Il dilagare endemico della crisi nell’economia reale si è inevitabilmente trasferito nei bilanci bancari, facendo schizzare i “crediti deteriorati” oltre i 360 miliardi di Euro (di cui oltre la metà rubricati “in sofferenza”). Una tale situazione, oltre a compromettere i ratios patrimoniali e a rendere quindi l’allentamento del credit crunch più difficile, tende a snaturare – in una impropria confusione di ruoli – la funzione delle banche che da prestatori/creditori vengono sempre più chiamate a farsi partner degli imprenditori in crisi, trovandosi a dover gestire da protagoniste complessi processi di ristrutturazione. Tutto ciò determina per le banche un insostenibile stress delle strutture organizzative e inevitabili ricadute anche a conto economico, rendendo al contempo poco efficienti per le imprese, anche qualora ve ne siano i presupposti, i percorsi di uscita dalla crisi tramite il ricorso agli strumenti di composizione approntati dal Legislatore negli ultimi anni. La magnitudine di tale situazione richiede oggi risposte innovative e “di sistema” e tuttavia nel dibattito pubblico pare esservi una certa confusione sulle soluzioni configurabili, frutto in questi giorni anche di polemiche politiche. Queste paiono essenzialmente tre e rispondono a filosofie diverse. La prima e oggi mediaticamente più appealing è quella della c.d. Bad Bank, con ciò riferendosi, alla luce di precedenti esperienze straniere degli anni scorsi, ad un intervento pubblico col quale lo Stato procede, direttamente o indirettamente, a rilevare dal sistema bancario i non performing loan a valori “agevolati”, provvedendo poi a gestirli con tempistiche e modalità più “rilassate” di quanto non possa fare il sistema bancario. Una variante è quella di prevedere singole “bad banks” per ciascuna banca. Tali interventi sono spesso difficilmente compatibili con la disciplina europea degli aiuti di stato, anche se la soluzione di una garanzia pubblica, onerosa e a prezzi di mercato, elaborata dal Ministero dell’economia e delle finanze nelle settimane scorse pare evitare il problema. Sostanzialmente alla stessa filosofia, sebbene in una prospettiva esclusivamente privatistica paiono ispirate le soluzioni del secondo tipo; soluzioni innovative ma “solitarie” che nell’ultimo anno hanno impegnato alcune tra le principali banche italiane assieme a investitori internazionali; si tratterebbe di trasferire da parte di queste banche in capo ad un veicolo specializzato che poi lo gestirà, un portafoglio di crediti già ristrutturati, o npl, riferiti ad una platea più o meno ampia di medie imprese.
Diverse, più ambiziose e tecnicamente complesse, paiono le iniziative del terzo tipo, oggi allo studio da parte di alcuni operatori pionieri e a cui paiono finalmente prestare più attenzione i policy makers; queste iniziative, oltre a farsi carico delle pur opportune esigenze di “pulizia” dei bilanci bancari, hanno come ulteriore ma non certo secondario obiettivo, quello di efficientare i processi di ristrutturazione oggi “polverizzati” e “incagliati” negli uffici ristrutturazione di tutte le banche italiane che – pur meritoriamente rinforzati e riqualificati negli ultimi anni, innanzi al quotidiano moltiplicarsi deidossier e pur con tutta la diligenza e competenza di cui dispongono – si trovano oggi a dover gestire con strumenti “ordinari” una vera emergenza nazionale . Chiaro in tal senso appare l’autorevole endorsement del Governatore di Banca d’Italia nei giorni scorsi: “si possono inoltre gestire meglio quei crediti deteriorati (quasi un terzo del totale) che fanno capo a imprese in temporanea difficoltà ma con concrete possibilità di rilancio, soprattutto con il rafforzamento della ripresa economica. E’ essenziale a questo fine un adeguato coordinamento tra le banche finanziatrici, che preveda anche l’intervento di operatori specializzati nelle ristrutturazioni aziendali […]” (Ignazio Visco, intervento al 22° Congresso ASSIOM FOREX, Torino 30 gennaio 2016).
E’ dunque urgente pensare a soluzioni sistemiche e operative che promuovano e agevolino (magari anche con la leva fiscale, sia con riguardo alle imposte indirette che dirette) l’interposizione di veicoli dedicati e professionali, capaci di svolgere per conto e nell’interesse delle banche, anche attraverso la “conversione” in equity dei loro crediti, quel ruolo dipartnership dell’impresa in crisi che le stesse banche non vogliono, non dovrebbero e spesso non sono in grado di svolgere; la gestione professionale e virtuosa del percorso di risanamento si rifletterebbe poi in capo alle banche nella valorizzazione dell’investimento di natura finanziaria che queste ultime verrebbero a detenere nelle quote di quei medesimi veicoli per effetto del conferimento in essi dei crediti in sofferenza.
Una tale soluzione si pone come l’unica capace di superare quello che oggi risulta, ad ogni operatore delle ristrutturazioni, il principale ostacolo di natura operativa all’applicazione con successo dei suddetti strumenti (piani, accordi o concordati): la lentezza, complessità e farraginosità della dialettica che in ogni operazione è destinata a svilupparsi tra le banche e impresa debitrice e spesso ancor più acutamente, all’interno del ceto bancario stesso, tra banche portatrici di interessi disomogenei, quantitativamente e qualitativamente. Da qui i tempi ormai dilatatissimi delle operazioni e la difficoltà di una interlocuzione che pretenderebbe, per sua natura, tempi di reazione rapidissimi e modalità dirette. Il principale obiettivo che dovrebbe allora essere perseguito a livello legislativo – nell’ambito della più ampia riforma allo studio – è quello di accelerare e fluidificare i farraginosi percorsi di risanamento; ma allora ciò può solo avvenire agevolando la concentrazione delle posizioni creditorie oggi diffuse tra una moltitudine di banche (spesso litigiose tra loro) in capo ad un unico interlocutore professionale dell’impresa. In tal senso – e spingendosi oltre sulla strada già intrapresa con la recente introduzione della moratoria obbligatoriaex art. 182 septies, l.f. (introdotto dall’art. 9 del d.l. 27 giugno 2015, n.83, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n.132) e recentissimamente ulteriormente riconfermata nell’ambito dello schema di disegno di legge delega recante la “Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”- occorrerebbe pensare con la necessaria fantasia ad un meccanismo legale di creditor drag along; un obbligo cioè in capo alle banche che siedono attorno ad un tavolo di ristrutturazione nell’ambito di una procedura stragiudiziale di conferire i propri crediti ad un operatore specializzato, ove così decida la maggioranza delle banche. Si tratterebbe cioè, in linea con l’indicazione riaffermata nella citata delega legislativa – in particolare all’art. 5, a) e c) – di spingersi oltre nella deroga al principio generale della relatività del contratto, sacrificato sull’altare dell’interesse del debitore e della maggioranza dei creditori finanziari a definire un virtuoso percorso di uscita dalla crisi e di risanamento dell’impresa meritevole[1]. In tal senso, non si sottovalutano le perplessità di ordine giuridico, anche di natura costituzionale, di quella che potrebbe apparire una ulteriore, eccessiva, deroga a quel principio civilistico, fino ad arrivare a prefigurare una sorta di “esproprio” privato…E tuttavia, oltre a potersi invocare qui la “filosofia concordataria” già oggi inoculata negli accordi di ristrutturazione dall’art. 182 septies e convintamente riaffermata nello schema di legge delega, può essere qui utile richiamarsi alla lucida e proficua analisi – che in tutt’altro ambito – è stata in passato condotta al fine di un corretto inquadramento di quello che poteva apparire un meccanismo di “cessione forzosa” di dubbia validità; mi riferisco in particolare alla documentata analisi e al conseguente inquadramento giuridico del meccanismo di squeeze-out (di cui alla normativa in materia di offerte pubbliche di acquisto ex art. 111 TUF) in termini di semplice regola legislativa c.d. “conformativa” del diritto di proprietà[2].
Certo, occorrerebbe fissare criteri di affidabilità dei soggetti cessionari, di standardizzazione dello strumento finanziario che le banche riceverebbero in cambio dei crediti conferiti e di valorizzazione/omogeneizzazione dei crediti…nulla di così impossibile (si veda la proposta di articolato riportata in calce). Questa sì sarebbe, sotto un profilo operativo, una vera rivoluzione copernicana capace di dare efficienza e funzionalità agli strumenti di superamento della crisi per le imprese meritevoli e con prospettive di recupero, azzerando le enormi diseconomie di un sistema oggi “imballato” che non fa che alimentare e aggravare le situazioni di crisi invece di superarle.
Disciplina del “creditor drag-along”: Proposta di nuovo articolato normativo da inserire nel corpo dell’ art. 182 septies della Legge Fallimentare, dopo il vigente comma 5:
“Quando fra l’impresa debitrice, una o più banche o intermediari finanziari e un Oicr specializzato nella gestione di situazioni di crisi aziendali che risponda ai requisiti determinati con Regolamento[3] da emanarsi da parte della Banca d’Italia, viene stipulata una convenzione diretta a disciplinare gli effetti della crisi attraverso la cessione/apporto all’Oicr dei crediti vantati da tali banche o intermediari finanziari, a fronte di strumenti finanziari emessi dal medesimo Oicr che rispondano ai requisiti standard stabiliti dal predetto Regolamento[4] e sia raggiunta la maggioranza di cui al secondo comma, l’accordo di cessione/apporto, in deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile, produce effetti anche nei confronti delle banche e degli intermediari finanziari non aderenti se questi siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede, e un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), attesti l’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici fra i creditori interessati dalla moratoria e la congruità dei relativi valori di cessione/apporto. In relazione alle operazioni di cessione/apporto dei crediti e trasferimento delle connesse garanzie, si applica ad ogni effetto l’articolo 58 del d.lg. 1 settembre 1993, 385”.
[1] Per primi commenti v. B. Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, in Contr. e impr., 2015, 1183; L. Follieri, La natura degli accordi di ristrutturazione dei debiti nel “prisma” del contratto, in Contr. e impr., 2015, 1099.
[2] In tal senso cfr. V. Ventoruzzo, Art. 111, in La disciplina delle società quotate nel Testo Unico dalla Finanza D. Lgs. 24 febbraio 1998, n.58, a cura di P. Marchetti, L.A. Bianchi, Milano, 1999, 474 ss. Meno rilevante e utile ci parrebbe invece richiamarsi qui alla tematica della legittimità dei meccanismi statutari di drag along che, come tali, prescindono da alcuna esplicita norma legislativa legittimante, essendo essi rimessi alla mera autonomia negoziale/statutaria in un ambito meramente privatistico; cfr. V. Salafia, Sqeeze-outstatutario, in Soc., 2007, 1452.
[3] In coerenza con la disciplina già oggi prevista in relazione alle banche per gli “Investimenti indiretti in Equity” di cui alla Sezione VI, del Capitolo I, Parte Terza, delle Disposizioni di vigilanza per le banche, Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013.
[4] Anche qui in coerenza con la disciplina già oggi prevista in relazione alle banche per gli “Investimenti indiretti in Equity” di cui alla Sezione VI, del Capitolo I, Parte Terza, delle Disposizioni di vigilanza per le banche, Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013.