Sommario: 1. Premessa – 2. Holding statiche e benefici convenzionali – 3. Holding passive e Direttiva Madre-Figlia – 4. Cenni su alcuni profili procedurali nell’ambito degli accertamenti nei confronti di holding passive
1. Premessa
Alcune sentenze e interpretazioni dell’Agenzia delle entrate offrono lo spunto per svolgere alcune brevi considerazioni in merito alla titolarità per le holding statiche di partecipazioni di beneficiare dell’applicazione dei trattati contro le doppie imposizioni e della c.d. Direttiva Madre Figlia[1].
In particolare, in questa sede sono oggetto di analisi taluni aspetti che interessano le holding e sub-holding di gruppi multinazionali, localizzate in Stati comunitari, che ricevono dividendi da società operative italiane, ossia, in particolare:
- il godimento di benefici convenzionali (i.e., l’applicazione delle ritenute convenzionali ridotte rispetto a quelle applicabili ordinariamente);
- l’esenzione da ritenuta alla fonte sui dividendi prevista della c.d. Direttiva Madre-Figlia[2].
2. Holding statiche e benefici convenzionali
Con riferimento al tema dell’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni, è intervenuta la rilevante pronuncia della Corte di cassazione n. 27113 del 28 dicembre 2016[3].
In particolare, tale pronuncia traeva origine dalla richiesta di rimborso del credito d’imposta IRPEG (ex artt. 14 e 92 del Tuir vigenti ratio temporis) maturato negli anni 2001-2003, avanzata sulla base della convenzione Italia-Francia da una sub-holding passiva residente in Francia e interamente partecipata da una capogruppo americana, in relazione ai dividendi ricevuti da una società figlia residente in Italia.
Secondo l’Amministrazione finanziaria italiana, la cui tesi veniva confermata dai giudici di merito, alla sub-holding francese doveva essere negata la spettanza del credito d’imposta richiesto a rimborso, non potendosi considerare la stessa beneficiario effettivo dei dividendi.
In particolare, secondo l’Agenzia delle entrate e la Commissione tributaria regionale dell’Aquila, la sub-holding francese si qualificava come una mera “conduit company, espressione di abuso del diritto”, trattandosi di una società: (i) a sua volta integralmente partecipata dalla capogruppo statunitense[4]; (ii) dotata di una struttura organizzativa “leggera”, priva di dipendenti e caratterizzata da esigui costi gestionali; (iii) priva, presso la sede di residenza, di una sede amministrativa idonea allo svolgimento delle attività di gestione.
La Corte di cassazione ha riformato tale sentenza, affermando che:
- una società madre percipiente non può non ritenersi «beneficiaria effettiva» dei dividendi solo perché priva delle caratteristiche tipiche di una società operativa ovvero di una holding mista. Invero, la presenza di una struttura organizzativa “leggera” può rappresentare un indice di “fittizietà” e di mancanza di reale sostanza economica solo in relazione ad una società operativa e non, invece, con riferimento ad una holding passiva[5];
- l’unico elemento determinante ai fini della nozione di beneficiario effettivo è rappresentato “dalla padronanza ed autonomia della società-madre percipiente sia nell’adozione delle decisioni di governo ed indirizzo delle partecipazioni detenute, sia nel trattamento ed impiego di dividendi percepiti”. Nell’ambito di tale verifica, è tuttavia irrilevante – per escludere che la sub-holding rappresenti un autonomo centro decisionale – la circostanza che il dividendo, risalendo lungo la catena societaria, pervenga nella disponibilità della capogruppo, in quanto essa rappresenta un fenomeno “insito nell’essenza del gruppo societario”. In tale ottica, lo status di beneficiario effettivo può essere escluso solo laddove venga dimostrato che la sub-holding operi quale mero soggetto “interposto”, ossia come strumento attuativo di specifici accordi contrattuali che alterano la dinamica ordinaria del rapporto partecipativo[6].
Il principio espresso dalla Corte di cassazione è in linea con l’attuale versione del Commentario all’art. 10 del Modello OCSE, secondo cui la natura di beneficiario effettivo può essere negata solo laddove sia possibile ravvisare delle obbligazioni di natura legale o contrattuale che impongano alla holding di redistribuire ad altri soggetti i dividendi ricevuti [7],[8].
Ne consegue che, laddove la sub-holding si limiti a deliberare la distribuzione dell’utile ai propri soci, deve essere riconosciuta la natura di beneficiario effettivo della stessa in relazione ai dividendi percepiti dalle proprie partecipate, in quanto tale distribuzione è la fisiologica conseguenza del rapporto associativo che lega la sub-holding ai propri soci, e non deriva invece da un’obbligazione legale o contrattuale di natura sinallagmatica[9].
3. Holding statiche e Direttiva madre-figlia
Per quanto riguarda l’applicabilità alle holding statiche della disciplina (di esenzione della ritenuta alla fonte sui dividendi percepiti) prevista nell’ambito della c.d. direttiva Madre-Figlia, la questione va inquadrata in termini diversi.
Infatti, come noto, la Direttiva Madre-Figlia (e, conseguentemente, l’art. 27-bis, comma 5, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, con il quale è stata recepita nell’ordinamento interno) a differenza delle convenzioni contro le doppie imposizioni e della c.d. Direttiva interessi e royalties, non prevede una clausola di beneficial ownership, facendo esclusivo riferimento ad una clausola antiabuso di carattere generale[10].
Pertanto, in tale diverso ambito normativo, le contestazioni formulate dall’Amministrazione finanziaria nei confronti delle sub-holding passive destinatarie di un flusso di dividendi proveniente da una società partecipata italiana si basano tipicamente sulla riconducibilità della sub-holding a costruzioni di puro artificio.
Con riferimento a tale tematica, non risultano emanate recenti pronunce della Corte di cassazione. Tuttavia, si ritiene utile segnalare i chiarimenti forniti, sul punto, dall’Amministrazione finanziaria, nonché le recenti conclusioni dell’Avvocato generale Kokott, presentate il 19 gennaio 2017 nella Causa C-6/16 pendente dinanzi alla Corte di giustizia UE.
(I) L’evoluzione della prassi dell’Agenzia delle entrate in materia di holding passive
L’Amministrazione finanziaria si è espressa in più occasioni – in modo non sempre condivisibile – in merito al rapporto tra holding statiche e costruzioni di puro artificio.
In un primo momento, con riferimento all’applicabilità delle ritenute sui dividendi operate ai sensi dell’art. 27, co. 3-ter, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (“D.P.R. n. 600/1973”), l’Agenzia delle entrate aveva equiparato tout-court le holding passive alle costruzioni di puro artificio (Cfr. Circolare n. 32/E dell’8 luglio 2011)[11].
Più recentemente, con la Circolare n. 6/E del 30 marzo 2016 in tema di levereged buy out, l’Agenzia delle entrate, da un lato, ha individuato lo svolgimento di una reale e genuina attività economica quale requisito per escludere che una holding passiva potesse essere considerata una costruzione di puro artificio; dall’altro, ha altresì (per certi versi contraddittoriamente) affermato che può essere considerata conduit una “una struttura organizzativa “leggera” (ad esempio il personale, i locali e le attrezzature potrebbero risultare messe a disposizione da società domiciliatarie attraverso contratti di management service), priva di effettiva attività e di una reale consistenza e, in concreto, senza autonomia decisionale se non dal punto di vista formale”[12].
In occasione della successiva Circolare n. 40/E del 26 settembre 2016 in tema di consolidato fiscale nazionale tra società c.d. sorelle, l’Agenzia sembra aver adottato un indirizzo maggiormente condivisibile, avendo chiarito che la controllante comunitaria, al fine di non essere considerata costruzione di puro artificio, deve svolgere “effettivamente un’attività economica” (non essendo richiesto dunque, in capo alla holding comunitaria, lo svolgimento di un’attività commerciale, per definizione assente nelle holding statiche).
Da ultimo, la natura non artificiosa delle holding passive è stata incidentalmente riconosciuta con la Risoluzione n. 69/E del 5 agosto 2016, ove si afferma che “il presupposto consistente nell’esercizio di un’impresa commerciale, cui è subordinato il regime in esame (quello previsto dall’art.166-bis del Tuir in materia di trasferimento di sede in Italia, NdR), deve intendersi riferito a tutti i soggetti titolari di reddito d’impresa secondo l’ordinamento domestico, a prescindere dall’attività economica concretamente svolta dai medesimi”.
(II) Le conclusioni dell’Avvocato generale Kokott, presentate il 19 gennaio 2017 nella Causa C-6/16 della Corte di giustizia UE
La fattispecie posta all’attenzione della Corte europea aveva ad oggetto la distribuzione di dividendi da parte di una società francese nei confronti della sua controllante residente in Lussemburgo. A sua volta, quest’ultima era controllata da una società cipriota, controllata infine da una holding svizzera.
Ebbene, la norma introdotta dal legislatore francese in attuazione del previgente art. 1, della Direttiva Madre-Figlia, al pari di quanto previsto dalla previgente versione dell’art. 27-bis, co. 5, del D.P.R. n. 600/1973[13], esclude l’esenzione della ritenuta qualora i dividendi siano distribuiti in favore di una società, controllata (direttamente o indirettamente) da una o più società residenti in Paesi extra UE, a meno che la società percipiente dimostri che la struttura societaria non abbia, tra i suoi fini principali, la fruizione della predetta esenzione.
Ciò posto, per quanto di interesse in questa sede, le conclusioni espresse dall’Avvocato generale possono essere riassunte nei seguenti termini:
- la norma francese non risulta conforme alle previsioni della Direttiva Madre-Figlia, in quanto “si fonda (…) su una immotivata presunzione generale di realizzazione di elusioni fiscali” (i.e., l’esclusione dall’esenzione della ritenuta riservata alle società percipienti, laddove controllate, anche indirettamente da una o più società residenti in Paesi extra UE)[14].
- al fine di essere coerente con le previsioni della Direttiva Madre-Figlia, la norma francese dovrebbe prevedere una diversa ripartizione dell’onere della prova, imponendo all’Amministrazione finanziaria di dimostrare la natura abusiva della holding percipiente i dividendi, in quanto costruzione non genuina, anziché porre in capo alla società accertata la prova della sussistenza di ragioni extrafiscali.
Benché le considerazioni dell’Avvocato generale si riferiscano ad un contesto normativo che precede le modifiche apportate dalla Direttiva 2015/121/UE al fine di inserire nella Direttiva Madre-Figlia una clausola generale antiabuso, si ritiene che, ove saranno fatte proprie dalla Corte di Giustizia UE, esse siano destinate ad avere una portata ben più vasta della causa sottoposta al vaglio della Corte, dispiegando effetti anche sulle controversie pendenti dinanzi alle Commissioni tributarie e fondate sull’art. 27-bis, co. 5, del D.P.R. n. 600/1973[15].
4. Brevi cenni su alcuni profili procedurali nell’ambito degli accertamenti nei confronti di holding statiche
Esaurita la breve disamina dei profili di maggiore interesse per le holding statiche estere che percepiscono dividendi da società operative italiane, merita di essere effettuata un’ultima considerazione in relazione ad un aspetto procedurale che può presentarsi nell’ambito delle contestazioni da parte dall’Amministrazione finanziaria.
In particolare, sia le contestazioni finalizzate al disconoscimento dei benefici convenzionali, sia quelle volte a negare il regime di esenzione previsto della Direttiva Madre-Figlia, sono nella prassi spesso precedute da un’attività istruttoria avviata nei confronti:
- della società italiana che distribuisce i dividendi (che, in qualità di sostituto d’imposta, applica, a seconda dei casi, l’aliquota convenzionale ridotta ovvero il regime di esenzione di cui all’art. 27-bis, co. 5, D.P.R. n. 600/1973), cui può essere notificato un questionario ai sensi dell’art. 32, co. 1, n. 4, del D.P.R. n. 600/1973[16],[17]; e/o
- della holding estera che riceve i dividendi, attraverso una richiesta formulata in base all’art. 32, co. 1, n. 4, del D.P.R. n. 600/1973, ovvero attivando lo scambio d’informazioni su richiesta ai sensi dell’art. 5, della Direttiva 2011/16/UE del 15 febbraio 2011 del Consiglio dell’Unione Europea[18].
Sul punto ci si limita ad osservare che sarebbe da ritenere illegittimo l’avviso di accertamento notificato alla società italiana – volto a recuperare in capo a quest’ultima la (maggiore) ritenuta alla fonte ordinariamente applicabile ai sensi dell’art. 27, co. 3, del D.P.R. n. 600/1973 – al quale non siano allegate le risultanze dell’attività istruttoria azionata nei confronti della holding estera, sulla base delle quali l’atto è motivato.
Infatti, la società italiana deve essere resa edotta delle risultanze dell’attività istruttoria azionata nei confronti della holding estera, sulla base delle quali sarebbe motivato l’eventuale avviso di accertamento emesso nei confronti del soggetto residente.
Diversamente, l’operato dell’Agenzia delle entrate violerebbe il principio espresso dalla Corte di cassazione secondo cui, indipendentemente dalla natura dell’atto richiamato, “allorquando l’amministrazione nella compilazione degli avvisi di accertamento ritenga nella motivazione di fare riferimento ad altri atti, questi debbano essere allegati e quindi, del pari, notificati”[19],[20].
[1] Come noto, con tale espressione, ci si riferisce normalmente alle holding che detengono partecipazioni in società operative, senza esercitare le funzioni di gestione e coordinamento delle partecipate.
[2] L’art. 5 della direttiva del Consiglio UE 30 novembre 2011, n. 2011/96/UE – di recente modificata dalla direttiva 27 gennaio 2015, n. 2015/121/UE prevede che “gli utili distribuiti da una società figlia alla sua società madre sono esenti dalla ritenuta alla fonte”. Tale previsione trova attuazione nell’ordinamento interno nell’art. 27-bis, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
[3] Cfr. anche Corte di cassazione, sentenze nn. 27112, 27115 e 27116 del 28 dicembre 2016, riguardanti la medesima fattispecie. Per un attento commento alla sentenza cfr. A. Tomassini, A. Sandalo, “La Cassazione traccia i confini del concetto di beneficiario effettivo”, in Rivista di giurisprudenza tributaria, n. 3/2017, p. 238, F. Roccatagliata, “Sede di direzione effettiva e beneficiario effettivo nel quadro dei rapporti italo-francesi”, in Corr. Trib. n. 16/2017, p. 1275 e ss., S. Dorigo, “Holding passive e costruzioni di puro artificio”, in Corr. Trib. n. 27/2017, p. 2115 e ss..
[4] A differenza della convenzione Italia-Francia, la convenzione Italia-USA non prevedeva il riconoscimento del credito d’imposta.
[5] In particolare, secondo la Corte di cassazione, lo status di beneficiario effettivo non può essere disconosciuto alle holding o alle sub-holding di pura partecipazione “per il solo fatto della mancanza di una significativa struttura organizzativa; della esiguità di costi gestionali e di crediti operativi; della mancata fatturazione di servizi gestionali a favore della società figlia erogante”.
[6] Sul punto, infatti, la sentenza in esame afferma che la qualità di beneficiario effettivo dei dividendi non può essere negata alla sub-holding francese “per la sola circostanza che dalla produzione di tali dividendi possa giovarsi la capogruppo; almeno fino a quando non si dimostri che tale giovamento è consistito nel diretto trasferimento a quest’ultima dei dividendi imponibili, non già di una generica e non meglio valutabile ‘ricchezza’ o redditività di gruppo”.
[7] Cfr. Commentario all’art. 10 del Modello OCSE (edizione 2014), par. 12.4, secondo cui “the direct recipient of the dividend is not the “beneficial owner” because that recipient’s right to use and enjoy the dividend is constrained by a contractual or legal obligation to pass on the payment received to another person. Such an obligation will normally derive from relevant legal documents but may also be found to exist on the basis of facts and circumstances showing that, in substance, the recipient clearly does not have the right to use and enjoy the dividend unconstrained by a contractual or legal obligation to pass on the payment received to another person”. Sul punto, Assonime ha osservato che, in definitiva, “in presenza di flussi di dividendi che non transitino tramite un agente o una fiduciaria non sono ravvisabili obbligazioni di “ritrasferimento” back to back alla controllante o ai soci di livello superiore e tanto meno obbligazioni correlate in senso tecnico ai dividendi stessi che possano mettere in discussione, ai fini convenzionali, lo status di beneficiario effettivo di una subholding” (cfr. Note e Studi, n. 17/2016, “Imprese multinazionali: aspetti societari e fiscali”, p.70).
[8] Tale conclusione trova conferma nella nota sentenza Prèvost Car del 22 aprile 2008, nella quale la Corte canadese ha riconosciuto la qualifica di beneficiario effettivo di una holding passiva (la cui policy in tema di distribuzione dei dividendi era regolata da uno shareholders agreement stipulato tra i relativi soci) sul presupposto che, fino al momento dell’approvazione della delibera di distribuzione degli utili da parte dell’organo amministrativo, i dividendi appartenevano al patrimonio della società e potevano essere aggrediti dai creditori.
[9] In senso conforme, cfr. Assonime, Circolare n. 10 del 2 maggio 2017, “Holding passive e vantaggi fiscali. I recenti chiarimenti giurisprudenziali”, p. 13. Tuttavia, non può escludersi che, sempre alla luce dell’attuale versione del Commentario all’art. 10 del Modello OCSE, i benefici convenzionali possano essere negati ove si ravvisi un’ipotesi più generale di treaty shopping. A tal riguardo, è importante segnalare che, nell’Action 6 – 2015 Final Report (Preventing the Granting of Treaty Benefits in Inappropriate Circumstances) del progetto BEPS, pubblicato il 5 novembre 2015, l’OCSE ha suggerito l’impiego di clausole antielusive per contrastare i fenomeni di treaty shopping e treaty abuse, quali il Principal Purpose Test (c.d. PPT) o la Limitation On Benefit (c.d. LOB). In particolare, la clausola LOB – già rinvenibile nelle Convenzioni concluse dall’Italia con Estonia, Israele, Kazakhstan, Kuwait, Lituania, Stati Uniti d’America e San Marino – è una clausola che, in estrema sintesi, obbliga colui che percepisce il provento a superare una serie di test volti a verificare l’effettivo collegamento del percipiente con la giurisdizione che concede i benefici convenzionali. La clausola PPT prevede invece che i vantaggi derivanti dall’applicazione di una determinata Convenzione non debbano essere concessi quando uno dei principali scopi per il quale sono stati effettuati determinati accordi o transazioni è quello di ottenere un beneficio fiscale in contrasto con l’oggetto e lo scopo della Convenzione stessa. Per una disamina approfondita delle due clausole e dei connessi riflessi sulle holding passive e, più in generale, sulle strutture di private equity, cfr. A. Silvestri, “Holding companies in the BEPS Era”, in INTERTAX, Volume 45, Issue 6 & 7, p. 484 e ss. e L. Rossi e M. Ampolilla, “L’adozione della convenzione multilaterale impatti sulle strutture di acquisizione utilizzate dai private equity”, in Boll. Trib. n. 4/2017, p. 269 e ss..
[10] Tale circostanza, che emergeva già nella formulazione originaria del citato art. 27-bis, comma 5, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è stata resa ancor più chiara a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 26, comma 2, lett. b), della L. 7 luglio 2016, n. 122 (applicabile alle distribuzioni effettuate dal 1° gennaio 2016) alla luce delle quali la norma fa oggi fa espresso rinvio alla disciplina dell’art. 10-bis, della L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente).
[11] In particolare, l’Agenzia ha affermato in tale sede che: “(…) qualora la società percettrice dei dividendi (…) fosse configurabile come semplice possessore delle partecipazioni, fosse stabilita in uno Stato membro in cui il trattamento fiscale complessivo dei redditi societari era significativamente migliore di quello che sarebbe stato applicabile ad analogo soggetto stabilito in Italia, non svolgesse attività diverse dal mero possesso delle partecipazioni, e il numero e l’importanza di queste dimostrassero che il centro esclusivo o prevalente dei suoi interessi era in Italia, il suo stabilimento nell’altro Stato membro potrà essere considerato come una costruzione di mero artificio”.
[12] L’Agenzia delle entrate ha esteso tali considerazioni anche in relazione alla fruizione dei benefici convenzionali per le holding statiche. Sul punto, alcuni commentatori si sono espressi in senso critico rilevando tra l’altro che (i) la struttura di cui valutare l’eventuale artificiosità non è tanto da intendersi solo in senso “materiale”, quanto in ottica anche “personale”, ossia misurando l’adeguatezza professionale dei soggetti chiave della società estera, in rapporto alla complessità delle operazioni gestite e (ii) l’accertamento della struttura organizzativa in capo alla holding non residente – ove effettuato unicamente sotto il profilo della relativa presenza fisica – configurerebbe una disparità di trattamento con le holding residenti, la cui “vitalità” è invece riconosciuta dall’Agenzia delle entrate a prescindere da ogni indagine sulla relativa sostanza economica. Sia consentito il rimando a M. Antonini, R. Papotti, Luci e ombre dei chiarimenti dell’Agenzia sulle operazioni di “Leveraged Buy-Out”, in Corr. Trib. n. 20/2016, p. 1541 ss.
[13] Prima delle modifiche apportate dall’art. 26, comma 2, lett. b), della L. 7 luglio 2016, n. 122 (applicabile alle distribuzioni effettuate dal 1° gennaio 2016) e analogamente alla norma francese in esame, il citato art. 27-bis, comma 5, prevedeva, infatti, che in relazione alle società “che risultano controllate direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in Stati della Comunità europea” i benefici fiscali della direttiva madre-figlia trovassero applicazione solo a condizione che fosse fornita la dimostrazione “di non detenere la partecipazione allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime in esame”.
[14] Cfr. conclusioni dell’Avvocato generale Kokott, presentate il 19 gennaio 2017 nella Causa C-6/16 della Corte di giustizia UE, par. 29, in cui si afferma che “Nel mero richiamo al controllo diretto o indiretto da parte di azionisti residenti in Stati terzi non può essere visto un indizio del genere già in quanto non può in nessun modo dirsi, genericamente, che il trattamento fiscale di distribuzioni di utili a società al di fuori dell’Unione sia più favorevole nello Stato membro della società madre o della società madre di quest’ultima rispetto alla Francia”.
[15] Sul punto, si veda anche Assonime, Circolare n. 10 del 2 maggio 2017, “Holding passive e vantaggi fiscali. I recenti chiarimenti giurisprudenziali”, p. 21 e F. Roccatagliata, “Sede di direzione effettiva e beneficiario effettivo nel quadro dei rapporti italo-francesi”, in Corr. Trib. n. 16/2017, p. 1275 e ss. e P. Arginelli, M. Tenore, “Direttiva madre-figlia, la prova al Fisco, in Italia Oggi, 26 gennaio 2017, p. 28.
[16] In particolare, l’art. 27-bis, co. 5, del D.P.R. n. 600/1973, fa espresso rinvio all’art. 10-bis, della L. 27 luglio 2000, n. 212, il cui comma 6 prevede che “(…) l’abuso del diritto è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni , in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurato un abuso del diritto”.
[17] In base all’art. 32, co. 1, n. 4, del D.P.R. n. 600/1973, l’Amministrazione finanziaria può “inviare ai contribuenti questionari relativi a dati e notizie di carattere specifico rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti nonché nei confronti di altri contribuenti con i quali abbiano intrattenuto rapporti, con invito a restituirli compilati e firmati”.
[18] In specie, il citato art. 5 della Direttiva in materia di scambio d’informazioni prevede che “Su richiesta dell’autorità richiedente, l’autorità interpellata trasmette all’autorità richiedente le informazioni previste all’articolo 1, paragrafo 1, di cui sia in possesso o che ottenga a seguito di un’indagine amministrativa”.
[19] Cfr. Cass., 22 marzo 2005, n. 6201.
[20] Cfr. da ultimo, Cass. 12 gennaio 2017, n. 562.