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Approfondimenti

La cessione dei crediti nei piani di risanamento. Aspetti fiscali

4 Marzo 2014

Giulio Andreani, Professore di diritto tributario alla Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze di Roma, Dottore Commercialista

1. Premessa

Il piano di risanamento di una società che versa in uno stato di crisi finanziaria (di seguito denominata, per semplicità, “ALFA S.R.L.”), oltre alla rinegoziazione delle scadenze e dei tassi di interesse dei prestiti a questa accordati, può prevedere il compimento degli atti di seguito riportati:

  1. le banche creditrici cedono a una “Newco” i crediti verso “ALFA S.R.L.” aventi un valore nominale significativamente superiore al prezzo di cessione, generalmente determinato in misura simbolica (per esempio, pari a un euro). In alcuni casi è prevista una clausola “earn out”, per effetto della quale il prezzo di cessione dei crediti è rettificato in aumento al verificarsi di determinate condizioni collegate ai risultati economici conseguiti in futuro dalla società debitrice;
  2. gli attuali soci di “ALFA S.R.L.” cedono a “Newco”, al prezzo di un euro, anche la partecipazione totalitaria nella società “ALFA S.R.L.”, avente un valore nullo;
  3. “Newco”, successivamente all’acquisto del credito e all’assunzione della qualità di socio unico di “ALFA S.R.L.”, rinuncia integralmente al credito verso la società partecipata.

Ciò premesso, appare interessante esaminare i riflessi fiscali discendenti dalcompimento di tali atti, anche alla luce delle disposizioni antielusive.

2. La disciplina fiscale della perdita generata dalla cessione dei crediti

La prima questione concerne il trattamento fiscale da riservare alla perdita conseguita dalle banche creditrici per effetto della cessione dei crediti a “Newco, il quale, a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013, è divenuto più aderente al relativo assetto contabile in virtù delle modifiche apportate dalla L. n.147 del 27 dicembre 2013 (“Legge di Stabilità 2014”).

2.1. Il trattamento contabile delle perdite su crediti per le banche

In base allo IAS 39 i crediti possono essere soggetti ad una valutazione operata per singole posizioni creditorie (“valutazione analitica”) e/o per categorie omogenee (“valutazione per masse”).

Di regola, la svalutazione per masse (anche detta “di portafoglio”) è utilizzata in ordine ai crediti per i quali non si sono manifestati particolari problemi di esigibilità e ai crediti scaduti da meno di un certo periodo di tempo; le svalutazioni analitiche (anche dette “specifiche”) riguardano i “crediti incagliati” (vale a dire i crediti verso soggetti in temporanea situazione di difficoltà, il cui incasso richiede un maggior periodo di tempo rispetto a quanto preventivato) e i “crediti in sofferenza”, vantati verso soggetti in conclamato stato di insolvenza (quali – per esempio – i crediti verso imprese assoggettate a procedure concorsuali).

Per quanto concerne la classificazione in bilancio, i crediti del settore bancario italiano sono di regola iscritti nella categoria “L&R” (“loans and receivables”), che rappresenta la loro classificazione naturale1.

Secondo le istruzioni fornite dalla Banca d’Italia con i provvedimenti 22 dicembre 2005 e 14 febbraio 2006 (oggetto di successivi aggiornamenti), le svalutazioni e le riprese di valore (o rivalutazioni) relative ai crediti iscritti nella categoria “L&R” sono contabilizzate nella voce “130.a)” del conto economico (“rettifiche/riprese di valore nette per deterioramento di crediti”). Nella nota integrativa, la suddetta voce “130.a)” va distinta tra “rettifiche di valore di portafoglio e “rettifiche di valore specifiche, mentre le svalutazioni specifiche vanno altresì ivi suddivise nelle sottovoci “cancellazioni” e “altre”. La sottovoce “cancellazioni” riguarda le rettifiche di valore operate in dipendenza di eventi estintivi del diritto di credito, che ne determinano la cancellazione dalle scritture contabili.

Gli utili o le perdite su crediti derivanti dal trasferimento a terzi di tutti i rischi e benefici sui relativi flussi finanziari, invece, vanno rilevati nella voce “100.a)” del conto economico (“Utili/perdite da cessione o riacquisto di crediti”).

In proposito occorre ricordare che il par. 17 dello IAS 39 impone la cancellazione del credito (“derecognition”):

  1. quando i diritti contrattuali sui flussi finanziari da esso derivanti vengono meno, vale a dire quando l’obbligazione si estingue giuridicamente (come accade in caso di regolare adempimento da parte del debitore, prescrizione, remissione, transazione, conversione di crediti in partecipazioni);
  2. in caso di trasferimento (sostanziale) di tutti i rischi e i benefici sui relativi flussi finanziari, a prescindere, quindi, dal trasferimento giuridico-formale del credito.

Non deve invece essere effettuata alcuna cancellazione in caso di trasferimento giuridico del credito cui non consegua il trasferimento (sostanziale) dei relativi rischi e benefici in capo al cedente, dovendo i crediti continuare ad essere rilevati nell’attivo dello stato patrimoniale del cedente (c.d.continuing involvement”).

2.2. Il trattamento fiscale delle perdite su crediti per le banche

Fino al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2012, per gli enti creditizi e finanziari il trattamento fiscale delle perdite su crediti era fondato – al pari di quanto previsto per la generalità delle imprese – sulla nota distinzione tra perdite su crediti da realizzo e perdite da valutazione. Le perdite da realizzo e quelle da valutazione, in presenza di elementi certi e precisi, erano deducibili per intero nell’esercizio di manifestazione (art. 101 del T.U.I.R. previgente); le svalutazioni non risultanti da elementi certi e precisi, invece, erano deducibili nell’esercizio di contabilizzazione per un ammontare non superiore allo 0,30% del “monte crediti”, mentre l’eccedenza era deducibile nei diciotto esercizi successivi in quote costanti (art. 106, commi 3 e ss., del T.U.I.R.)2.

La deduzione delle svalutazioni in diciotto (o nove) anni, in un contesto economico caratterizzato da una fase di persistente credit crunchrisultava oltre modo penalizzante per gli istituti bancari rispetto alla concorrenza internazionale, tanto che il Fondo Monetario Internazionale, con il “Global Financial Stability Report”, aveva sollecitato il governo italiano ad adottare misure dirette a favorire una più rapida deduzione di detti componenti negativi di reddito, anche nell’ottica di agevolare i processi di ristrutturazione del debito.

Inoltre, questo assetto normativo aveva originato un significativo contenzioso, in quanto – come detto – lo schema legale di conto economico delle banche contempla la (diversa) distinzione tra perdite su crediti da cessione (voce 100) e altre perdite su crediti o rettifiche di valore (voce 130), rendendo necessario ripartire l’importo iscritto nella voce 130.a) secondo la suddivisione valevole agli effetti fiscali.

Il regime tributario delle perdite su crediti (da realizzo e da valutazione) per le banche è stato dunque modificato a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013, con la L. n. 147/2013 mediante la riformulazione del comma 3 e l’abrogazione dei commi 3-bis, 4 e 5 dell’art. 106 del T.U.I.R. Inoltre, dall’ambito applicativo del comma 5 dell’art. 101 sono state escluse le perdite su crediti verso la clientela maturate dagli istituti di credito, in quanto appositamente disciplinate dal nuovo comma 3 dell’art. 1063.

Per i predetti soggetti, la norma da ultimo citata attualmente dispone che:

  1. le perdite su crediti realizzate mediante cessione a titolo oneroso sono deducibili integralmente nell’esercizio in cui sono rilevate in bilancio;
  2. le svalutazioni e le perdite su crediti verso la clientela, diverse da quelle realizzate mediante cessione a titolo oneroso, sono deducibili in quote costanti nell’esercizio in cui sono contabilizzate e nei quattro successivi.Tali componenti negativi si assumono al netto delle rivalutazioni dei crediti risultanti in bilancio.

Per effetto della Legge di Stabilità 2014, quindi, il regime fiscale distingue unicamente tra perdite su crediti da cessione (categoria sub a) e rettifiche/riprese di valore (categoria sub b), al pari di quanto prevede la legislazione civilistica con riguardo al bilancio. Inoltre, in sede di determinazione del reddito d’impresa imponibile ai fini dell’Ires tali componenti negativi assumono rilevanza secondo lo stesso importo iscritto in bilancio ed a prescindere dalla sussistenza di elementi certi e precisi.

Il nuovo regime fiscale risulta, dunque, di più facile applicazione rispetto a quello previgente (in quanto aderente all’impostazione contabile), non richiedendo la “scomposizione” dei valori iscritti nella voce “130.a)”, né il calcolo del “monte crediti” (cui era collegato il quantum delle svalutazioni immediatamente deducibile).

Tuttavia, dal 2013 le perdite per inesigibilità, relative a crediti verso clienti assoggettati a una procedura concorsuale non sono più deducibili integralmente nell’esercizio nel corso del quale tale procedura è aperta, ma nell’esercizio in cui la perdita è rilevata e nei quattro successivi (in quote costanti), al pari di quanto previsto per le altre perdite da valutazione. Lo stesso vale per le perdite su crediti verso clienti che hanno stipulato un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.f. ovvero per le perdite da valutazione risultanti da elementi certi e precisi

Con la L. n. 147/2013 nulla è cambiato per le perdite realizzate in dipendenza del trasferimento a terzi di tutti i rischi e benefici connessi al credito, restando ferma la loro deduzione integrale nell’esercizio di realizzo a prescindere dalla sussistenza di elementi certi e precisi, benché tali perdite siano oggi più disciplinate dal comma 3 dell’art.106. Il secondo periodo del citato comma 3, infatti, stabilisce espressamente che “le perdite su crediti realizzate mediante cessione a titolo oneroso sono deducibili integralmente nell’esercizio in cui sono rilevate in bilancio”.

La sussistenza di elementi certi e precisi non è richiesta neppure per la deduzione delle “altre perdite su crediti” e delle svalutazioni dei crediti, il cui trattamento è stato in toto equiparato, dovendo entrambi i relativi importi (iscritti nella voce 130 del conto economico) essere dedotti nell’esercizio in cui sono contabilizzati e nei quattro successivi in quote costanti (vale a dire per quinti).

Ad essere mutata è, quindi, la disciplina fiscale delle perdite su crediti rilevate in dipendenza degli altri eventi estintivi di cui alla lett. a) del par. 17 del IAS 39, comportanti l’estinzione dell’obbligazione giuridica del credito (la prescrizione, la rinuncia o la riduzione del debito prevista nell’ambito di accordi di natura transattiva), nel senso che esse sono deducibili in quote costanti in tale esercizio e nei quattro successivi, al pari di quanto previsto per le perdite da valutazione.

Con l’entrata in vigore della Legge di Stabilità 2014, quindi, la distinzione tra “perdite su crediti realizzate mediante cessione a titolo oneroso” e “altre perdite su crediti da cancellazione” assume rilevanza solo ai fini delle regole di imputazione a periodo (essendo le prime deducibili integralmente nell’esercizio in cui interviene il trasferimento).

Invero, il riferimento all’onerosità della cessione appare chiaramente volto ad escludere (dalla deduzione immediata) le perdite derivanti da trasferimenti effettuati a titolo di mera liberalità. Occorre tuttavia chiedersi se a tal fine possano considerarsi onerosi anche i trasferimenti effettuati a titolo gratuito ma privi di un animus donandi, in quanto diretti a perseguire un interesse patrimoniale apprezzabile, attraverso una forma diversa dal corrispettivo vero e proprio. Questa problematica si pone, in particolare, con riferimento alle cessioni dei crediti operate a fronte della pattuizione del prezzo simbolico (“numno uno”), in considerazione della totale inesigibilità del credito, come può accadere nell’ambito di accordi di ristrutturazione del debito.

Ad avviso di chi scrive, stante il principio di derivazione “rafforzata” sancito dall’art. 83 del T.U.I.R., con riguardo alle banche IAS adopter occorre rispondere a questo quesito proprio alla luce delle prescrizioni dei principi contabili internazionali, nel senso che il carattere oneroso o meno del trasferimento del credito a terzi deve essere individuato in forza delle regole IAS compliant e, quindi, sulla base del principio della prevalenza della sostanza sulla forma.

Ne discende che, dall’applicazione di tale principio, la cessione operata ad un prezzo simbolico va qualificata (tanto ai fini del bilancio quanto ai fini fiscali) come una remissione del debito, allorché l’istituto di credito non abbia alcun interesse o convenienza economica ad adire le vie legali per ottenere la soddisfazione del credito, mentre a diversa conclusione si deve invece pervenire qualora la cessione del credito a un prezzo simbolico sia giustificata da un interesse concreto della banca, apprezzabile sotto il profilo economico, che – per esempio – potrebbe consistere nel consentire la normale prosecuzione dell’attività economica da parte del debitore e favorire così il rimborso degli altri crediti vantati dalla banca verso la stessa e non trasferiti a terzi. In quest’ultimo caso, infatti, la cessione sarebbe diretta a conseguire un vantaggio patrimoniale (ancorché indiretto), sicché essa dovrebbe essere iscritta nella voce “100.a)” del conto economico e, di conseguenza, essere integralmente dedotta nell’esercizio in cui è rilevata.

Alla luce di quanto sopra, la perdita derivante dal trasferimento (sostanziale) di tutti i rischi e benefici connessa a crediti oggetto di cessione da parte degli istituti di credito costituiscono un componente negativo deducibile per questi, sia in virtù del regime fiscale previgente all’entrata in vigore della Legge di Stabilità 2014, sia sulla base del regime vigente.

3. Il trattamento fiscale della remissione del debito

La “insussistenza di passivo” che si genera in capo ad “ALFA S.R.L.” per effetto della rinuncia del creditore all’incasso dei relativi crediti non assume rilevanza fiscale ai sensi dell’art. 88 (ex 55), comma 4, del T.U.I.R., quando tale rinuncia ha ad oggetto crediti vantati dai soci della stessa società debitrice.

Con riguardo al caso in esame, occorre però chiedersi se la suddetta esclusione operi:

  • anche nel caso in cui la qualità di socio sia acquisita contestualmente alla titolarità del credito oppure se essa debba necessariamente preesistere all’insorgenza del credito oggetto di rinuncia;
  • limitatamente al valore fiscale del credito rinunciato oppure sulla base dell’integrale valore nominale dello stesso.

3.1. L’assunzione della qualità di socio successivamente alla maturazione del credito

Poiché la norma de qua stabilisce che “non si considerano sopravvenienze attive … le rinunce dei soci ai crediti”, senza prevedere alcuna limitazione o condizione, prima facie dovrebbe concludersi che la rinuncia del credito da parte del socio è fiscalmente irrilevante anche nel caso in cui la qualità di socio sia assunta contestualmente all’acquisizione del credito. Val la pena tuttavia verificare se tale conclusione sia conforme, oltre che alla lettera, anche alla ratio della norma in esame.

In proposito, la natura (reddituale o meramente patrimoniale) delle rinunce ai crediti da parte dei soci è apparsa per lungo tempo questione controversa, atteso che una parte della dottrina4 e della giurisprudenza5 ha rinvenuto il sorgere, in tali casi, di sopravvenienze attive sotto il profilo economico-contabile. Con la sentenza n. 11461 del 6 settembre 2001, per esempio, la Corte di Cassazione ha testualmente affermato quanto segue: “L’eccezione prevista dal predetto quarto comma dell'art. 55, per le erogazioni a fondo perduto od in conto capitale, risponde all'esigenza di escludere dal reddito tassabile gli esborsi dei soci che abbiano sostanziale natura di conferimenti; senza tale previsione, le relative erogazioni non potrebbero non essere comprese nell'imponibile, in ragione della loro obiettiva consistenza di sopravvenienze attive”. Se ai suddetti versamenti e rinunce fosse attribuibile natura di sopravvenienze attive sotto il profilo economico-contabile, l’esclusione prevista dall’art. 55 (ora 88) acquisirebbe necessariamente carattere esentativo-agevolativo.

Tuttavia, è giustamente pervenuta a una conclusione differente la dottrina che colloca le rinunce dei soci ai crediti nella categoria dei cosiddetti “conferimenti atipici” (di cui fanno parte i versamenti in denaro effettuati senza vincolo di restituzione, usualmente denominati “versamenti in conto capitale o a fondo perduto”), trattandosi di apporti non eseguiti a titolo di sottoscrizione del capitale sociale. Stando così le cose, alla norma in esame non può che essere attribuito un carattere meramente esplicativo-ricognitivo, in quanto avente la funzione di espungere dalla nozione fiscale di sopravvenienza attiva “ciò che già non dovrebbe esservi ricompreso sulla scorta e alla luce dei principi generali cui è improntata la vigente disciplina dell’imposizione diretta6. In tal senso si espresse, per esempio, anche la Corte di Cassazione con la sentenza n. 3253 dell’8 giugno 1979, rilevando che con l’esclusione sancita nel comma 4 dell’art. 55 (ora 88) il legislatore fiscale avrebbe preso atto del fatto che le rinunce ai crediti da parte del socio (e/o i versamenti da questi effettuati senza vincolo di restituzione) costituiscono apporti di capitale ulteriori rispetto a quelli già erogati a titolo di capitale sociale, effettuati in ragione dello status di socio del creditore e, quindi, del rapporto partecipativo intercorrente con la società debitrice7.

Probabilmente, proprio la non pacifica qualificazione economico-contabile della rinuncia al credito da parte del socio indusse il legislatore fiscale a prevedere espressamente (prima con l’art. 55, comma 3, del D.P.R. n. 597 del 1973 e poi con l’art. 55, comma 4, del T.U.I.R.) l’irrilevanza reddituale delle rinunce al credito da parte dei soci, allo scopo di salvaguardare l’integrità dell’apporto di capitale e di scongiurare qualsiasi rischio di assoggettamento dello stesso a imposizione, che avrebbe ridotto l’ammontare della patrimonializzazione.

Nel perseguire tale scopo, tuttavia, erano state inizialmente adottate alcune cautele, rivelatesi poi del tutto ingiustificate.

Infatti, originariamente, l’art. 55, comma 3, del D.P.R. n. 597 del 1973 escludeva dalla nozione di sopravvenienze attive fiscalmente rilevanti solo le rinunce dei soci ai crediti (i) derivanti da precedenti finanziamenti, (ii) fatte in proporzione alle rispettive quote di partecipazione. Come evidenziato nella relazione governativa di accompagnamento alla bozza di testo unico delle imposte sui redditi, la limitazione prevista nel D.P.R. 597/1973 oltre a provocare evidenti difficoltà di carattere pratico, sembrò non “rispondere a ragioni logiche né ad apprezzabili esigenze economiche societarie. La proporzionalità non è indice del carattere non necessitato ma volontario (e quindi “liberale”) del versamento”. Con l’emanazione del T.U.I.R. dall’art. 55, comma 4, del T.U.I.R. fu eliminato il riferimento alla misura proporzionale della rinuncia, mentre rimase la previsione di un differente trattamento fiscale delle rinunce dei soci alla restituzione di prestiti precedentemente erogati, rispetto a quelle aventi ad oggetto altre fattispecie (quali, per esempio, la rinuncia a crediti commerciali), nel presupposto (errato)8 che la mancata tassazione della sopravvenienza attiva derivante dalla rinuncia a crediti non originati da precedenti finanziamenti avrebbe generato un duplice beneficio per la società debitrice, posto che questa aveva presumibilmente già usufruito della deduzione dei costi dei beni e servizi cui si riferiva il debito rimesso.

In occasione della conversione in legge del D.L. n. 537 del 30 dicembre 1993, il legislatore fiscale scelse infine di escludere senza eccezioni la rinuncia al credito dalla nozione fiscale di sopravvenienza attiva, se questa è effettuata da un socio. Infatti, come chiarito nella relazione ministeriale al suddetto decreto, posto che l’esclusione da imposizione della rinuncia al credito operata del socio trova causa nel vincolo sociale sussistente tra questi e la società debitrice, essa va riconosciuta indipendentemente dalla natura (commerciale o finanziaria) del credito oggetto di rinuncia9.

Sul fatto che è lo status di socio a privare di rilevanza fiscale un atto (la rinuncia al credito) che ordinariamente darebbe invece luogo ad una insussistenza di passivo, concorda la stessa Agenzia delle Entrate, la quale, con le risoluzioni 41/E del 5 aprile 2001 e del 22 maggio 2002 (aventi entrambi ad oggetto il trattamento fiscale della rinuncia ad un credito acquisito dal creditore contestualmente alle partecipazioni nella società debitrice), ha rilevato quanto segue:

  • la detassazione prevista dall’art. 55, comma 4, del T.U.I.R. “si giustifica in via sistematica, in virtù della cointeressenza del socio – creditore alle vicende della società partecipata” (ris. n. 41/E/2001);
  • la rinuncia del socio al credito “non deve concorrere al reddito in quanto trova causa non nello spirito di liberalità o nella “remissione” di un debito da parte di un terzo, bensì nella volontà di un socio di patrimonializzare la partecipata” (ris. n. 152/E/2002), non potendo essere equiparato a un normale soggetto terzo il creditore che riveste la qualifica di socio della società debitrice.

Ne consegue che l’irrilevanza reddituale della rinuncia al credito operata dal socio deve ricorrere ogniqualvolta il creditore, all’atto della stessa, rivesta la qualità di socio e, quindi, anche nel caso in cui il credito oggetto di rinuncia sia maturato anteriormente al rapporto partecipativo ovvero sia stato acquisito dal socio a titolo derivativo10. È infatti lo status di socio a qualificare, di per sé, come apporto di capitale un atto che, in assenza di vincolo sociale, sarebbe inquadrabile come mero atto di liberalità da parte di un terzo, rendendo irrilevanti in proposito non solo la natura (commerciale o finanziaria) del credito oggetto di rinuncia, ma anche le modalità di acquisizione (a titolo originario o derivativo) del credito e la preesistenza o meno della qualità di socio rispetto al momento di origine del credito.

Come riconosciuto dall’Agenzia delle Entrate con i provvedimenti sopra citati, dunque, la lettera e la ratio dell’art. 88, comma 4, del T.U.I.R. sono rispettati anche quando il credito oggetto di rinuncia è stato acquistato contestualmente all’acquisizione delle partecipazioni nella società debitrice, costituendo condizione necessaria e sufficiente, per qualificare tale rinuncia come apporto di capitale, che lo status di socio sia sussistente al momento della sua manifestazione (sempreché, naturalmente, esso sia reale).

3.2. La misura della detassazione

L’altra tematica da approfondire con riguardo al caso di specie concerne la misura della esclusione da imposizione disposta dall’art. 88, comma 4, ovverosia se il suo ammontare debba corrispondere all’intero valore del debito portato ad incremento del patrimonio netto contabile dalla società debitrice ovvero al valore fiscale del credito oggetto di rinuncia, costituito, in caso di acquisto del credito, dal relativo costo, generalmente inferiore al valore nominale.

Sotto questo profilo la norma non prevede alcuna limitazione ed è chiaramente diretta alla determinazione del reddito d’impresa imponibile dell’impresa che beneficia della riduzione dei propri debiti (ovverosia della società debitrice); pertanto, appare intuitivo riferire l’esclusione da imposizione all’ammontare del debito venuto meno in capo a quest’ultima a seguito della rinuncia da parte del socio, rilevando, dunque, il valore nominale del debito estinto a prescindere dal valore fiscale del credito in capo al remittente. Infatti, se la misura della detassazione della remissione del debito in capo alla società debitrice fosse correlata all’importo fiscalmente rilevante del credito oggetto di rinuncia, la differenza tra il valore nominale del debito rimesso e il valore fiscale del credito oggetto di rinuncia finirebbe per concorrere alla formazione del reddito d’impresa della società partecipata, pur avendo natura di apporto di capitale, generando una conseguente “erosione fiscale” dell’incremento del patrimonio netto discendente dalla rinuncia; ciò in evidente contrasto con lo scopo dell’art. 88, comma 4, del T.U.I.R, che – come evidenziato anche nella circolare n. 70/E del 24 maggio 2000 – consiste nel salvaguardare l’integrità dell’apporto di capitale, volendosi proprio evitarne la riduzione per effetto dell’imposizione sui redditi.

Del resto, la rinuncia al credito da parte del socio non produce effetti reddituali né per il debitore né per il creditore, poiché, ai sensi dell’art. 101, comma 7, del T.U.I.R., l’ammontare dei crediti vantati nei confronti della società partecipata (così come quello dei versamenti a quest’ultima erogati senza vincolo di restituzione) si aggiunge al costo delle partecipazioni già detenute, incrementandone il valore fiscalmente riconosciuto. Anche in questo caso merita peraltro indagare se, essendo speculare la disciplina, sussista una qualche interrelazione tra l’importo della riduzione del debito fiscalmente irrilevante e il valore fiscale del credito rinunciato.

In merito occorre rammentare che, prima di giungere all’indicato assetto normativo, l’ordinamento tributario previgente prevedeva in realtà un trattamento fiscale non speculare. Infatti, con riferimento all’impresa creditrice (socia della società debitrice), le remissioni di debiti effettuate a copertura di perdite, per la parte eccedente il patrimonio netto contabile della società partecipata quale risultante dopo la copertura (cosiddetti “versamenti sottozero”), costituivano costi d’esercizio deducibili in sede di determinazione del reddito d’impresa imponibile già in vigenza del D.P.R. n. 597 del 1973 (sub art. 64) e fino alla riforma del T.U.I.R. recata dal D.Lgs. n. 344 del 12 dicembre 2003; ciò ancorché tali costi conseguissero a rinunce considerate totalmente prive di rilevanza fiscale in capo alla società debitrice ai sensi del succitato art. 55, comma 4, del T.U.I.R. previgente11.

In secondo luogo, la sostanziale specularità, tra il trattamento fiscale da riservare alla cancellazione del debito in capo alla società debitrice e quello cui è assoggettata la cancellazione del credito in capo alla società socia, discende dalla natura meramente patrimoniale della rinuncia al credito da parte del socio, rientrante tra i “conferimenti atipici”. In altri termini, la detassazione della riduzione dei debiti dell’impresa verso il socio creditore non è la conseguenza della indeducibilità della relativa perdita subita da quest’ultimo né è subordinata a detta circostanza, ma è semplicemente dovuta al fatto che tale evento integra un semplice apporto di capitale.

Per questo motivo l’Agenzia delle Entrate, con la citata risoluzione n. 152/E/2002 avente ad oggetto la rinuncia al credito da parte di un socio estero di una partecipata italiana, ha riconosciuto che la detassazione disposta dall’art. 55, comma 4, del T.U.I.R. spetta a quest’ultima a prescindere dal trattamento fiscale che l'ordinamento dello Stato estero riserva a tale onere. Del resto, “nell'ipotesi inversa in cui fosse il socio italiano a rinunciare ad un credito vantato nei confronti della sua controllata estera, si applicherebbe l'art. 61, comma 5 del TUIR (incremento del costo della partecipazione) indipendentemente dal fatto che la sopravvenienza attiva realizzata dalla controllata sia o meno fiscalmente rilevante nello Stato estero”.

La risoluzione succitata costituisce diretta conferma che, ai fini dell’applicazione dell’art. 88, comma 4, del T.U.I.R. in capo ad “ALFA S.R.L.”, non assume in concreto alcuna rilevanza la posizione del creditore12; non costituisce quindi espressione di incoerenza sistematica il fatto che non la abbia nemmeno il valore fiscale del credito oggetto di remissione13.

4. Iriflessi fiscali in capo al socio/creditore (“Newco”)

L’art. 101, comma 7, del T.U.I.R. impone – come detto – di portare ad incremento del valore fiscale della partecipazione nella società debitrice il valore fiscale del credito rinunciato (e non il valore nominale dello stesso, pari nel caso di specie a un milione di euro); pertanto per effetto della rinuncia il valore fiscale di tale partecipazione non subisce alcun incremento sostanziale. Questo assetto implica che, in caso di successiva alienazione della stessa, emerge una maggiore plusvalenza o una minore minusvalenza rispetto a quella che sorgerebbe qualora l’incremento del valore fiscale della partecipazione corrispondesse al valore nominale del credito. Tale conseguenza è perfettamente coerente con (e sistematica rispetto al) la disciplina sopra delineata.

Il fatto che il valore fiscale della partecipazione rimanga immutato, però, non si traduce necessariamente in uno svantaggio fiscale per la “Newco, stante il regime di esenzione (cosiddetta “participation exemption”) introdotto nell’ordinamento delle imposte sui redditi dal D.Lgs. n. 344/2003. Per effetto di detto regime, infatti, in caso di successiva alienazione della stessa si ha che:

  1. l’eventuale plusvalenza è fiscalmente irrilevante per il 95% del suo ammontare, se la partecipazione ceduta possiede tutti e quattro i requisiti previsti dall’art. 87, comma 1, del T.U.I.R.14;
  2. l’eventuale plusvalenza concorre per intero alla formazione del reddito d’impresa del socio alienante, se non ricorrono i requisiti richiesti dalla disposizione da ultimo menzionata.

Nel caso sub b), dunque, il mancato incremento del valore fiscale della partecipazione comporta, sotto il profilo tributario, uno svantaggio per il socio/creditore all’atto dell’alienazione della partecipazione.

Ciò posto, appare opportuno confrontare tali effetti con quelli che discenderebbero dall’incasso del credito vantato verso la società partecipata, previa costituzione presso la stessa – sotto forma di “versamento a fondo perduto” – delle disponibilità finanziarie necessarie per il soddisfacimento del credito. Questa diversa modalità di operare, infatti, è considerata sostanzialmente equivalente alla rinuncia al credito, determinando il medesimo effetto sotto il profilo patrimoniale15, benché i relativi aspetti giuridici e finanziari divergano sensibilmente.

In questa seconda ipotesi, i riflessi fiscali per Newco sarebbero i seguenti:

  1. la differenza tra l’importo incassato del credito e il valore fiscale dello stesso darebbe luogo a una sopravvenienza attiva imponibile ai sensi dell’art. 88, comma 1, del T.U.I.R.;
  2. l’apporto di capitale concorrerebbe per intero ad incrementare il valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione.

Gli effetti fiscali discendenti dall’effettuazione di un apporto di capitale a favore di “ALFA S.R.L.” (società partecipata) e dall’utilizzo delle relative disponibilità finanziarie, dunque, sono apprezzabilmente diversi rispetto a quelli derivanti dalla mera rinuncia al credito, perché, a differenza di quanto accade con la rinuncia, il socio/creditore conseguirebbe:

  • una sopravvenienza attiva imponibile pari all’importo incassato;
  • una minore plusvalenza imponibile in caso di successiva alienazione della partecipazione, sia se ricorre il regime di esenzione, sia (soprattutto) in caso contrario, oppure una minusvalenza deducibile (se nonopera il regime di esenzione).

La rinuncia al credito, dunque, non costituisce sempre la modalità fiscalmente meno onerosa rispetto all’alternativa modalità di apporto qui prospettata, giacché la mancata emersione della sopravvenienza attiva è bilanciata dal mancato incremento del valore fiscale della partecipazione nella società debitrice, il che potrebbe costituire un aspetto fiscalmente penalizzante, ancorché non nel caso di fruibilità del regime della “pex”. Inoltre, nella fattispecie in esame la rinuncia al credito è operata al fine di dare copertura alle perdite di bilancio maturate, sicché la plusvalenza eventualmente conseguita in caso di successiva alienazione della partecipazione nella stessa non potrebbe certo trovare causa nella suddetta rinuncia, bensì nella ritrovata capacità di generare profitti.

Ad ogni modo, il diverso assetto sopra delineato non è ascrivibile alla detassazione disposta dall’art. 88, comma 4, ma al fatto che, in caso di acquisto da parte del socio di un credito verso la partecipata, la medesima operazione (vale a dire la successiva rinuncia al credito) determina, da un lato, un incremento del patrimonio netto di quest’ultima pari al valore nominale del debito rimesso e, dall’altro, un incremento dell’investimento per il socio/creditore corrispondente al costo sostenuto per l’acquisto del credito; e ciò è dovuto al diverso valore che, in caso di acquisto del credito ad un prezzo inferiore al valore nominale, finisce per assumere l’obbligazione in capo al debitore e al creditore, la quale viene evidentemente meno allorché il debitore (disponendo delle risorse necessarie) soddisfi per intero il credito.

5. Esame degli eventuali profili elusivi dell’acquisto del credito insieme con le partecipazioni nella società debitrice

Dall’attuazione delle operazioni descritte in premessa, quindi, discendono i riflessi fiscali di seguito indicati:

  1. la perdita su crediti, subita dalle banche per effetto della cessione del credito verso ALFA S.R.L., costituisce per le stesse componente negativo integralmente deducibile nell’esercizio di realizzo, ai sensi dell’art. 106, comma 3, del T.U.I.R.;
  2. il valore contabile e fiscale della partecipazione totalitaria di ALFA S.R.L.”, acquistata da “Newco” al prezzo di un euro, si incrementa per un importo pari al costo di acquisto del credito oggetto di rinuncia verso la partecipata;
  3. l’insussistenza di passivo derivante dalla rinuncia al credito da parte di “Newco” non è fiscalmente rilevante per ALFA S.R.L., che nelle proprie scritture contabiliiscrive in contropartita una riserva di capitale di importo pari al valore nominale del debito rimesso (o, qualora eventualmente inferiore, del valore di bilancio dello stesso).

L’attuazione delle operazioni prospettate nel piano di risanamento attestato ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. d), l.f., dunque, consente alle banche creditrici di dedurre le perdite su crediti senza che ciò comporti l’emersione di materia imponibile in capo a “Newco” ea “ALFA S.R.L.”.

Tutto ciò posto, occorre domandarsi se questi effetti possano essere disconosciuti dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, che consente di rendere a questa inopponibili gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti e a ottenere vantaggi fiscali altrimenti indebiti, atteso che tale norma (al comma 3) annovera tra gli atti potenzialmente elusivi le cessioni di crediti e le operazioni aventi ad oggetto partecipazioni sociali. In base alla disposizione testé citata, dunque, un comportamento elusivoricorre quando:

  1. da un’operazione o da una serie funzionalmente concatenata di atti, fatti o negozi consegua un vantaggio tributario altrimenti indebito;
  2. vi sia aggiramento di obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario;
  3. non sia riscontrabile la presenza di valide ragioni economiche nell'effettuazione dell’operazione o della serie concatenata di atti, fatti o negozi messi in essere.

Segnatamente, al fine di distinguere il vantaggio tributario generato da tale condotta rispetto a quello discendente dalla legittima pianificazione fiscale, ovverosia dall’uso corretto della libertà (costituzionalmente garantita) di scegliere le forme negoziali da utilizzare nel compimento della gestione aziendale da parte delle imprese, il consolidato orientamento della Cassazione ritiene che la condotta elusiva (o “abusiva”) si manifesti allorché lo strumento o gli strumenti giuridici, previsti dall’ordinamento, non sono utilizzati dal contribuente per il raggiungimento degli interessi per la cui tutela sono stati previsti e regolamentati, ed è quindi riscontrabile un uso distorto, anomalo, deviato di tali istituti rispetto alle loro ordinarie finalità, fermo restando l’onere per l’Amministrazione finanziaria di dimostrare quale sarebbe stato il comportamento alternativo (maggiormente oneroso sotto il profilo fiscale) che il contribuente avrebbe potuto/dovuto adottare in maniera più naturale e diretta.

Occorre quindi verificare se l’Agenzia delle Entrate possa (fondatamente) giudicare la cessione dei crediti da parte delle banche a favore di “Newco” come finalizzata a permettere a queste la deduzione delle perdite su crediti e a rendere applicabile – in capo a “ALFA S.R.L.” – la detassazione di cui all’art. 88, comma 4, alla rinuncia al credito,non ritraendo le banche creditrici alcun vantaggio economico da tale cessione. Orbene, una tale verifica richiede l’individuazione di una o più condotte fisiologicamente alternative a quella concretamente attuata, che conducano a risultati economicamente equivalenti, al fine di raffrontarne gli effetti fiscali e verificare l’eventuale carattere elusivo di quella posta in essere.

Al riguardo, un possibile percorso alternativo è quello basato sulle operazioni di seguito indicate:

  1. le banche rinunciano direttamente al credito verso ALFA S.R.L., subendo – sul piano sostanziale – una perdita su crediti a beneficio di quest’ultima, che ritorna in bonis rilevando una sopravvenienza attiva di pari importo;
  2. “Newco” acquista la partecipazione totalitaria di ALFA S.R.L.” al prezzo di un euro.

In questa ipotesi, attese le modifiche apportate all’art. 88, comma 4, del T.U.I.R. dal D.L. n. 83/2012, la remissione del debito discendente dal piano attestato ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. d), l.f. non darebbe comunque luogo, in capo ad “ALFA S.R.L.”, ad una sopravvenienza attiva imponibile, seppur limitatamente alla parte eccedente le eventuali “perdite pregresse e di periodo”; ne deriverebbero in sostanza: (i) l’esclusione comunque della insussistenza di passivo e (ii) la perdita del diritto di utilizzare le perdite fiscali utilizzabili a compensazione dei redditi che fossero successivamente conseguiti.

Per altro verso, le perdite su crediti subite dalle banche sarebbero ugualmente deducibili pur non risultando la società debitrice assoggettata a una procedura concorsuale, atteso che la relativa disciplina (oggi interamente racchiusa nell’art. 106, comma 3, del T.U.I.R.) non richiede la sussistenza di ulteriori elementi certi e precisi per la loro deduzione. In altri termini, la deduzione della perdita su crediti spetta alle banche creditrici sia se esse addivengono alla cessione dei crediti a “Newco” verso un prezzo simbolico, sia se esse rinunciano direttamente ai crediti vantati verso “ALFA S.R.L.”, cambiando unicamente le regole di imputazione temporale di tale componente negativo.

Gli effetti fiscali discendenti dalle operazioni descritte nel piano di risanamento, dunque, si produrrebbero anche in assenza della cessione del credito e/o dell’assunzione, da parte di “Newco”, della qualità di socio di “ALFA S.R.L., fatta eccezione:

  • per la misura della detassazione della insussistenza di passivo derivante dalla rinuncia al credito che, ove direttamente generata da una rinuncia delle banche creditrici, non spetterebbe per l’intero ammontare del debito oggetto di remissione, ma solo per la parte dello stesso che eccede l’ammontare delle perdite fiscali utilizzabili ai sensi dell’art. 84 del T.U.I.R.;
  • per l’imputazione a periodo della perdita su crediti subita dalla banche, che, discendendo da una rinuncia unilaterale (anziché da un trasferimento a terzi a titolo oneroso), non sarebbe deducibile integralmente nell’esercizio in cui ha effetto la rinuncia, ma in tale esercizio e nei quattro successivi (in quote costanti).

Né pare, con riguardo alla detassazione della insussistenza di passivo, che possa ragionevolmente affermarsi che lo scopo esclusivo o prevalente del compimento delle operazioni descritte in premessa e, in particolare, della cessione dei crediti a “Newco” verso “ALFA S.R.L.”, sia quello di evitare alla società debitrice di “perdere le perdite” eventualmente dalla stessa maturate. Infatti, la cessione dei crediti e le successive operazioni previste nel piano di risanamento avrebbero trovato ugualmente compimento a prescindere dall’esistenza delle suddette perdite fiscali e, quindi, anche in assenza delle stesse. Inoltre, anche se pattuita a un prezzo simbolico, la cessione dei crediti verso “ALFA S.R.L.” – dalle banche a “Newco” – è normalmente strumentale al risanamento della situazione finanziaria della società debitrice, consentendo loro di ottenere il rimborso degli altri prestiti alla stessa erogati (i cui crediti non sono oggetto di cessione), nonché, sebbene costituisca solo un’eventualità, di recuperare una parte degli stessi crediti ceduti, tramite la clausola di revisione del prezzo di cessione (earn out), in correlazione con la performance economica che la società debitrice sarà in grado di realizzare in futuro in condizioni di recuperato equilibrio economico e finanziario.

Infine, la cessione a “Newco” dei crediti verso “ALFA S.r.l.” da parte delle banche costituisce operazione perfettamente fisiologica nell’ambito dello schema di riorganizzazione di cui trattasi, in quanto è così accentrata in capo ad unico soggetto (“Newco”) la scelta di stabilire se ed in quale misura ricapitalizzare “ALFA S.r.l.” attraverso la successiva rinuncia al credito (in buona parte ormai inesigibile). Inoltre, l’assunzione dei crediti in capo alla società controllante comporta un vantaggio in capo agli altri creditori, dovuto alla postergazione che tali crediti subiscono ai sensi dell’art. 2467 c.c., così assicurando la continuità e/o il completamento delle forniture (imprescindibili per la continuazione dell’attività economica da parte di “ALFA S.r.l.”) e, dunque, la concreta fattibilità del piano di ristrutturazione16.

 

1

I crediti ritenuti disponibili per future cessioni possono essere iscritti nella categoria “AFS” (“available for sale”), costituente una categoria residuale.


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2

Ai sensi del previgente comma 3-bis dell’art. 106 del T.U.I.R., era consentita la deduzione entro lo 0,5% del “monte crediti” e, per l’eccedenza, nei nove esercizi successivi delle svalutazioni aventi ad oggetto i crediti erogati a decorrere del periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2009, limitatamente all’ammontare eccedente la media dei crediti erogati nei due periodi d’imposta precedenti, diversi da quelli assistiti da garanzia o da misure agevolative in qualsiasi forma concesse dallo Stato, da enti pubblici e da altri enti controllati direttamente o indirettamente dallo Stato.


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3

Le perdite relative a crediti diversi da quelli verso la clientela sono sempre disciplinate dall’art. 101.


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4

In tal senso si vedano G. Tantini, “I versamenti dei soci alla società”, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 1***, 2004, pag. 784; F. Di Sabato, Manuale delle società, 1999, pag. 536; G.E. Colombo, “Pretesa inammissibilità di copertura di perdite senza «operare sul capitale»”, in Le società, n. 3/1999, pag. 341; M. Cera, Il passaggio di riserve a capitale, 1988, pag. 148.


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5

Cfr. Cassazione, sentenza n. 1768 del 18 giugno 1973 (peraltro ampiamente confutata da G. Falsitta, La tassazione delle plusvalenze e delle sopravvenienze nelle imposte sui redditi, 1978, pag. 333 e ss.), secondo cui il saldo attivo del bilancio di esercizio può “derivare sia dall’attività svolta dall’impresa sociale (utili di gestione in senso stretto) sia da eventi economici che, pur provenendo da diversa fonte, incidono direttamente sul risultato della gestione annuale (sopravvenienza attiva) … Per tal motivo costituisce sopravvenienza attiva tassabile la somma che i soci di una società per azioni hanno versato volontariamente a fondo perduto (cioè senza vincolo legale di destinazione né obbligo giuridico di restituzione ai versanti), nel corso dell’annuale gestione … imputandola al conto perdite e profitti e non ad un conto patrimoniale”.


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6

Cfr. M. Miccinesi, “I componenti positivi”, in L’imposta sul reddito delle persone fisiche – Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da G. Tesauro, 1994, pagg. 668 e 669. In questo senso anche R. Lupi, “I versamenti a fondo perduto e rinunce a crediti dei soci nell’imposizione sui redditi”, in Bollettino tributario, 1992, pagg. 1061 e 1062.


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7

In ordine alla qualificazione delle rinunce ai crediti come apporti di capitale, si veda il documento n. 28, “Il patrimonio netto”, predisposto da Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti nell’ottobre 2000 e rivisto dall’Organismo Italiano di Contabilità nel maggio 2005. Anche l’art. 5, comma 2, del decreto 14 marzo 2012, emanato in attuazione dell’art. 1 del D.L. n. 201 del 6 dicembre 2011, n. 201, disciplinante l’agevolazione denominata “Aiuto alla crescita economica” (ACE), riconosce la natura meramente patrimoniale delle rinunce dei soci ai crediti. Sul punto si veda anche la circolare n. 53/E del 21 dicembre 2009, emanata dall’Agenzia delle Entrate con riguardo al cosiddetto “bonus capitalizzazione”, disciplinato dall’art. 5, comma 3-ter, del D.L. n. 79 del 1° luglio 2009.


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8

La motivazione addotta alla distinzione previgente era infondata perché non teneva conto che l’acquisto di beni e servizi da parte della debitrice determina, in capo all’impresa cedente o prestatrice, l’insorgere di un ricavo imponibile di pari ammontare, che è correlativo al costo deducibile sorto in capo alla prima. Inoltre, sotto il profilo giuridico, l’eventuale rinuncia del socio ad un credito derivante da una cessione di merci a favore della società partecipata produce il medesimo risultato che si sarebbe prodotto, sia in capo alla società sia in capo al socio, in caso di conferimento diretto dei medesimi beni. Cfr. Assonime, circolare n. 42 del 10 marzo 1994, pag. 44.


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9

Analoga scelta fu adottata anche con riguardo agli effetti derivanti in capo al socio, venendo stabilito nell’art. 61, comma 5, del T.U.I.R. che l’ammontare della rinuncia ai crediti nei confronti della società partecipata si aggiunge al costo delle partecipazioni in essa detenute (tale disposizione è ora contenuta nell’art. 101, comma 7). Prima delle modifiche derivanti dalla conversione in legge del D.L. n. 537/1993, invece, anche questa previsione era circoscritta alla rinuncia ai crediti derivanti da precedenti finanziamenti.


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10

Cfr. R. Lupi, cit., pag. 1063. Nello stesso senso si vedano anche Assonime, circolare n. 42/1994, pag. 44; L. Del Federico, “Profili fiscali della rinuncia dei crediti da parte dei soci”, in Il fisco, n. 38/1994, pag. 9017.


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11

Cfr. Assonime, circolare n. 42/1994, pag. 55. Con la riforma del 2003 tali “eccedenze” sono divenute indeducibili in quanto la nuova disciplina del reddito d’impresa ha reso fiscalmente irrilevanti le svalutazioni delle partecipazioni societarie (si veda al riguardo la risoluzione n. 90/E dell’11 luglio 2005).


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12

Cfr. Assonime, “Guida….”, cit., nota 117, pag. 82.


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13

Sul punto si veda anche P. Puri, “Riorganizzazione societaria nell’ambito della crisi d’impresa ed elusione tributaria”, in “Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi”, a cura di F. Paparella, Giuffrè, 2013, pagg. 997 e 998, nota n. 27.


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14

Lo stesso vale in caso di ripartizione delle riserve di capitale della società. Infatti, il comma 6 dell’art. 87 del T.U.I.R. richiama espressamente il comma 5-bis dell’art. 86, a norma del quale “costituiscono plusvalenze le somme o il valore normale dei beni ricevuti a titolo di ripartizione del capitale e delle riserve di capitale per la parte che eccede il valore fiscalmente riconosciuto delle partecipazioni” (che si annulla). Se invece le somme ricevute sono inferiori, la ripartizione delle riserve di capitale comporta una corrispondente riduzione del valore fiscale delle partecipazioni ex art. 47, comma 5, del T.U.I.R.


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15

Basti richiamare le argomentazioni spese in dottrina con riferimento alla “dual income tax” disciplinata dal D.Lgs. n. 466 del 18 dicembre 1997 (cfr. ex multis P. Anello, “DIT: le rinunce al finanziamento dei soci”, in Corriere Tributario, n. 21/1998, pag. 1595), per confutare la posizione assunta dall’Amministrazione finanziaria con la circolare n. 76/E del 6 marzo 1998, la quale – conformandosi alla relazione illustrativa al succitato decreto – escluse le rinunce al credito dall’agevolazione in quanto non equiparabili ai conferimenti in denaro. Per ovviare a tale divieto (o, meglio, per farne comprendere l’illogicità), si suggeriva di procedere (i) all’effettivo pagamento del debito verso il socio e (ii) alla successiva restituzione da parte di questi delle medesime somme a titolo di “conferimento atipico”. La sostanziale assimilabilità tra le due ipotesi era stata rimarcata, già con riguardo all’applicazione dell’imposta sul patrimonio netto delle imprese, dall’Assonime, circolare n. 115 del 6 novembre 1996.


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16

Cfr. P. Puri, cit., pagg. 998, 999 e 1003.


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