale di fornire alcun indizio circa l’elusività dell’operazione.

La pronuncia in commento assume particolare rilevanza anche ai fini italiani in quanto, la disposizione francese dichiarata illegittima, è sostanzialmente analoga alla previgente versione dell’art. 27-bis, comma 5, del D.P.R. n. 600/1973[1]. In particolare, la disposizione italiana, nella formulazione applicabile alle distribuzioni di dividendi effettuate fino al 31 dicembre 2015, prevedeva una specifica clausola anti-abuso che, invertendo l’onere della prova e ponendolo a carico del contribuente, escludeva automaticamente l’esenzione dalla ritenuta laddove i dividendi distribuiti fossero andati a beneficio di una società madre comunitaria controllata da soggetti residenti in Stati terzi, a meno che la società madre dimostrasse “(…) di non detenere la partecipazione allo scopo esclusivo di beneficiare del regime in esame”.

Il caso oggetto della sentenza

Nella fattispecie sottoposta all’attenzione della Corte di Giustizia, l’Autorità fiscale francese negava la possibilità di applicare l’esenzione da ritenuta alla fonte sui dividendi distribuiti da una società francese alla società madre lussemburghese, considerato che quest’ultima era indirettamente controllata da una società svizzera. Tale pretesa si fondava su una presunzione automatica di inapplicabilità dell’esenzione da ritenuta prevista dalla normativa domestica sulla base del fatto che, al vertice della catena partecipativa, si collocava una società residente in uno Stato terzo rispetto alla UE; presunzione che poteva essere vinta esclusivamente allorché la società percipiente avesse dimostrato che la catena partecipativaavente al vertice un soggetto residente in uno Stato terzonon aveva come fine principale, o fra i suoi fini principali, quello di fruire della suddetta esenzione.

La Corte ha dichiarato la descritta disposizione anti-abuso francese in contrasto sia con gli obiettivi della Direttiva Madre-Figlia sia con i principi del diritto primario comunitario.

In primo luogo la Corte, dopo aver ribadito che il potere conferito ai singoli Stati membri dall’art. 1, par. 2 della Direttiva Madre-Figlia di applicare norme nazionali al fine di evitare le frodi e gli abusi dev’essere interpretato restrittivamente, ha sancito l’illegittimità della disposizione anti-abuso francese in quanto:

  1. si tratta, di fatto, di una presunzione generale di artificiosità basata su un elemento soggettivo di per sé privo di rilevanza quale la residenza degli azionisti della parent company, anche alla luce del fatto che “non emerge da alcuna disposizione della direttiva sulle società madri e figlie che l’origine degli azionisti delle società residenti nell’Unione incida sul diritto di siffatte società di avvalersi delle agevolazioni fiscali previste dalla direttiva in esame” (punto 37); sicché la norma francese non può considerarsi idonea a colpire specificatamente costruzioni puramente artificiose in quanto “la mera circostanza che una società residente nell’Unione sia controllata direttamente o indirettamente da soggetti residenti di Stati terzi non comporta, di per sé, la sussistenza di una costruzione puramente artificiosa, priva di effettività economica, creata unicamente allo scopo di fruire indebitamente di un’agevolazione fiscale” (punto 34);
  2. per determinare la finalità elusiva di un’operazione, le autorità nazionali non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono eseguire un esame caso per caso dell’intera operazione; pertanto, la previsione di una presunzione generale di abuso che esclude automaticamente alcune categorie di contribuenti dal beneficio fiscale e determina un irrazionale ribaltamento dell’onere della prova, senza che le autorità fiscali siano obbligate a fornire alcun indizio circa l’elusività dell’operazione, non risulta proporzionata allo scopo perseguito (punto 32);
  3. una norma anti-abuso domestica che costituisce una deroga alle norme sancite da una direttiva è ammissibile solo laddove sia specificatamente mirata a “ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate a fruire indebitamente di un’agevolazione fiscale”.

Ma questo non è il caso della disposizione francese oggetto della sentenza C – 6/16.

Sotto altro profilo, la Corte di Giustizia censura la norma francese anche per violazione della libertà di stabilimento prevista dal TFUE giacché, in linea con quanto affermato ai fini della conformità alla direttiva[2], una disposizione anti-abuso nazionale che introduce una presunzione generale fondata su una condizione soggettiva – quale il controllo da parte di soggetti residenti in uno Stato terzo[3] –, senza porre in capo all’Autorità fiscale competente l’onere di fornire almeno un indizio di abuso, “non persegue l’obiettivo specifico di escludere dal beneficio di un’agevolazione fiscale le costruzioni puramente artificiose finalizzate a fruire indebitamente di tale agevolazione” (punto 30).

Ciò detto, la Corte di Giustizia sorvola sulle circostanze in base alle quali la costituzione della società intermedia debba considerarsi una costruzione di puro artificio. Sul punto, le indicazioni fornite dall’Avvocato Generale nelle conclusioni depositate il 19 gennaio 2017 potrebbero rappresentare un utile riferimento, laddove viene rilevato che la valutazione circa la genuinità della holding non dovrebbe prescindere dall’analisi della reale natura della società interposta e, in particolare, “si riterrà esistente una struttura artificiosa qualora la società rappresenti soltanto una sede fittizia nel senso di una società “fantasma”. Anche nel caso in cui vi sia una presenza fisica, l’artificiosità potrebbe peraltro risultare dalle circostanze finanziarie e personali della specie. Al riguardo, appaiono decisivi, ad esempio, gli effettivi poteri decisionali degli organi societari, la loro dotazione di mezzi finanziari propri o l’esistenza di un rischio commerciale” (punto 57).

Alcune considerazioni circa i potenziali riflessi della sentenza C – 6/16 ai fini italiani

Alla luce dei principi espressi dalla Corte di Giustizia, debbono quindi considerarsi illegittimi, con effetti sui relativi contenziosi ad oggi pendenti, gli atti impositivi già emessi dall’Amministrazione finanziaria italiana, laddove sia stata disconosciuta l’esenzione da ritenuta in caso di fattispecie ritenute abusive sulla base della previgente versione dell’art. 27-bis, comma 5, del D.P.R. 600/1973 con inversione dell’onere della prova in capo al contribuente[4].

La fattispecie affrontata dalla sentenza C – 6/16 assume particolare interesse con riferimento alle societàholding passivee, in particolare, le subholding comunitarie che ricevono dividendi da società operative insediate in Italia. Come noto, a fronte di operazioni internazionali che vedono coinvolte holding comunitarie con una struttura organizzativa “leggera” (in termini, ad esempio, di personale, locali e attrezzature), l’Ufficio tende a sollevare dubbi circa la genuinità di tali soggetti, così disconoscendo l’applicabilità dei benefici previsti dalla Direttiva Madre-Figlia o dai trattati contro le doppie imposizioni stipulati dall’Italia[5].

Infatti, secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n. 32/E dell’8 luglio 2011: “occorre in concreto distinguere la figura del mero proprietario di partecipazioni (che non è un’impresa), dal soggetto che della proprietà di partecipazioni societarie faccia, appunto, la propria impresa”; e, quindi, distinguere le:

  • “(…) holding che si limitano a detenere partecipazioni ed incassarne i relativi frutti, senza svolgere alcuna attività”; dalle
  • holding che invece, svolgono un’attività economica effettiva, in quanto “(…) esercitano concretamente attività di gestione e coordinamento delle partecipazioni detenute”[6].

Sul punto, ci limitiamo a rilevare che ai fini della libertà di insediamento, alle holding non è richiesta una struttura organizzativa particolarmente significativa, come rilevato:ù

  • dalla Comunicazione della Commissione Europea del 10 dicembre 2007 COM (2007) 785 secondo cui: “(…) non è per nulla certo” come alcuni criteri utili per l’individuazione della residenza “(…) si possano applicare, ad esempio, ai servizi finanziari infragruppo e alle società di partecipazione, le cui attività non richiedono generalmente una presenza fisica significativa”;
  • dalla stessa Amministrazione finanziaria la quale ha affermato che la valutazione del carattere potenzialmente artificioso di una società “(…) va condotta con particolare cautela nel caso delle società finanziarie di partecipazione (holding) (…) poiché queste di regola non sviluppano nella loro attività una presenza fisica significativa” (cfr. Circolare n. 32/E del 2011).

In proposito è inoltre appena il caso di evidenziare che la libertà di stabilimento – che costituisce una delle disposizioni fondamentali del diritto primario comunitario – è comunque volta a tutelare non solo gli enti dediti ad attività d’impresa, ma anche quelli che esercitano attività economica tout court. Ed invero:

  • la Corte di Giustizia, con sentenza del 14 settembre 2017, causa C – 646/15, ha riconosciuto che un trust che amministra un patrimonio “affinché i beneficiari fruiscano degli utili prodotti dai beni appartenenti a tali trust” svolgono una attività economica effettiva e possono avvalersi della libertà di stabilimento;
  • la stessa Agenzia delle Entrate, nella Circolare n. 40/E del 26 settembre 2016 in materia di consolidato fiscale, ribadisce che una holding comunitaria è da ritenere una costruzione genuina che esercita legittimamente il diritto di insediamento in qualsiasi Paese UE, ove svolga effettivamente un’attività economica e quindi non necessariamente un’attività commerciale.

 


[1] Il citato comma 5 disponeva che, in relazione alle società “(…) che risultano controllate direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in Stati della Comunità europea (…)”, i benefici fiscali della Direttiva Madre-Figlia trovassero applicazione solo a condizione che fosse fornita la dimostrazione “(…) di non detenere la partecipazione allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime in esame”. Si rileva, sul punto, che sia il “vecchio” comma 5 che la disposizione francese oggetto della sentenza C – 6/16 erano state introdotte dai rispettivi legislatori nazionali in attuazione di quanto disposto dal previgente art. 1 della Direttiva Madre-Figlia, il quale lasciava ai singoli Stati membri la facoltà di introdurre specifiche norme anti-abuso a tutela della corretta applicazione della direttiva. Si ricorda, infatti, che prima delle modifiche apportate dalla Direttiva n. 2015/121/UE, l’art. 1, par. 2 della Direttiva Madre-Figlia prevedeva esclusivamente la possibilità per gli Stati membri di applicare eventuali “(…) disposizioni nazionali o convenzionali necessarie per evitare le frodi e gli abusi”. La vigente versione comma 5 – la quale “si applica alle remunerazioni corrisposte dal 1° gennaio 2016” come disposto dall’art. 26, comma 3, Legge n. 122/2016 (c.d. Legge europea 2015–2016) – sancisce, invece, che “(…) la direttiva (UE) 2015/121 del Consiglio, del 27 gennaio 2015, è attuata dall’ordinamento nazionale mediante l’applicazione dell’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212”.

[2] La Corte, pur analizzando la conformità della disposizione anti-abuso francese sia con la Direttiva Madre-Figlia che con le libertà sancite dal Trattato, giunge di fatto alle medesime conclusione, affermando (punto 64) che “l’obiettivo volto a lottare contro la frode e l’evasione fiscali ha la stessa portata sia quando viene invocato in applicazione dell’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva sulle società madri e figlie o come giustificazione di un ostacolo al diritto primario”.

[3] La Corte di Giustizia (punto 48) richiama quanto già affermato al punto 40 della sentenza del 1 aprile 2014, causa C – 80/12 (Felixstowe Dock and Railway Company Ltd): “Tuttavia, da nessuna disposizione di diritto dell’Unione risulta che la provenienza degli azionisti delle società residenti nell’Unione, siano essi persone fisiche o giuridiche, incida sul diritto di tali società di esercitare la libertà di stabilimento. Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 60 delle sue conclusioni, lo status di società dell’Unione si fonda, in virtù dell’articolo 54 TFUE, sul luogo della sede sociale e sull’ordinamento giuridico di appartenenza della società, e non sulla nazionalità dei suoi azionisti”.

[4] Nello stesso senso, si ritiene altresì che gli Uffici, con riferimento agli accertamenti effettuati in base all’attuale disciplina anti-abuso generale contemplata all’art. 10-bis della L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente), dovranno individuare i fondamentali elementi costitutivi dell’abuso, prescindendo dalla mera origine “extracomunitaria” dei soci.

[5] Così, Assonime Circolare n. 10/2017, “Holding passive e vantaggi fiscali. I recenti chiarimenti giurisprudenziali”. Sul punto si veda, tra l’altro, quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 27113 del 28 dicembre 2016 ai fini del riconoscimento dei benefici convenzionali nei confronti una holding statica di partecipazioni residente in Francia, a sua volta controllata da una società statunitense, che percepiva dividendi dalla società operativa italiana. I giudici di merito avevano negato i benefici convenzionali sulla base delle disposizioni anti-abuso, ritenendo che la holding francese operasse come una conduit costituita al solo scopo di beneficiare della minore ritenuta in uscita. La Suprema Corte al riguardo ha invece affermato che “(…) i requisiti convenzionali di “beneficiario effettivo” dei dividendi e di ‘sede di direzione effettiva nello Stato contraente debbono essere accertati, in fatto, tenendo conto della peculiarità dell’oggetto e della natura della società madre percipiente. In particolare, qualora quest’ultima rivesta la qualità di holding o sub-holding di pura partecipazione, i suddetti requisiti non possono essere esclusi per il solo fatto della mancanza di una significativa struttura organizzativa; della esiguità di costi gestionali e di crediti operativi; della mancata fatturazione di servizi gestionali a favore della società figlia erogante; e nemmeno per il fatto che la società madre percipiente sia a sua volta totalitariamente partecipata da una capogruppo residente in uno Stato non contraente. E’ invece necessario che l’indagine sia dal giudice di merito condotta – per quanto attiene alla qualità di “beneficiario effettivo” dei dividendi percepiti – sul trattenimento ed autonomo impiego dei dividendi medesimi, ovvero sulla loro traslazione alla capogruppo residente nello Stato non contraente; e – per quanto concerne la “sede di direzione effettiva” nello Stato contraente – sul luogo di effettiva adozione delle decisioni direttive, amministrative e di coordinamento delle partecipazioni possedute dalla società madre percipiente, secondo l’attività tipica di holding da quest’ultima esercitata”.

Peraltro, nonostante la Direttiva Madre-Figlia non subordini il regime di esenzione dalle ritenute alla condizione di beneficiario effettivo, l’Amministrazione finanziaria italiana ha nel tempo utilizzato l’argomento della mancanza dello status di beneficial owner in capo alla subholding comunitaria per contestare l’artificiosità di tale soggetto, a cui è stata di conseguenza negata l’esenzione prevista dalla direttiva, “con l’effetto di introdurre surrettiziamente nella direttiva madre-figlia clausole ad essa del tutto estranee, evitando, nel contempo, di motivare in modo specifico l’effettivo oggetto dei rilievi” (Così, Assonime Note e Studi n. 17/2016, “Imprese multinazionali: aspetti societari e fiscali”). Sul punto si segnala, peraltro, che l’utilizzo in ottica antiabuso del concetto di beneficiario effettivo, al fine di limitare l’esenzione prevista dalla Direttiva Madre-Figlia, è oggetto di due cause danesi al momento pendenti in Corte di Giustizia (cfr. cause C – 116/16 e C – 117/16).

[6] Sul punto, cfr. Assonime Circolare n. 5/2014, “Il trasferimento all’estero della residenza delle società: l’analisi del decreto attuativo del comma 2-quater dell’art. 166 del TUIR alla luce dei principi comunitari”.

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