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Dossier

Il c.d. contratto di risparmio edilizio: una forma di mutuo a risparmio?

A proposito di Abf Roma, n. 1741/2015

16 Luglio 2015

Ugo Minneci

 

ABF Roma, 6 marzo 2015, n. 1741 – Pres. De Carolis – Est. Marinaro

Contratto di risparmio edilizio – Richiesta del cliente di restituzione delle somme accumulate – Mancata retrocessione dell’importo versato a titolo di «diritto di stipula» – Illegittimità del comportamento della banca.

Con riferimento alla fattispecie del c.d. contratto di risparmio edilizio deve ritenersi nulla la clausola che prevede l’irripetibilità da parte del cliente (che voglia recedere dal rapporto prima di avere completato la fase di accumulo dei risparmi) dell’importo versato a titolo di «diritto di stipula».

***

1.- Negli ultimi anni l’offerta di prestiti per la casa annovera un prodotto innovativo (almeno per la tradizione del nostro Paese), che risponde al nome di «contratto di risparmio edilizio». Ad oggi collocato sul mercato da un unico operatore (appartenente a un gruppo bancario tedesco), il prodotto in questione risulta costruito intorno all’idea – molto diffusa in Germania – di offrire un mutuo in certa misura auto-finanziato: ovvero un mutuo alimentato almeno parzialmente dai risparmi (e dai correlativi interessi maturati medio tempore) che, prima della acquisizione del finanziamento, il beneficiario di quest’ultimo abbia depositato – sulla base di un piano finanziario originariamente concordato – presso il soggetto erogatore del prestito.

La peculiarità della figura appare dunque da ravvisare nella adozione di un meccanismo volto a subordinare la concessione di un finanziamento per l’acquisto e/o ristrutturazione di un immobile (nella normalità dei casi, quello da destinare ad abitazione) al previo accumulo, da parte dello stesso soggetto aspirante al prestito, di una provvista suscettibile di coprire una parte (più o meno) significativa dell’importo da ricevere a mutuo.

Ne consegue che il cliente non otterrà fin da subito il relativo numerario, ma, almeno per una prima tranche del rapporto, verrà a dare in favore della banca: corrispondendo una pluralità di versamenti, destinati a formare (unitamente agli interessi medio tempore riconosciuti sulle somme consegnate) un deposito tendenzialmente vincolato all’ottenimento di un prestito per l’acquisto di un immobile residenziale.

A segnare il secondo step della operazione sarà proprio la concessione di un finanziamento il cui ammontare sarà determinato sulla base di una formula matematica che tiene conto della entità delle somme depositate (maggiorate degli interessi medio tempore maturati) e della durata del periodo di accumulo, mentre gli altri elementi essenziali (durata e tasso di interessi) vengono normalmente fissati sin dalla sottoscrizione del prodotto. Naturalmente, il montante dei risparmi accumulati (al lordo degli interessi) andrà scomputato dall’importo da restituire.

Non è forse inopportuno aggiungere che il tipo di operazione appena descritto ha ricevuto una discreta accoglienza presso il pubblico italiano. In fondo, la mera constatazione che quella in commento appartiene a una schiera già folta di decisioni dell’ABF intervenute con riguardo a tale figura contrattuale[1] si presta a fornire una conferma del grado, tutt’altro che irrilevante, di diffusione della medesima.

2.- Non vi è dubbio che, a livello ricostruttivo, il punto più delicato della operazione in esame consista nella individuazione del rapporto esistente tra l’una e l’altra tranche in cui la stessa viene a suddividersi. Appare cioè preliminare ad ogni ulteriore approfondimento verificare se, una volta completata la prima fase, la realizzazione di quella successiva (ovvero l’erogazione del finanziamento) si collochi sul piano della semplice eventualità o della tendenziale necessità.

Vero è infatti che, ravvisando nella concessione del prestito una sorta di atto dovuto, sembrano sussistere le condizioni per ravvisare nel «contratto di risparmio edilizio» una tipologia negoziale complessa, che unifica due schemi contrattuali eterogenei (quello del deposito di denaro e quello del mutuo) attraverso la previsione dell’obbligo in capo alla banca di fare credito, allorquando l’esaurimento della fase del cumulo dei risparmi permetta di procedere alla concessione del finanziamento. In buona sostanza, si avrebbe a che fare con una realtà contrattuale nova, di per sé dotata di una identità autonoma e distinta rispetto a quella dei singoli pezzi che la compongono e rispetto alla quale il nomen più appropriato parrebbe quello di «mutuo a risparmio».

Per contro, a riconoscere nella erogazione del finanziamento una mera appendice ipotetica rimessa alla valutazione discrezionale della banca, verrebbero a mancare i presupposti per scorgere un prodotto complesso, dotato come tale di una propria autonomia concettuale rispetto ai singoli elementi che lo compongono: tutto esaurendosi in una forma di deposito, eventualmente integrata da un qualche incentivo promozionale in ordine a un ipotetico prestito, che, a proprio insindacabile giudizio, la banca dovesse venire a concedere in un tempo successivo.

3.- Per la verità, la modulistica contrattuale predisposta dalla banca con riguardo al c.d. contratto di risparmio edilizio risulta contenere indici semantici di segno incerto. Soprattutto nel c.d. Preambolo delle condizioni generali di contratto sembrano potersi rinvenire indicazioni in grado di avvalorare ora l’una ora l’altra ipotesi ricostruttiva.

Più precisamente, l’idea della esistenza in capo alla banca di un obbligo di fare credito appare trovare un solido sostegno nella affermazione per la quale al termine della fase di accumulo «il risparmiatore ha diritto ad una controprestazione in forma di mutuo edilizio a un tasso estremamente basso». In direzione opposta induce tuttavia ad orientarsi la successiva precisazione secondo cui la banca «metterà a disposizione del risparmiatore …, dopo valutazione della garanzia offerta e della solvibilità del risparmiatore, il mutuo».

In effetti, proprio quest’ultima sembra la linea interpretativa preferita dall’ABF, allorquando asserisce che la seconda fase della operazione sarebbe disegnata come meramente eventuale: la concessione del mutuo non formando oggetto di un diritto del cliente scaturente con la sottoscrizione del prodotto, ma restando «subordinata alal successiva verifica del ricorrere di tutta una serie di circostanze, per lo più relative alla valutazione del merito creditizio e delel garanzie di solvibilità del cliente».[2]

In realtà, proprio muovendo dal dato della ambiguità del testo contrattuale, sono rinvenibili valide ragioni per accogliere l’altra ricostruzione.

Anzitutto, non può farsi a meno di notare che, proprio con riferimento ai contratti standard, l’art. 1370 c.c. prevede che le clausole opache siano da interpretare a favore dell’aderente: e, da quest’angolo visuale, non vi è dubbio che la soluzione più vantaggiosa per quest’ultimo sia quella che configura la concessione del finanziamento come atto (tendenzialmente) dovuto.

A parte ciò, non va neppure trascurato che, come segnalato fin dall’inizio delle presenti note, il c.d. contratto di risparmio edilizio viene proposto alla clientela nell’ambito dell’offerta dei prestiti per la casa. Non a caso, nello stesso Preambolo si legge che l’operazione si atteggia come «forma di risparmio finalizzato alla concessione di un mutuo edilizio». Del resto, proprio l’interesse a conseguire tale finanziamento concreta il fattore propulsivo che induce il cliente a sottoscrivere il relativo contratto. Non è pertanto chi non veda come consentire alla banca di presentare come idoneo a soddisfare un bisogno di finanziamento (per la casa) un modello di operazione equiparabile nella realtà a un (più o meno sofisticato, ma pur sempre) deposito bancario finirebbe per dare spazio a una tipologia di condotta altamente decettiva, suscettibile non soltanto di violare il principio di «informazione chiara e comprensibile» (cfr. art. 5, comma 3 Cod. cons.), ma pure di integrare – in ragione della destinazione del prodotto al mercato – una pratica commerciale ingannevole (cfr. artt. 21 ss. Cod. cons.).

4.- E’ appena il caso di aggiungere che, anche a configurare l’erogazione del mutuo come atto dovuto, non ci si troverà di fronte a un tunnel senza via d’uscita. La desistenza dal concedere il finanziamento dovrà infatti ritenersi ammessa, allorché si riveli sorretta da una giusta causa. In effetti, è lo stesso art. 1822 c.c. a prevedere che l’impegnatività della promessa di mutuo possa venire meno allorquando «le condizioni patrimoniali dell’altro contraente siano divenute tali da rendere notevolmete difficile la restituzione».

Va da sé che la sopravvenienza di un così grave deterioramento del merito creditizio del cliente rispetto al tempo della sottoscrizione del contratto non potrà essere semplicemente alligata dalla banca, ma dovrà essere adeguatamente circostanziata dalla stessa.

Da quest’angolo visuale, può ben concedersi che, prima della erogazione del mutuo, l’intermediario creditizio esegua una valutazione aggiornata della capacità di rimborso dell’altro contraente. Solo che, per effetto della esistenza del vincolo di fare credito, tale successiva verifica non sarà più da ritenere insindacabile (come quella iniziale formulata nel tempo anteriore alla sottoscrizione del prodotto), ma potrà formare oggetto di controllo (anche) giudiziale: onde verificare l’effettiva sussistenza della asserita giusta causa sopravvenuta, ovvero la correttezza o meno del comportamento della banca che rifiuti l’erogazione del mutuo.

5.- Tornando alla decisione in commento, essa non offre particolari sprazzi di luce sulla configurazione strutturale del prodotto, limitandosi a toccare un aspetto secondario della operazione. Più precisamente, il tema controverso riguarda la legittimità della clausola che autorizza l’intermediario a non retrocedere l’importo versato a titolo di diritto di stipula, allorquando il cliente manifesti la volontà di recedere dal rapporto prima ancora di avere terminato la fase di accumulo.

Uniformandosi a un orientamento dell’ABF ormai consolidato, anche la decisione in commento dichiara l’illegittimità della suddetta clausola, argomentando inter alia che il relativo pagamento sarebbe privo di causa petendi.

La soluzione appare coerente con la ricostruzione della operazione nei termini di un deposito bancario. In effetti, muovendo da tale inquadramento, si fatica a trovare una ragione plausibile per la quale la banca non debba restituire al cliente l’intero tantundem versato (eventualmente maggiorato degli interessi medio tempore maturati), una volta accordato contrattualmente il diritto di recesso.

Le cose sono destinate a mutare nel momento in cui si dovesse ravvisare il fulcro dell’affare nell’obbligo ex conctractu di fare credito. Ad accogliere la suddetta impostazione, la necessità di una istruttoria pre-contrattuale sul merito creditizio del potenziale cliente si presenterebbe inevitabile e quindi vi sarebbe margine per ravvisare lo svolgimento da parte dell’intermediario di una prestazione suscettibile di giustificare il c.d. diritto di stipula.



[1] Senza pretesa di completezza, cfr. ABF Roma, 25 febbraio 2015, n. 1416; ABF Milano, 15 ottobre 2014, n. 6760; ABF Roma, 19 settembre 2014, n. 6120; ABF Milano, 30 luglio 2014, n. 4944; ABF Roma, 28 luglio 2014, n. 4836.

[2] Così ABF Roma, 28 luglio 2014, n. 4836.


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