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Dossier

Chiamato all’eredità e accesso alle operazioni bancarie del de cuius

A proposito di ABF Napoli, n. 7639/2014

5 Ottobre 2015

Matilde Girolami, Professore ordinario di diritto privato nell’Università di Padova

1. L’ABF ha recentemente statuito sulla legittimità della richiesta di un chiamato all’eredità (non nel possesso dei beni) di accedere ai conti correnti bancari intestati al de cuius.

Il ricorrente, nello specifico, lamentava la mancata consegna dei documenti relativi alle “posizioni bancarie del defunto anche nella di lui qualità di amministratore e socio unico di due società a responsabilità limitata”, asserendo che ciò costituiva violazione del disposto dell’art. 119, comma 4°, tub, nonché dell’art. 460 c.c.

In particolare, la prima norma prevede che il cliente, il suo successore o chi subentri nell’amministrazione dei suoi beni abbia diritto di ottenere, a proprie spese ed entro un congruo termine, non superiore a novanta giorni, copia di atti o documenti bancari relativi ad operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni. D’altro lato la norma del codice civile che disciplina i poteri del chiamato prima dell’accettazione lo legittima ad esercitare le azioni possessorie e a compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea.

Il Collegio, nel rigettare il ricorso, ha ritenuto tuttavia non applicabili al caso di specie né l’art. 119, comma 4° tub, rilevando il difetto in capo al ricorrente della qualità soggettiva a cui la norma ricollega il diritto ad ottenere le informazioni e i documenti richiesti; né l’art. 460 c.c. intendendolo, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, che vantava nella fattispecie il ruolo di amministratore provvisorio dei beni ereditari, come volto a preservare i diritti di chi è chiamato all’eredità secondo la mera logica di una tutela cautelativa.

Esclusa, poi, l’applicabilità alla fattispecie dell’ art. 4 d. lgs. n. 196/2003, in quanto la richiesta verteva oltre che su dati appartenenti a persone fisiche anche su operazioni svolte da s.r.l. (in materia cfr. comunque la deliberazione n. 53 del 25 ottobre 2007 del Garante della Privacy, Linee guida per trattamento dei dati relativi al rapporto banche-clientela, in part. par. 5.3; sul punto anche ABF, Coll. coord., n. 5872/2015; ABF Milano, n. 8510/2014), il Collegio ha individuato nell’accettazione beneficiata la via che l’ordinamento offre al chiamato per evitare il rischio di rispondere ultra vires degli eventuali debiti del de cuius. Si aggiunga che, nel caso specifico, non era tra l’altro stata addotta alcuna ragione tale da far pensare ad una responsabilità illimitata dell’unico socio delle s.r.l. secondo quanto indicato dall’art. 2462, comma 2°, c.c.

2. La decisione, così costruita, suscita a ben vedere più di una perplessità.

È la posizione del chiamato di fronte all’intermediario a non essere stata sufficientemente chiarita dal Collegio.

I poteri che il codice civile attribuisce al delato prima dell’accettazione, infatti, sono ictu oculi finalizzati a conservare le prerogative ereditarie, sia per il caso in cui il medesimo poi accetti divenendo a tutti gli effetti successore del defunto, sia anche per il caso opposto in cui decida di rimanere estraneo alla vocazione.

E se la via dell’accettazione è senza dubbio quella auspicata dal sistema, che ambisce ad attribuire un successore ad ogni patrimonio, la via della rinuncia è a tal punto contemplata come plausibile che il legislatore le dedica un’apposita disposizione, l’art. 461 c.c., per chiarire che in tal caso le spese sostenute dal chiamato dopo l’apertura della successione e fino alla determinazione abdicativa sono a carico dell’eredità.

La rinuncia, invero, è un esito naturale della chiamata, tanto quanto l’accettazione, e la gestione del chiamato prevista dall’art. 460 c.c. è considerata utile dal legislatore al punto da metterne le spese a carico di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda successoria (cfr. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, 6a ed., Torino, 2013, p. 97).

Se dunque l’ordinamento lascia al chiamato, sia questi o meno nel possesso dei beni ereditari, la facoltà di rinunciare all’eredità o comunque di non accettare, la via dell’accettazione beneficiata suggerita dal Collegio nella decisione da cui prendono spunto queste considerazioni non può essere una valida risposta alla richiesta del chiamato di accedere alla documentazione bancaria. Il delato non può, cioè, essere costretto ad accettare l’eredità sia pure nella forma beneficiata per conoscere la consistenza dell’asse, perché in questo modo gli si precluderebbe la via abdicativa che invece egli deve poter percorrere con cognizione di causa. La forzatura sottesa alla motivazione dell’ABF emerge, tra l’altro, a maggior ragione nel caso di specie, ove il chiamato non era nemmeno nel possesso dei beni e dunque non era vincolato ai tempi stretti che l’art. 485 c.c. assegna al chiamato possessore per la redazione, comunque, dell’inventario.

Assolutizzando le indicazioni del Collegio, in pratica, il chiamato in ogni ipotesi in cui non abbia precisa cognizione dello stato patrimoniale del defunto perderebbe la facoltà di rinunciare (a meno di non volerlo fare al buio) e si vedrebbe offerta dal sistema l’unica via dell’accettazione beneficiata che, pur in un’ottica di limitazione di responsabilità, implica “fatiche” e costi e nasconde sempre l’insidia della possibile decadenza dal beneficio.

Un simile modo di procedere sottende, tra l’altro, uno snaturamento della funzione stessa dell’istituto di cui agli artt. 484 ss. c.c., che non nasce per permettere al chiamato di informarsi sullo stato patrimoniale del de cuius, ma serve anzitutto per divenire successore del defunto, pur secondo una modalità che evita l’esposizione dell’erede ultra vires. Ogni accettazione di eredità, invero, in qualsiasi forma sia manifestata è già una determinazione positiva.

Con questo non si vuole negare che solo con la redazione dell’inventario si arrivi a ricostruire con precisione minuziosa il patrimonio del defunto, ma non si vede perché al chiamato, che si qualifichi come tale con un atto notorio o anche con una dichiarazione sostitutiva ai sensi del d.p.r. n. 445/2000, da cui emerga l’attualità della delazione (che la delazione debba essere attuale è implicito, cfr. Cass. n. 21616/2004), non possano essere comunque rese accessibili informazioni circostanziate che gli permettano di maturare con consapevolezza la determinazione circa la sorte della propria chiamata. Non è ancora un successore, ma non è nemmeno un quivis de populo: è un soggetto che ha un’aspettativa tutelata (Bonilini, op. cit., p. 97). La posizione del chiamato è, infatti, una posizione qualificata nell’assetto del codice vigente che ha voluto disciplinarne espressamente le prerogative, superando sotto tale profilo la scelta del codice del 1865 che parlava invece solo di erede (cfr. Natoli, voce Chiamato alla successione, in Enc. Dir., Milano, 1960, p. 919 s.).

3. Una conferma del fatto che naturaliter il chiamato dovrebbe avere accesso ad informazioni relative alla massa ereditariasi ha proprio se si guarda al ruolo che l’ordinamento gli assegna, quale emerge dal complesso della previsione dell’art. 460 c.c.

Si consideri anzitutto la legittimazione all’esercizio delle azioni possessorie.

È noto in merito il dibattito dottrinale sul punto se il chiamato sia da considerarsi possessore in senso proprio dei beni dell’asse, in virtù di un meccanismo che richiama ancora la saisine francese (così tra gli altri Ferri, Disposizioni generali sulle successioni, 3a ed., in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1997, p. 125, il quale sottolinea che la trasmissione avverrebbe ipso iure come per l’erede, indipendentemente dal fatto che vi sia stato un materiale impossessamento; cfr. anche Cass. n. 1741/2005), o se sia semplicemente legittimato all’esercizio delle azioni possessorie a prescindere dalla materiale apprensione dei beni dell’asse, come sembra potersi dedurre dal tenore letterale dell’art. 460, comma 1°, c.c., e dalla relazione al codice (Bonilini, op. cit., p. 98; e, in giurisprudenza, Cass. n. 3018/2005; Cass. n. 4991/2002; Cass. 11831/1992; v. anche Cass. n. 5747/1987). Quale delle due letture si voglia seguire, non cambiano comunque i risultati pratici (Calogero, Disposizioni generali sulle successioni, in Comm. Schlesinger diretto da Busnelli, Milano 2006, p. 187ss.): quel che è certo, infatti, è che al chiamato l’ordinamento affida il compito di difendere i beni dell’asse da spogli, turbative o molestie che altri dovesse esercitare.

E che il chiamato sia investito di una parte attiva nella conservazione delle prerogative successorie anche in capo agli altri soggetti coinvolti, siano essi a loro volta chiamati (nel caso di pluralità di chiamati tutti si devono intendere potenzialmente coinvolti nella gestione provvisoria: v. amplius Calogero, op. cit., p. 230 ss., ove si considera anche il caso in cui coesistano chiamati nel possesso e chiamati non nel possesso dei beni ereditari), legatari oppure creditori del de cuius, trova conferma anche nel secondo comma dell’art. 460 c.c., ove la previsione di poteri conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea ha indotto più di un autore in dottrina ad avvicinare addirittura la figura del delato a quella di un vero e proprio curatore dei beni ereditari (così Natoli, voce Chiamato alla successione, cit., p. 921; Calogero, op. cit., p. 197). L’eredità sarebbe, in questa prospettiva, sempre giacente nel tempo tra la delazione e l’accettazione, e l’amministrazione dell’asse spetterebbe al chiamato che si immettesse nel possesso “reale” dei beni o ad un curatore nominato ai sensi degli artt. 528 ss. c.c.

In ogni caso, anche chi non opta per l’assimilazione del chiamato ad un curatore, sulla base del fatto che il chiamato non ha propriamente un dovere di occuparsi delle cose ereditarie prima di accettare, ma se lo fa lo fa per scelta, richiama per la fattispecie la figura del negotiorum gestor, identificandolo così con un soggetto che spontaneamente inizia una gestione e poi è tenuto a proseguirla secondo le regole previste dagli artt. 2028 ss. c.c. (Ferri, op. cit., p. 137 ss., il quale specifica che la gestione di affari altrui emerge a rigore solo ex post, se e quando il chiamato rinunci all’eredità, perché prima il chiamato agisce nel proprio interesse, p. 148; sulla stessa linea anche sein una posizione che ravvisa in capo al chiamato un vero e proprio onere di attivarsi come amministratore, è il pensiero di Cicu, Successioni per causa di morte, Parte generale, 2a ed., Milano, 1961, p. 140; di negotiorum gestor parla anche Bonilini, op. cit., p. 98, il quale ritiene, tuttavia, che l’art. 460 c.c. avrebbe dovuto prevedere un obbligo del chiamato di attivarsi. Evidenziano che il chiamato potrebbe disinteressarsi dei beni ereditari anche se possessore e in tal caso si farà luogo alla nomina di un curatore speciale ex art. 486, Jannuzzi-Lorefice, La volontaria giurisdizione, 11a ed., Milano, 2006, p. 448).

In entrambe le prospettive descritte, il limite pratico all’attività gestoria del chiamato starà solo nell’art. 476 c.c. che regola l’accettazione tacita dell’eredità, collegandola al compimento da parte del delato di atti che non avrebbe diritto di fare se non nella qualità di erede (è questo il punto sul quale, in effetti, si concentra la maggior parte delle pronunce giurisprudenziali in materia– ex multis, Cass. n. 263/2013; Cass. n. 16002/2008; Cass. n. 16595/2005; Cass. n. 14081/2005; Cass. 10197/2000; Cass. n. 4756/1999; Cass. n. 11408/1998; Cass. n. 5463/1995; Cass. n. 7125/1993 – considerato che ciò costituisce un’indagine di fatto che va condotta dal giudice caso per caso «in considerazione delle peculiarità di ogni singola fattispecie, e tenendo conto di molteplici fattori, tra cui quelli della natura e dell’importanza, oltreché della finalità degli atti di gestione», Cass. n. 12753/1999).

D’altra parte, conferma testuale del fatto che il chiamato, comunque se ne voglia qualificare il ruolo, ha compiti e poteri quanto meno nella sostanza vicini a quelli di un curatore si trae agevolmente dall’ultimo comma dell’art. 460 c.c. ove si afferma che ciò che esclude per il chiamato l’esercizio dei poteri gestori è solo la nomina di un curatore per la giacenza dell’eredità ex art. 528 c.c. Ne discende, infatti, che le due figure, chiamato e curatore, sono collocate dal sistema in una posizione di alternatività secondo una logica che ne fa presumere l’equivalenza di compiti e di poteri, cosicché – per quello che qui interessa – se non c’è il curatore, gli stessi atti sembra possano legittimamente essere compiuti dal chiamato («fra i compiti del chiamato e quelli del curatore vi è alternatività e non sussidiarietà», Ferri, op.cit., 146). E questo vale sia per il chiamato che il codice vigente definisce nel possesso dei beni, sia per quello che non lo è, visto che l’art. 460 non distingue sul punto (v. Cicu, Successioni, cit., p. 138 e 145; Ferri, op. cit., p. 139; nulla sposta al riguardo il fatto che l’art. 528 c.c. preveda che la nomina del curatore per la giacenza dell’eredità si avvii nel solo caso in cui non vi sia un chiamato nel possesso dei beni, perché quest’ultima previsione risponde alla diversa e specifica ratio che se vi è un chiamato nel possesso dei beni la situazione è destinata a risolversi comunque nei tempi contenuti di cui all’art. 485 c.c. che renderebbero inopportuno l’avvio del procedimento per la giacenza dell’eredità).

Si aggiunga che la previsione dell’art. 461 c.c. circa il diritto al rimborso delle spese di gestione in capo al chiamato che poi rinuncia all’eredità, sottende implicito un obbligo di rendere il conto esattamente come dovrebbe fare un amministratore, anche se fosse nella veste spontanea e provvisoria del negotiorum gestor (così Ferri, Disposizioni generali sulle successioni, 3a ed., in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1997, p. 151; Bonilini, op. cit., p. 98).

Insomma, quanto detto sin qui porterebbe già di per sé ad affermare che, visto che ad un curatore formalmente investito dell’officium i conti bancari del de cuius sarebbero sicuramente accessibili, altrettanto dovrebbero esserlo per il delato, quale che sia la qualificazione che si voglia dare al suo ruolo. Una simile conclusione risulta avvalorata, tuttavia, anche da altri elementi che vale la pena di evidenziare.

4. Si considerino, nello specifico, i poteri conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea che per attribuzione testuale dell’art. 460, comma 2°, c.c. spettano al chiamato.

Il potere di vigilanza, in particolare, che in via logica dovrebbe precedere tutti gli altri in quanto finalizzato «ad accertare le cause di possibile pregiudizio dello stato giuridico e del valore economico del patrimonio ereditario» (Calogero, op. cit., p. 214; Jannuzzi-Lorefice, op. cit., p. 443), è volto con evidenza a conoscere ciò che si deve controllare, nella specie appunto l’asse ereditario. Ai fini della questione che qui interessa sembra poi significativo il fatto che tra gli atti che vengono annoverati in questa prospettiva nella disponibilità del chiamato, si trovino la verifica di registri, documenti o scritture contabili, ma anche il controllo sulla gestione dell’azienda caduta in successione (Calogero, op. cit., p. 214), che ricordano molto da vicino la richiesta di informazioni alla banca circa le operazioni poste in essere dal de cuius.

Passando all’attività conservativa, che viene definita come quella che tende «a proteggere la condizione giuridica e la sostanza dei singoli elementi che compongono il patrimonio ereditario, onde evitarne la dispersione e il deterioramento, ed assicurare così la realizzazione delle ragioni ereditarie» (Calogero, op. cit., p. 214), sorge spontaneo il dubbio su come si potrebbe giustificare se riferita ad un quid di cui non si abbia cognizione.

Si pensi al compimento di atti interruttivi della prescrizione o dell’usucapione, al sequestro conservativo di beni di debitori dell’eredità, alla trascrizione di atti di acquisto compiuti dal defunto, all’iscrizione o alla rinnovazione di ipoteche relative a diritti acquistati dal de cuius,comunemente menzionati come esempi a questo proposito (cfr. Ferri, op.cit., 142; Jannuzzi-Lorefice, op. cit., p. 444): si tratta con evidenza di atti che presuppongono, tutti, una conoscenza dello stato di fatto e di diritto dei beni ereditari.

In definitiva, si voglia ricondurre la raccolta di informazioni direttamente al potere di vigilanza o ritenerla presupposto implicito dell’attività conservativa, comunque si arriva alla conclusione che un diritto di informazione spetti al chiamato come tale.

Ancora, e a maggior ragione, un simile esito sembra valere in relazione alla previsione dei poteri di amministrazione temporanea che il secondo comma dell’art. 460 c.c. assegna al chiamato al fine precipuo di conservare l’integrità economica dell’asse (che gli atti di amministrazione temporanea siano volti a salvaguardare essenzialmente la capacità produttiva dei beni è opinione, in particolare, di Ferri, op.cit., 142).

Si pensi all’intimazione di licenza per finita locazione, o alle riparazioni ordinarie di cose ereditarie, o ancora al pagamento di debiti ereditari quando vi sia urgenza, che sono tra gli esempi comunemente addotti al riguardo (così Ferri, op.cit., 143), ma anche ad atti di straordinaria amministrazione ugualmente ammessi (cfr. Calogero, op. cit., p. 217 s.) e si rifletta su come potrebbero essere posti in essere dal chiamato che non avesse accesso ai documenti del de cuius.

Risulta allora in definitiva avvalorata la conclusione che il chiamato all’eredità abbia un diritto a ricevere informazioni sulla massa ereditaria.

5. Indici significativi nel senso ora descritto si possono comunque ricavare, a ben vedere, anche dall’art. 119, comma 4°, tub, a cui si è fatto cenno in premessa, che stabilisce che possano avere accesso alla documentazione bancaria (tanto più se si stratta di un duplicato di quanto a suo tempo già inviato al cliente, così Porzio, Testo unico bancario, Commentario a cura di Porzio et alii, Milano 2010, sub art. 119, p. 1003) oltre al cliente, il suo successore e chi subentra nell’amministrazione dei suoi beni.

Va detto che nessuna delucidazione utile ai nostri fini viene dalle Disposizioni della Banca d’Italia in tema di trasparenza e correttezza degli intermediari, le quali aggiungono semmai solo una precisazione riguardo ai costi (cfr. sez. IV, par. 4 , “Richiesta di documentazione su singole operazioni”). Nemmeno si rinvengono ad adiuvandum precedenti specifici tra le decisioni dell’ABF, che piuttosto hanno affrontato in materia il profilo oggettivo della consistenza dell’istanza ostensiva (ABF Roma, n. 528/2015; ABF Roma, n. 678/2915; ABF Milano, n. 882/2013), non senza un’impropria sovrapposizione tra la figura del chiamato e quella dell’erede (ABF Roma, n. 581/2015); e dal punto di vista soggettivo hanno trattato solo il caso della legittimazione del terzo garante (ABF Milano, n. 663/2013), dell’accollante (ABF Roma, n. 514/2013) e nella specifica materia successoria del legatario che, ai fini dell’art. 119, comma 4°, tub è stato equiparato all’erede (ABF Milano, n. 6632/2014).

Resta però il testo della norma, che appare abbastanza eloquente per i profili che qui interessano. Invero, se è evidente che il nostro chiamato, che è solo un successibile, non può essere tecnicamente considerato un successore del cliente, né tanto meno direttamente tale, non del tutto azzardata sembra essere la sua riconducibilità alla qualifica soggettiva di «colui che subentra nell’amministrazione dei suoi beni».

È ben vero che il tub si riferisce con questa espressione al curatore fallimentare e a figure assimilabili nelle altre procedure liquidative, e che proprio in quest’ottica, in ossequio agli orientamenti giurisprudenziali, la formulazione dell’art. 119, comma 4°, è stata modificata nel 1999 con il d. lgs. n. 342 (cfr. Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, p. 108; Mirone, Commento all’art. 119, in Commento al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia a cura di Costa, Torino, 2013, p. 1365; Urbani, sub art. 119, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia diretto da Capriglione, Padova, 2012, p. 1744). Nulla osta, tuttavia, a che nel campo applicativo della norma de qua possano essere fatti rientrare in via interpretativa anche altri soggetti, tra i quali appunto il chiamato all’eredità. Per quanto già detto, infatti, il delato ha poteri di amministrazione temporanea del patrimonio ereditario. La sua posizione è addirittura considerata alternativa a quella del curatore dell’eredità giacente, del cui ruolo di amministratore non si dubita. E, se rinuncia, ha l’obbligo di rendere il conto allo stesso modo in cui vi è tenuto un amministratore.

Da ultimo, quanto al profilo societario sfiorato dalla motivazione del Collegio, è pur vero che il rischio di responsabilità illimitata di cui all’art. 2462, comma 2°, c.c. sembra escluso nella fattispecie, ma resta sempre il fatto che per decidere della sorte della propria chiamata il delato dovrebbe poter conoscere non solo le risultanze del bilancio accessibili dal registro delle imprese, ma anche le eventuali operazioni di finanziamento dei soci che il de cuius, unico socio e amministratore delle s.r.l., potrebbe aver compiuto nel periodo che va dalla chiusura dell’ultimo bilancio alla data della morte del soggetto della cui successione si tratta.


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