A detta di Federcasse e Confcooperative, scesa in campo in soccorso della prima associazione, l’introduzione della way out nel Decreto Legge14 febbraio 2016 n. 18 avrebbe innescato problemi di legittimità costituzionale perché attraverso il pagamento di un’imposta sostitutiva verrebbero affrancate le riserve, c.d. indivisibili, che hanno beneficiato dell’esenzione parziale (e non totale) dalla tassazione degli utili che le hanno prodotte.
Eppure di norme fiscali agevolative che hanno introdotto la possibilità di affrancare riserve pagando imposte straordinarie o di rivalutare beni pagando un’imposta sostitutiva, in questi ultimi 20 anni, ne sono state “sfornate” tante e da governi di ogni colore politico; da ultimo, basti pensare alla Legge n. 208 del 28 dicembre 2015 (c.d. Legge di Stabilità per il 2016) in cui al comma 116 si prevede espressamente che “Le riserve in sospensione d’imposta annullate per effetto dell’assegnazione dei beni ai soci e quelle delle società che si trasformano sono assoggettate ad imposta sostitutiva nella misura del 13 per cento.”.
L’unica vera novità è che, per la prima volta, viene prevista la possibilità di affrancare riserve di società cooperative pagando un’imposta particolarmente elevata, specie se confrontata con le aliquote previste sino ad ora (mai un’imposta sostitutiva era stata fissata al 20%) e con le aliquote fiscali effettive (stimate pari a circa il 18% e non 30% come da qualcuno sostenuto) che hanno scontato gli utili che hanno concorso alla formazione delle riserve indivisibili. In definitiva, trattasi di imposta sostitutiva non certo agevolativa.
Tra l’altro, non appare superfluo ricordare che, appena alcuni giorni fa, la maggioranza parlamentare ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità del DL 14 febbraio 2016 n. 18 presentate dall’opposizione (Sel, M5S e Lega) con 250 voti contrari a fronte di 141 favorevoli.
Allo stato attuale, il vero problema della way out (cioè poter scegliere di non aderire alla holding unica), come ribadito recentemente dal viceministro all’Economia Enrico Zanetti intervenuto a Padova sul tema, sembrerebbe rappresentato dal livello della soglia minima stabilito in 200 mln. di Euro di patrimonio netto richiesto. Così il viceministro Zanetti, anche ottimo commercialista particolarmente ferrato in questioni giuridiche e fiscali:
“i 200 milioni sono lo spartiacque tra i sommersi e i salvati e bisogna solo chiedersi se questa soglia sia ragionevole o se invece non sia più corretto abbassarla per allargare la platea”.
Effettivamente, considerando che il limite minimo di capitale attualmente richiesto per la costituzione di una banca società per azioni è pari 10 mln. di Euro e che, ad esempio, nella regione Marche (senza tenere conto di Nuova Banca delle Marche) operano cinque banche s.p.a. di cui solo una possiede un patrimonio netto superiore a 200 mln. di Euro mentre un’altra registra addirittura un patrimonio inferiore ai 30 mln. di Euro, la discrasia diventa talmente evidente da richiedere una modifica in sede di conversione del DL n. 18/2016. Tale modifica potrebbe prevedere una riduzione della soglia minima a 40/50 mln. di Euro ovvero l’introduzione di una norma generale che consenta, nell’arco dei 18 mesi, un adeguamento di patrimonio netto a 160 mln. di Euro per tutte le banche s.p.a. aventi sede legale in Italia; evidentemente le due soglie proposte, 40/50 mln. per la way out e 160 mln. quale soglia minima applicabile a tutte le banche s.p.a., sono state calcolate tenendo conto dell’abbattimento di patrimonio netto della BCC conseguente al versamento dell’imposta straordinaria del 20%.
Sempre in tema di mancato coordinamento del DL n. 18/2016 con la normativa vigente, va segnalata l’assenza nel DL di una soglia massima che imponga la trasformazione in società per azioni. L’ipotesi non appare né peregrina né ipotetica. In effetti, la recente riforma delle banche popolari (società cooperative a mutualità NON prevalente) ha introdotto il limite massimo di 8 mld. di attivo, superato il quale scatta l’obbligo per la banca popolare di trasformarsi in s.p.a. Peraltro, in Italia opera una BCC con un attivo di bilancio di circa 12 mld. di Euro che ha già dichiarato di voler mantenere l’attuale forma giuridica di società cooperativa a mutualità prevalente partecipando in modo pro attivo al gruppo unico e che ha anche criticato la previsione di way out contenuta nel DL.
Orbene, premesso che la BCC di Civitanova Marche e Montecosaro sostiene fermamente da oltre un anno l’idoneità della costituzione di più gruppi (anche regionali) ad eliminare ogni dubbio di legittimità costituzionale e a risolvere i veri problemi del credito cooperativo (innovazione, efficienza e governance), preso atto che è volontà comune, sia del governo che dei vertici del credito cooperativo, portare avanti il progetto della holding unica obbligatoria “di fatto” (ovviamente con way out per quanto riguarda il governo e senza way out secondo i desiderata dei vertici del credito cooperativo), appare più proficuo rivolgere l’attenzione alla dimensione “ideale” della soglia minima di patrimonio netto richiesto per l’opzione della trasformazione in società per azione (way out), piuttosto che continuare a perseverare in una richiesta (più gruppi in concorrenza tra loro) che, seppur non espressamente vietata dal DL attualmente in discussione in Parlamento, appare difficilmente perseguibile, sia per la soglia minima di patrimonio netto richiesto per la capogruppo (1 mld. di Euro), che per la previsione della impossibilità di esercitare il diritto di recesso da parte delle BCC aderenti al gruppo. In altre parole, per poter continuare ad auspicare concretamente che si possano formare più gruppi bancari cooperativi, in sede di conversione del DL, il Parlamento dovrebbe ridurre a 5/600 mln. di Euro la soglia minima di patrimonio richiesto per la capogruppo e, soprattutto, eliminare la previsione che non ammette il recesso delle BCC aderenti al gruppo.
Chiarito che, a differenza di quanto sostenuto dai vari “supporter interessati” del gruppo unico obbligatorio, la way out non può essere certamente costituita dall’ipotesi di devoluzione delle riserve indivisibili ai fondi mutualistici in caso di non adesione al gruppo unico (equivarrebbe a dire che l’unica way out ammessa è la liquidazione delle BCC che non intendono aderire) o addirittura, come sembrerebbe essere stato proposto da Federcasse, di devoluzione “alla holding unica delle consorelle” (così si è espresso il presidente della Federazione Veneta a l’Arena), resta da verificare se, e per quali ragioni, la holding unica obbligatoria senza possibilità di uscita rischia di violare la Carta Costituzionale o altre norme attualmente vigenti.
Tale verifica richiede un’analisi puntuale e corretta della holding unica definita dal DL n. 18/2016.
Per le finalità che qui interessano, si sintetizzano le principali prescrizioni contenute nel DL n. 18/2016:
- L’adesione ad un gruppo bancario cooperativo, la cui capogruppo società per azioni dovrà avere un patrimonio netto minimo di 1 mld. di Euro ed il cui capitale sarà detenuto in maggioranza dalle BCC, è condizione per il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria in forma di banca di credito cooperativo;
- Le BCC che non aderiscono al gruppo bancario cooperativo debbono sciogliersi o trasformarsi in società per azioni se, nell’arco di 18 mesi dall’emanazione del decreto da parte del MEF, detengono un patrimonio netto di almeno 200 mln. di Euro e versano un’imposta straordinaria del 20% del patrimonio stesso;
- Qualunque altra trasformazione, che avvenga in via diretta o indiretta tramite fusione, scissione o cessione, non è ammessa se non nei limiti e nei termini di cui sopra (trasformazione in s.p.a., patrimonio netto minimo di 200 mln. e versamento di un’imposta del 20%), ivi inclusa la trasformazione in banca popolare che è espressamente esclusa. In altri termini, fatta eccezione per l’ipotesi di conferimento, la cui complessità e possibilità di attuazione con l’attuale normativa meriterebbe un approfondimento specifico che esula dalle finalità delle presenti note, le uniche possibilità per le BCC risulterebbero le seguenti: a) continuare ad operare come BCC all’interno di un gruppo, b) trasformazione in s.p.a. ove possibile (ossia nel rispetto delle predette condizioni) o, infine, c) messa in liquidazione;
- Le BCC che intendono aderire al gruppo bancario cooperativo dovranno modificare i propri statuti e, quindi, chiedere espressamente ai propri soci se sono d’accordo ad essere assoggettati alla direzione e coordinamento della capogruppo s.p.a. Solo a quel punto ci si renderà conto se 1.200.000 soci sono stati ben rappresentati da circa 30 persone, ossia dai vertici di Federcasse e da quelli delle Federazioni regionali che si sono ostinate nel proporre unicamente il gruppo unico obbligatorio senza way out. Ovviamente, ferme restando le attuali norme del DL n. 18/2016, le BCC con un patrimonio netto superiore a 200 mln. di Euro dovrebbero incontrare ancora più difficoltà a spiegare ai propri soci le ragioni per cui è più conveniente essere assoggettati ad una capogruppo piuttosto che trasformarsi in s.p.a. (con i vantaggi che ne conseguirebbero soprattutto per loro);
- Una volta che si aderisce al gruppo non è ammesso il recesso e in caso di esclusione, autorizzata dalla Banca d’Italia, la BCC esclusa dalla capogruppo potrà trasformarsi in s.p.a., se sussistono determinate condizioni, o deliberare la messa in liquidazione;
- La BCC che aderisce al gruppo è tenuta a sottoscrivere un contratto di coesione (parente molto stretto del noto contratto di dominio) che disciplina la direzione e il coordinamento della capogruppo sulle BCC aderenti;
- In base a quanto previsto nel DL, il contratto di coesione deve necessariamente prevedere: a) i poteri della capogruppo su ciascuna BCC e che devono comprendere l’individuazione e l’attuazione degli indirizzi strategici ed obiettivi operativi del gruppo insieme a tutti gli altri poteri necessari per esercitare la tipica attività di direzione e coordinamento nei confronti delle BCC facenti parte del gruppo; b) i casi, eccezionali e motivati, in cui la capogruppo può nominare, opporsi alla nomina o revocare uno o più amministratori e sindaci (sino anche alla maggioranza degli stessi); c) i criteri di compensazione dei risultati economici e la distribuzione equilibrata dei vantaggi derivanti dall’essere parte del gruppo; ed infine, d) la garanzia in solido delle obbligazioni assunte dalla capogruppo e dalle BCC aderenti al gruppo.
Anche chi non ha familiarità con i gruppi e con i concetti di direzione e coordinamento comprende chiaramente che, a prescindere dal grado di autonomia che sarà riservato a ciascuna BCC in funzione della propria solidità patrimoniale, l’appartenenza al gruppo comporta una forte limitazione di poteri e diritti spettanti ai soci e agli organi di ciascuna BCC, con conseguente rischio di violazione di norme vigenti o comunque di contrasto con i principi generali della libertà d’impresa, rischio che risulterà crescente in ragione della minore possibilità di non adesione al gruppo stesso (way out) che dovesse essere prevista.
Per contro, a fronte della comune volontà di non consentire (di fatto) la costituzione di più gruppi, l’innovazione della way out introdotta dal Governo, seppure discriminatoria ed apparentemente ad personam, tende a mitigare i maggiori rischi di legittimità costituzionale insiti nel progetto di riforma presentato da Federcasse e che prevede unicamente la possibilità di costituire una sola holding con obbligo di partecipazione per tutte le BCC.
Ne consegue che, una eventuale riduzione (in sede di conversione in Legge) a 40/50 mln. di Euro della soglia minima di patrimonio netto per l’opzione alla non adesione al gruppo unico eliminerebbe anche alcune discrasie attualmente presenti nel DL n. 18/2016.