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Criticità e abusi del preconcordato dopo un anno di applicazione. Valutazione dell’esito dei primi preconcordati presso il Tribunale di Milano: statistiche e proiezioni. Le correzioni introdotte dal Decreto “Del Fare”.

2 Novembre 2013

Filippo Lamanna, Presidente del Tribunale fallimentare di Milano

Di cosa si parla in questo articolo

1. L’emersione di criticità ed abusi. Primi rilievi statistici.1

Ormai a poco più di un anno dall’entrata in vigore delle norme modificative della disciplina del concordato preventivo introdotte dal “Decreto Sviluppo” in vigore dall’11 settembre 2012 (D.L. n. 83/2012 conv. in L. 134/2012,) è possibile fare quantomeno un primo bilancio certo solo provvisorio, ma comunque basato su alcuni dati statistici oggettivi.

Quelli disponibili riguardano soprattutto l’istituto più importante introdotto dal “Decreto Sviluppo”, il preconcordato, relativamente al quale sono state subito registrate e denunciate dagli operatori le maggiori criticità, sia pure unitamente alla constatazione di un indubbio successo sul piano quantitativo.

Quanto a tale successo, basti pensare che in un anno esatto a partire dall’entrata in vigore delle citate modifiche normative, solo presso il Tribunale di Milano sono risultati radicati ben 410 preconcordati, ossia una cifra che non si allontana molto dal totale dei concordati che venivano radicati annualmente in tutta Italia solo qualche anno fa.

I dati statistici qui in esame sono stati raccolti allo scopo, in particolare, di verificare l’esito dei procedimenti di preconcordato radicati a Milano medio tempore.

Tali dati, tuttavia, non possono che essere, allo stato, parziali, sotto più punti di vista:

  • perché non hanno ancora portata nazionale, ma si riferiscono soltanto al Tribunale di Milano, anche se forse tale limite si ridimensiona per il fatto che il Tribunale di Milano raccoglie il numero maggiore di procedure concordatarie in Italia e quindi i dati che vi si generano hanno comunque un’elevata significatività statistica;
  • perché il periodo considerabile è solo una piccola frazione dell’anno trascorso, in quanto è giocoforza considerare le sole procedure avviate dalla data di inizio (11.9.2012) e promosse fino ad una certa data (nel nostro caso fino al 31.12.2012), selezionata in modo che sia possibile accertare l’esito delle dette procedure alla scadenza dei termini concessi dal Tribunale, che, come sappiamo, possono arrivare anche a sei mesi; pertanto i dati in concreto raccolti ed elaborati si riferiscono alla data del 15 giugno 2013, ossia a quasi sei mesi successivi al 31.12.2012;
  • perché in corso d’anno è stato emanato anche il “Decreto del Fare” (D.L. 69/2013 conv. in L. 98/2013) proprio con lo scopo di eliminare o ridurre alcune delle criticità subito denunciate dagli operatori in materia di preconcordato, ma tale decreto è ancora troppo recente per poterne tener conto in termini di esiti misurabili statisticamente, anche se qualche constatazione oggettiva è comunque possibile farla, sia pure solo di tipo effettuale; di fatto, però, ne consegue che gli esiti misurati statisticamente si riferiscono ad un modello di concordato che, in parte, è già stato superato a causa delle misure correttive introdotte dal “Decreto del Fare”.

2. Analisi dell’esito dei ricorsi ex art. 161, comma 6, l.f., ossia dei concordati in bianco (ovvero preconcordati) presentati al tribunale di Milano nel periodo 11.09.2012 – 31.12.2013. Rilevamento al 15.06.2013.

I dati statistici sono i seguenti.

Numero totale dei ricorsi pervenuti nel periodo 11.09.2012 – 31.12.2013: n. 145

Di questi:

– ancora in fase di preconcordato al 15.6.2013 (perché ancora pendente il termine): n. 11

– definiti effettivamente n. 134 (=145-11)

Dei ricorsi definiti:

– quelli per cui è stata depositata la proposta nel termine sono stati n. 74, pari al 51,03 % del totale

– quelli non seguiti dal deposito della proposta sono stati n. 60 pari al 41,37% del totale.

Dei ricorsi per cui è stata depositata la proposta nel termine (74):

– erano ancora in fase di esame della domanda ammissione n. 8

– quelli definiti con rigetto della domanda erano n. 10 (di cui n. 5 con fallimento)

– quelli definiti con dichiarazione di incompetenza erano n. 5

– quelli definiti con intervenuta ammissione erano n. 51 (pari al 35,17% del totale)

Dei ricorsi definiti con intervenuta ammissione:

– i concordati ammessi e poi revocati erano n. 7

– i concordati ammessi e non revocati erano n. 44 (di cui già omologati n. 5), pari al 30,34% dei ricorsi.

In sostanza, i ricorsi con intervenuta ammissione non revocata, impregiudicato l’accertamento circa la successiva omologazione che statisticamente in un certo numero di casi viene negata, sono stati meno di 1 su 3.

Da tali dati si evince dunque la conferma di come fosse fondata la denuncia subito fatta da molti operatori ed interpreti circa la sussistenza di una prima forma di abuso nel preconcordato: l’accesso indiscriminato a tale procedura da parte di qualunque impresa in crisi, anche quelle già decotte e non salvabili o risanabili, senza la possibilità di effettuare alcuna effettiva selezione preventiva da parte del Tribunale.

3. Qualche altro dato interessante.

Ma può forse essere utile considerare anche alcuni dati statistici aggiuntivi, tratti ora da un’analisi fatta dall’Università di Brescia in accordo con la Sezione Fallimentare del Tribunale di Milano, ora da un’analisi fatta da un centro studi nazionale.

Si tratta di tre tipi di dati.

Il primo dato riguarda i concordati proposti al Tribunale di Milano nel 2012: sono stati n. 218, così distinti:

63% concordati di pura liquidazione

3% concordati in continuità

31% concordati misti (liquidazione di parte dei beni e continuità azienda).

Il dato conferma dunque che la procedura resta appannaggio soprattutto delle imprese – ormai decotte – che vanno a cessare e non di quelle che operano in situazione di continuità.

Il secondo dato riguarda il trattamento effettivo che hanno avuto i creditori chirografari alla data del 15.6.2013 con riferimento ai concordati preventivi presentati al tribunale di Milano ed omologati negli anni 2008-2009, ossia a distanza di 4-5 anni.

Ebbene i creditori chirografari hanno percepito:

lo 0% di quanto era stato loro promesso nel 38,4% dei concordati: in sostanza quasi nel 40% dei casi non è stato pagato nulla!!

dall’ 1 al 10% nel 21,5% dei concordati

dall’ 11 al 20% nel 12,3% dei concordati

dal 21 al 30% nel 15,3% dei concordati

dal 31 al 40% nel 9,2% dei concordati

dal 41 al 50% nel 3,3% dei concordati

Il dato rende evidente come le promesse di pagamento si rivelino quasi sempre inconcludenti per i creditori, quanto meno quelli chirografari, tenuto conto che quasi nel 40% dei casi a distanza di 4-5 anni i creditori chirografari non hanno ricevuto nemmeno un Euro.

Il terzo dato ha un carattere di maggiore generalità: consiste nell’analisi effettuata su un campione di 865 concordati in tutta Italia, secondo la formula di Altman2, prendendo in esame i bilanci delle società in concordato nei cinque-tre anni precedenti alla presentazione del concordato.

Ebbene è risultato che già tre anni prima 752 imprese su 865 – pari all’ 87% – si trovavano in una situazione di alta probabilità di fallimento.

Il dato conferma che la principale ragione dell’insuccesso è il ritardo con cui si rende nota la crisi all’esterno e si cercano misure per superarla. Ciò va ricondotto alla nota mancanza nel nostro ordinamento di misure di allerta e prevenzione che invece sono ben note e rodate in altri ordinamenti, come ad esempio la Francia.

4. Il primo versante degli abusi nel preconcordato.

Ritorniamo ora alle criticità del preconcordato.

Abbiamo visto come l’esito delle prime procedure sia stato in larga misura deludente.

D’altra parte era prevedibile che ciò avvenisse.

Quando infatti si consente a qualunque impresa in crisi, e dunque anche a quelle totalmente decotte ed insolventi, di presentare una domanda che può essere costituita da un semplice foglietto privo di contenuto, con cui ci si può limitare solo a dichiarare l’intenzione di proporre successivamente un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.f., chiedendo al Tribunale la fissazione di un termine (anche prorogabile), che ha una durata minima di 60 giorni e massima, a seconda che sia stata o meno già presentata un’istanza di fallimento, di 120 o di 180 giorni, ma fruendo al tempo stesso, per tutto il periodo di pendenza del termine, della protezione costituita dal blocco delle azioni esecutive e cautelari e della possibilità di continuare a compiere senza necessità di autorizzazione ogni atto di ordinaria amministrazione (oltre che, previa autorizzazione, anche atti di straordinaria amministrazione, compresa l’attivazione di nuovi finanziamenti, e, secondo alcuni anche pagamenti di crediti anteriori, potendo per di più decidere di sciogliere o sospendere i contratti pendenti), non ci si può affatto meravigliare che ci sia stato un vero assalto alla diligenza, con l’attivazione di un numero di preconcordati impressionante. Ma al tempo stesso non ci si può stupire nemmeno del fatto che poi una grande quota di tali procedure abbia registrato un insuccesso, spesso sfociando in fallimento.

La prima e più importante criticità ha riguardato dunque proprio la modalità troppo facile di accesso alla procedura, facilità che ha dato inevitabilmente luogo ad abusi.

Il preconcordato, infatti, era stato pensato per consentire il salvataggio delle imprese in crisi, non per ritardare semplicemente la dichiarazione di fallimento delle imprese già decotte. L’abuso è consistito quindi nell’accesso al procedimento anche da parte di una miriade di imprese totalmente già decotte.

Tale facilità di accesso ha riguardato in particolare:

  1. i requisiti formali estremamente semplificati della domanda;
  2. la mancanza anche di limitazioni sostanziali per l’accesso alla procedura o di norme idonee a selezionare le imprese capaci di superare la crisi distinguendole da quelle incapaci di farlo. Anzi, la possibilità di fruire del surricordato ombrello protettivo contro azioni esecutive e cautelari, ritardando comunque il momento del fallimento è stata un forte incentivo per qualunque impresa a presentare domande di preconcordato (ma anche la stessa possibilità di fruire di finanziamenti nuovi è stata estesa a qualunque impresa e non solo a quelle in grado di presentare concordati preventivi con continuità aziendale, e ciò si è tradotto in un ulteriore motivo per accedere al preconcordato);
  3. la pratica impossibilità per il Tribunale di agire da filtro, impedendo subito l’accesso alle imprese non in grado di salvarsi o comunque non in grado di presentare nel termine proposte definitive e serie di concordato preventivo o di omologa di accordi di ristrutturazione dei debiti. In sostanza, il Tribunale ha dovuto sempre concedere il termine, non avendo la facoltà di negarlo per ragioni di merito, ma solo per eventuali (e rari) difetti formali (o per ragioni di incompetenza territoriale). Si è anche dubitato in giurisprudenza che il Tribunale potesse abbreviare il termine, dopo averlo concesso, le volte in cui pur si fosse avveduto della incapacità dell’impresa di rispettarlo. Infine, non è stata nemmeno normativamente prevista e sanzionata quella forma di abuso consistente nella presentazione di domande di preconcordato dopo aver presentato quelle di concordato preventivo definitivo, al solo scopo di rimettere in corsa il procedimento allungando i tempi. Non ultima, ha giocato anche come incentivo la possibilità – ipotizzata da alcuni fori – di considerare soggetto a sospensione feriale il termine concesso dal Tribunale, poichè ha ulteriormente incentivato la presentazione di domande nell’imminenza del periodo feriale per poter fruire di un ulteriore prolungamento della moratoria di altri 46 gg..

5. Il secondo versante degli abusi.

Il secondo versante in cui si sono poi registrate altre criticità è quello riguardante il periodo successivo all’accesso alla procedura, criticità ricadenti cioè nel suo corso.

Esse hanno riguardato, in tal caso:

  1. la facoltà di continuare a compiere atti di ordinaria amministrazione, capaci peraltro di generare crediti prededucibili, a loro volta suscettibili di erodere gli attivi, senza alcuna necessità di autorizzazione e soprattutto senza alcuna concreta possibilità di controllare se tale gestione ordinaria fosse o meno utile e necessaria o tale da aumentare le passività senza alcun costrutto, esito non certo strano ed imprevedibile considerata l’incapacità gestoria mostrata proprio dalla gran parte delle imprese proponenti nel più recente passato;
  2. la stessa distinzione tra atti di ordinaria amministrazione non soggetti ad autorizzazione ed atti di straordinaria amministrazione soggetti ad autorizzazione ha creato serie difficoltà operative per l’incertezza dei confini di tali categorie concettuali; gli operatori, infatti, nel dubbio sul se un singolo atto fosse o meno collocabile tra quelli di ordinaria amministrazione o straordinaria amministrazione si sono rivolti al Tribunale, che quindi è dovuto intervenire in moltissimi casi in cui sarebbe stato del tutto superfluo trattandosi di atti ordinari non soggetti ad autorizzazione; ma si è registrata addirittura l’assurda situazione che, pur nella consapevolezza che alcuni atti, avendolo già anteriormente affermato lo stesso Tribunale, potevano classificarsi tra quelli di ordinaria amministrazione, come ad esempio in caso di ordinaria prosecuzione nei limiti del fido preesistente di contratti di affidamento bancario basati sull’incasso di portafoglio commerciale (cd. rapporti auto-liquidanti), molte banche hanno rifiutato di proseguire nei contratti stessi temendo che un domani, in caso di eventuale fallimento, la prededucibilità potesse essere negata dal giudice delegato in sede di verifica dei crediti o potesse addirittura ipotizzarsi una concessione abusiva di credito;
  3. la sostanziale impossibilità di controllare comunque la gestione dell’impresa durante la pendenza del termine; vero è che si era prevista la possibilità per il Tribunale di imporre obblighi informativi, tuttavia non solo non era stato previsto a carico del Tribunale l’obbligo di fissarli, ma soprattutto non era stata fissata alcuna sanzione effettiva per il caso in cui fosse stato poi scoperto il compimento di attività gestorie incaute o dannose, o per il caso in cui ci fosse stato un rispetto solo formale, ma non sostanziale degli obblighi informativi; al tempo stesso non era stata prevista alcuna possibilità per i Tribunali di avvalersi di collaboratori tecnici per farsi aiutare nelle attività di controllo, il che aveva di fatto disincentivato l’imposizione degli obblighi informativi, fissando i quali i Tribunali sarebbero rimasti sommersi da una miriade di adempimenti di controllo, per di più solo formali, data la mancanza di un’effettiva possibilità di sanzione; anche alcune isolate iniziative giurisprudenziali di nomina di C.T.U. sono state spesso considerate ad alto rischio, non tanto perché assunte in mancanza di una previsione espressa che contemplasse la possibilità di nomina, quanto per la responsabilità di aver gravato l’impresa già in crisi di ulteriori costi non previsti dalla legge, oneri che si ripercuotono negativamente anche sul soddisfacimento dei creditori, diminuendo le risorse da destinarsi a costoro;
  4. il mancato coordinamento della disciplina del preconcordato con le speciali autorizzazioni pensate, ab origine, per le procedure definitive di concordato; ciò con riferimento in particolare allo scioglimento-sospensione dei contratti pendenti e ai pagamenti di crediti anteriori. Molti Tribunali, infatti, hanno ritenuto in assoluto inapplicabile la possibilità di sciogliere i contratti o di effettuare pagamenti per crediti anteriori nel corso del preconcordato, nel primo caso perché la definitività dello scioglimento sembrava e sembra, da un lato, in contrasto con la possibilità che poi nel termine il debitore proponga anziché un concordato preventivo, un accordo di ristrutturazione dei debiti, rispetto al quale non avrebbe senso la possibilità di sciogliersi dai contratti se, come si assume, esso non ha natura di procedura concorsuale, ma ha invece natura contrattuale, esigendo come tale, sempre e comunque, il rispetto della regola “pacta sunt servanda”; e, dall’altro, sembrando incompatibile con una fase in cui manca un piano sulla cui base valutare l’utilità dello scioglimento, piano per definizione mancante nel preconcordato. Nel secondo caso perché i detti pagamenti sono possibili, ai sensi dell’art. 182-quinquies l.f., solo in caso di concordato con continuità aziendale, figura che presuppone – ai sensi dell’art. 186-bis – l’esistenza formale di un piano che preveda analiticamente i flussi finanziari e un’attestazione specifica sulla sua funzionalità al miglior soddisfacimento dei creditori, piano che, come appena detto, è per definizione mancante nel preconcordato.

6. Le misure introdotte dal “Decreto del Fare” (D.L. 69/2013 conv. in L. 98/2013).

Il “Decreto del Fare” ha dunque introdotto, come si diceva poc’anzi, misure proprio finalizzate a ridurre queste criticità.

Tali misure, però, possono incidere soprattutto, anche se non esclusivamente, sul secondo versante delle appena segnalate criticità, non invece sul primo e più importante riguardante l’accesso alla procedura.

6.1. Misure incidenti sull’accesso alla procedura.

Relativamente al primo versante, infatti, si segnala solo un’integrazione normativa, laddove il “Decreto del Fare” ha disposto che il ricorrente debba allegare alla domanda anche l’elenco nominativo dei creditori con l’indicazione dei relativi crediti.

L’innovazione ha evidentemente scarso potere disincentivante e in concreto non consente al Tribunale l’esercizio di alcun potere valutativo di merito sulla domanda.

Con tale nuovo requisito si amplia in definitiva il corredo documentale da produrre subito, restringendosi in pari misura l’oggetto della riserva di successiva produzione, che prima si estendeva, appunto, anche ai documenti indicati nel comma 2, lettera b), dell’art. 161, e dunque anche all’elenco dei creditori con l’indicazione dei rispettivi crediti.

È tuttavia da segnalare che la riserva andrà poi sciolta riproducendo comunque un elenco dei creditori, questa volta completo di tutte le indicazioni del comma 2, lettera b), poiché tale disposizione richiede che l’elenco indichi non solo i creditori e i rispettivi crediti, ma anche le cause di prelazione, laddove non si richiede invece che queste ultime siano indicate subito con l’elenco da produrre ora con la domanda prenotativa.

L’obbligo di depositare l’elenco dei creditori va naturalmente assolto a pena d’inammissibilità della domanda, trattandosi di requisito in difetto del quale non si verifica una semplice ipotesi di irregolarità, ma di nullità della stessa, come del resto si desume dal tenore dell’art. 162, secondo comma, che considera come ragione d’inammissibilità della domanda di concordato preventivo anche il difetto di uno qualunque dei presupposti di cui all’art. 161 l.fall.. Questo naturalmente non esclude la possibilità che il Tribunale conceda un termine per integrare la documentazione mancante.

Ad ogni modo, proprio perché la mancanza dell’elenco dei creditori gioca come causa di inammissibilità originaria, la nuova disposizione non sembra suscettibile di applicazione immediata anche alle domande di preconcordato già presentate prima dell’emanazione del “Decreto del Fare”, poiché per esse tale ragione di inammissibilità non esisteva al momento in cui furono depositate.

Non può dunque né ipotizzarsi un’applicazione sanzionatoria retroattiva per il fatto che il debitore non abbia presentato già prima tale documento, perché si tratterebbe di un’interpretazione della norma chiaramente incostituzionale; né un’applicazione che per i procedimenti già pendenti faccia scattare l’obbligo ex nunc, perché si darebbe efficacia comunque ad un’eventuale ragione d’inammissibilità sopravvenuta ex post con riferimento ad un requisito che dovrebbe esistere già al momento di presentazione della domanda.

Restano da fare due osservazioni di commento:

  1. a ben vedere, il debitore, in quanto tenuto ad una contabilità regolare, ben dovrebbe in ogni momento essere a conoscenza dei suoi debiti, e siccome questo vale già al momento di presentazione del ricorso di preconcordato, si comprende come il testo originario della norma, laddove estendeva la riserva di produzione successiva anche a tale documento, non avesse un valido fondamento razionale;
  2. ma la stessa cosa si potrebbe dire in realtà almeno anche quanto allo stato analitico ed estimativo delle attività e all'elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore, trattandosi anche in queste due ipotesi di dati conoscitivi di pronta reperibilità e disponibilità da parte del debitore, che ben la norma avrebbe potuto esigere fossero presentati subito.

In sostanza, la riserva di successiva produzione avrebbe potuto limitarsi all’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell'impresa e soprattutto al piano vero e proprio e alla proposta definitiva, gli ultimi due essendo effettivamente i documenti più impegnativi da approntare.

Sul punto – ad ogni modo – deve concludersi che l’intervento correttivo non svolge un reale effetto né di tipo selettivo, né di carattere disincentivante.

6.2. Misure incidenti sullo svolgimento della procedura.

Quanto invece al secondo versante, quello riguardante lo svolgimento successivo della procedura di preconcordato, con il “Decreto del Fare” si è inteso in particolare:

  1. consentire al Tribunale l’esercizio di un maggior potere di controllo; a tal fine è stato anzitutto previsto in capo al medesimo Tribunale l’obbligo di porre gli obblighi informativi (“il tribunale deve disporre gli obblighi informativi periodici…”); questi sono stati poi in parte tipizzati, prevedendosi a carico dell’impresa ricorrente l’obbligo di deposito, con una periodicità minima mensile, di una relazione anche relativa alla gestione finanziaria dell’impresa e all’attività compiuta ai fini della predisposizione della proposta e del piano, oltre che di una situazione finanziaria, soggetta quest’ultima a pubblicazione nel Registro delle imprese e a sua volta da depositare ogni mese; soprattutto si è espressamente prevista la possibilità per il Tribunale di nominare un commissario giudiziale vero e proprio, con funzioni consultive e di vigilanza;
  2. è stato poi ampliato il novero dei poteri sanzionatori di cui dispone il Tribunale per reprimere gli abusi, sia quando essi si traducano in veri e propri atti fraudolenti, in tal caso estendendosi alla fase preconcordataria il meccanismo di cui all’art. 173 l.f. che porta all’improcedibilità della domanda, sia quando semplicemente coincidano con la riscontrata incapacità di predisporre proposte definitive di concordato o di accordi di ristrutturazione nei termini concessi, ipotesi in cui è stata prevista la possibilità di accorciare tali termini.

Esaminiamo ora più in dettaglio tali novità.

6.3. La facoltà di nomina di un commissario giudiziale.

Emanando il decreto con cui assegna al ricorrente un termine per il deposito della proposta, del piano e dell’ulteriore documentazione (di cui ai commi secondo e terzo dell’art. 161 l.fall.), il Tribunale potrà subito nominare un commissario giudiziale.

La legge di conversione ha ulteriormente modificato la norma esigendo una specifica motivazione del decreto.

Tenuto conto che una specifica motivazione del decreto di fissazione del termine non era prima richiesta e che l’obbligo di motivazione è stato introdotto solo in sede di conversione con riferimento alla speciale modifica introdotta dal “Decreto del Fare” in relazione alla nomina del commissario giudiziale, sembra congruente optare per un’interpretazione restrittiva, che limiti cioè l’obbligo motivazionale alla sola nomina del commissario giudiziale, anche perché è tale nomina ad essere oggetto di una discrezionale iniziativa del Tribunale, mentre la fissazione del termine, sia pure tra un minimo e un massimo, è comunque un atto dovuto, oltre che un atto chiesto dalla stesso debitore, sì che non sembra per ciò stesso necessario motivarne l’accoglimento, che non può che rispondere o alle ragioni esposte dal debitore o comunque alla sussistenza dei parametri previsti dalla legge.

Si applica, soggiunge la norma, l’art. 170, comma 2, e dunque il ricorrente, giusta quanto dispone tale norma, dovrà tenere a disposizione del giudice delegato e del commissario giudiziale i libri contabili.

Il senso della disposizione su quest’ultimo punto è però, a causa del mero ed integrale rinvio all’art. 170, comma 2, in parte dubbio. Non è chiaro, cioè, se l’obbligo di tenere i libri a disposizione sussista sempre, o solo quando il Tribunale decida di nominare il commissario giudiziale quale attribuzione a questi del potere di verifica sulle scritture contabili.

A ben vedere l’obbligo avrebbe motivo di essere imposto sempre, poiché il Tribunale potrebbe avere in diversi casi (quando ad esempio è chiamato a pronunciarsi sulle istanze di autorizzazione al compimento di atti di straordinaria amministrazione et similia) la necessità di acquisire sommarie informazioni, e queste a loro volta potrebbero in primo luogo trarsi dalla documentazione contabile dell’impresa. Tuttavia, tenuto conto che la norma richiamata prevede che i libri contabili debbano restare a disposizione solo di due soggetti ben precisi, il giudice delegato ed il commissario giudiziale, l’interpretazione restrittiva sembrerebbe quella più congrua e coerente, tenuto conto, da un lato, che nel preconcordato non esiste ancora la figura del giudice delegato (il quale viene infatti nominato solo con il decreto di ammissione al concordato), e, dall’altro, che anche il commissario giudiziale può mancare se il Tribunale non decida di nominarlo sin da subito. Tale decisione, infatti, è – a tenore delle norma – meramente facoltativa (“il tribunale può nominare…), come confermato anche dalla modifica apportata al successivo comma settimo (“se nominato…”). In alternativa dovrebbe ipotizzarsi che l’obbligo del debitore sussista verso il Tribunale anche se tale organo non è menzionato affatto nell’art. 170, comma 2, il che non sembra facilmente sostenibile.

In caso di inadempimento all’obbligo in oggetto, è lecito ritenere che il Tribunale possa convocare il debitore contestandogli l’inidoneità del suo comportamento ai fini della predisposizione della proposta e del piano, alla luce della scarsa serietà dimostrata, con conseguente abbreviazione del termine.

Verosimilmente tale condotta può configurarsi indirettamente anche come inadempimento all’obbligo di rendere le informative periodiche al Tribunale previste dal comma ottavo, in quanto esse vanno redatte e depositate sotto la vigilanza del commissario giudiziale che qui risulta ostacolata dal mancato adempimento all’obbligo di porre a sua disposizione la documentazione contabile, con conseguente declaratoria di improcedibilità della domanda.

Stante la facoltatività della nomina, vi è da chiedersi sulla base di quali criteri si regolerà il Tribunale.

Probabilmente nella prassi la nomina diventerà progressivamente una costante, tenuto conto del fatto che il Tribunale in questo modo potrà svolgere in modo molto più efficace la sua attività di controllo (del resto, come si diceva prima, alcuni Tribunali avevano già cominciato ad avvalersi di consulenti tecnici per le attività di vigilanza sui debitori ricorrenti, prassi che ora trova più che una mera conferma, addirittura un’imprevista superfetazione nell’intervento normativo, tenuto conto che si è passati dalla figura del semplice C.T.U. a quella del commissario giudiziale pubblico ufficiale, la cui nomina è destinata probabilmente a perdurare anche nel successivo concordato preventivo, se segua effettivamente e sia considerata ammissibile una proposta definitiva di concordato; non potrebbe perdurare invece ove fossero presentati accordi di ristrutturazione dei debiti).

In effetti non c’è miglior mezzo di controllo sull’operato del debitore, per reprimere e fors’anche per prevenire l’eventuale compimento di atti abusivi o fraudolenti, di quello costituito dall’attività di vigilanza svolta da un ausiliario del Giudice con un’adeguata specializzazione in materia contabile, la cui garanzia di indipendenza e imparzialità non è solo frutto di un’irrealizzabile aspirazione (come è a dirsi per la figura dell’esperto attestatore, atteso tra l’altro che ne è prevista la nomina da parte dello stesso debitore), ma è adeguatamente garantita dalla nomina effettuata dal Tribunale (inteso, nella specie, come collegio decidente).

Tuttavia deve anche considerarsi che una prassi che si realizzasse in tal senso non sarebbe del tutto coerente né con tante situazioni concrete, né con la complessiva impalcatura del procedimento prenotativo.

Non con le prime, perché l’attività del commissario giudiziale costituisce comunque un costo aggiuntivo che finirebbe per pesare ulteriormente sempre e comunque sulle finanze, spesso già completamente esauste, del debitore ricorrente, sì che da questo punto di vista l’introduzione di questa figura in via anticipata rispetto al momento della vera e propria ammissione al concordato potrebbe tradursi in una forma indiretta di disincentivazione, pur in mancanza di una correlata anticipazione dell’obbligo di deposito della cauzione per le spese di procedura previsto dall’art. 163, secondo comma, n. 4, l.f. (inutile dire che se fosse stato previsto ex lege anche tale obbligo in via anticipata la disincentivazione sarebbe stata anche maggiore perchè avrebbe fatto da filtro selettivo la situazione di attuale illiquidità che quasi sempre caratterizza le imprese che accedono al preconcordato). Inoltre, in molti casi il ricorrente è un’impresa di assai piccole dimensioni, o che ha già cessato completamente l’attività, e la presenza di un commissario giudiziale potrebbe apparire allora esorbitante rispetto allo scopo perseguito.

Né con la seconda, perché se perdura, come per il momento perdura, non avendo il “Decreto del Fare” modificato nulla su tale aspetto, la possibilità per il debitore di presentare nel termine concessogli dal Tribunale non necessariamente una proposta di concordato preventivo, bensì un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.f., la figura del commissario giudiziale (che, stante l’espresso richiamo all’art. 163, sarebbe anche nel preconcordato proprio e comunque quella del commissario giudiziale che svolge i suoi compiti nel concordato preventivo) finirebbe per risultare retrospettivamente ultronea ed incompatibile, e dunque anche di difficile giustificabilità sul piano dei costi che invariabilmente tale nomina comporta.

D’altra parte non può nemmeno suggerirsi al Tribunale di astenersi dall’effettuare la nomina del commissario giudiziale le volte in cui il ricorrente, ad esempio, anticipasse con il ricorso l’intenzione di presentare un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.f.. Infatti tale espressione di volontà potrebbe anche troppo facilmente tradursi in un mezzo per evitare la nomina del commissario giudiziale, e quindi per sottrarsi ad un’attività di controllo, ben potendo poi il debitore cambiare direzione e proporre un concordato preventivo vero e proprio, comportamento che non potrebbe in effetti né considerarsi abusivo, né per altra ragione vietato o illegittimo, atteso che lo stesso art. 161, sesto comma, consente l’esercizio di tale facoltà, senza sanzionare tardivi pentimenti.

Forse sarebbe stato allora il caso di eliminare del tutto, in sede di conversione in legge, il secondo periodo del comma sesto dell’art. 161, escludendo in radice la possibilità della cd. passerella, ossia la possibilità di presentare non più la proposta di concordato, ma un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.f. (ma anche l’analoga e simmetrica facoltà prevista nell’ipotesi inversa dall’art. 182-bis, ultimo comma), che costituisce una facoltà obiettivamente esorbitante, se si considera che già l’art. 182-bis consente la presentazione di un preaccordo che garantisce effetti protettivi contro aggressioni esecutive ed azioni cautelari analoghi a quelli previsti per il preconcordato.

L’eliminazione di tale possibilità si sarebbe rivelata peraltro idonea a sistematizzare più coerentemente la disciplina del preconcordato, che ora soffre di inevitabili limitazioni applicative in ragione dell’impossibilità di predeterminare con certezza l’esito del procedimento. Non potendosi sapere con certezza, infatti, se poi il debitore presenterà una proposta definitiva di concordato preventivo o invece un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.f., molti Tribunali negano – come si è già detto – la possibilità di sciogliere i contratti pendenti, alla luce del fatto – tra l’altro – che tale scioglimento si rivelerebbe, da un lato, definitivo ed irretrattabile, ma dall’altro incompatibile con una figura – quella dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.f. – cui non soltanto non trova applicazione l’art. 169-bis, ma che nemmeno potrebbe mai risultare compatibile con tale disposizione, atteso che – come già detto prima – l’accordo de quo, per la maggior parte degli interpreti, ancor oggi non ha natura concorsuale, ma contrattuale, ed esige dunque l’ordinario adempimento dei contratti anteriormente stipulati.

Eliminata la possibilità della passerella, il debitore non potrebbe dunque nemmeno cercare di eludere la nomina del commissario giudiziale dichiarando la (falsa) intenzione di presentare poi un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.f. e il Tribunale resterebbe libero di valutare in concreto, caso per caso, se ed in che misura la figura del commissario giudiziale sia opportuna o necessaria sin da subito, o possa invece, per le dimensioni, i caratteri e le attuali condizioni dell’impresa, considerarsi ultronea.

6.4. Segue. Gli obblighi e i poteri del commissario giudiziale.

Quando il commissario giudiziale venga nominato, dovrà assolvere non solo agli obblighi di vigilanza previsti in via generale ed ordinaria dal primo comma dell’art. 167 l.f. in relazione all’amministrazione dei beni da parte del debitore (obblighi di vigilanza che si esprimeranno poi, più in particolare, anche nella vigilanza ai fini della predisposizione della proposta definitiva, come previsto ora dal modificato ottavo comma), ma anche ad un nuovo specifico obbligo: se accerta che il debitore ha posto in essere una delle condotte previste dall’articolo 173 l.f., ossia atti di frode o atti soggetti ad autorizzazione e non autorizzati, deve riferirne immediatamente al tribunale che, nelle forme del procedimento prefallimentare di cui all’articolo 15 l.f., verificata l’effettiva sussistenza delle condotte censurate, potrà, con decreto, dichiarare improcedibile la domanda e, su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, accertati i presupposti di cui agli articoli 1 e 5 l.f., dichiarare il fallimento del debitore con sentenza contestuale (reclamabile a norma dell’articolo 18 l.f.).

In tal modo la nuova disposizione normativizza un’interpretazione giurisprudenziale ormai già assai diffusa, che ha considerato possibile dichiarare improcedibile la domanda in forza dell’applicazione analogica dell’art. 173 l.f. o dei principi generali in tema di abuso del diritto.

In presenza di atti fraudolenti o non autorizzati, l’applicazione dell’art. 173 è stata più volte considerata non immediata e diretta, ma di carattere indiretto, ossia analogico, perché l’art. 173 prevede la revoca di un concordato già ammesso, ipotesi evidentemente non ricorrente in caso di preconcordato.

La legittimità di tale interpretazione analogica poteva peraltro considerarsi confermata anche dal fatto che lo stesso art. 173 viene reputato norma che fa semplice applicazione, a sua volta, in parte de qua, dei principi generali in tema di abuso del diritto, che la S. Corte a sua volta reputa utilizzabili anche in tema di concordato preventivo (e di preconcordato).

Con le nuove modifiche il richiamo all’art. 173 diventa espresso, ma non va inteso, tuttavia, nella sua assoluta letteralità, quanto meno perché non sembrerebbe congruente applicare in caso di preconcordato la fattispecie di cui all’ultimo periodo dell’ultimo comma del suddetto art. 173 (“se in qualunque modo risulta che mancano le condizioni prescritte per l’ammissibilità del concordato”), tenuto conto, per un verso, che nella fase di preconcordato ancora mancano, per definizione, gli elementi integrativi della più gran parte dei presupposti di ammissibilità al concordato (quanto meno quelli diversi dal presupposto soggettivo e dal presupposto oggettivo, vale a dire la qualità di imprenditore fallibile del ricorrente e lo stato di crisi, che devono sussistere sin da subito) e, per l’altro, che addirittura il debitore è libero, come già detto, di depositare entro il termine assegnato dal Tribunale non una proposta di concordato preventivo, ma un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.f., il che per definizione esclude che possano avere attuale rilievo, e comunque prima di tale momento, i (soli) presupposti di ammissibilità del concordato (non potendo avere rilevanza comunque anche quelli di omologabilità dell’accordo di ristrutturazione).

Parimenti, gli atti soggetti ad autorizzazione e non autorizzati che possono determinare la declaratoria di improcedibilità della domanda e l’eventuale conseguente fallimento non sono soltanto quelli di cui all’art. 167, richiamato nell’ultimo comma dell’art. 173, sia perché l’art. 167 contempla solo atti di straordinaria amministrazione soggetti ad autorizzazione del giudice delegato, figura che, come già detto, manca del tutto nel preconcordato; sia perché in tale ultimo procedimento sono soggetti ad autorizzazione (del Tribunale) anche atti speciali non necessariamente riconducibili all’art. 167, siano essi da considerare o meno – quoad naturam – quali atti di straordinaria amministrazione (si tratta dei pagamenti di crediti anteriori per prestazioni essenziali e dei finanziamenti interinali ex art. 182-quinquies l.f., nonché dello scioglimento o sospensione dei contratti pendenti ex art. 169-bis l.f.), atti che, dunque, potranno, se a loro volta compiuti in difetto di autorizzazione, dar luogo alla sanzione di improcedibilità in applicazione estensiva dell’art. 167, come richiamato dall’art. 173, a sua volta evocato dal nuovo sesto comma dell’art. 161.

La prassi ha già registrato un consistente numero di casi in cui la procedura si è rapidamente arrestata per il compimento di atti non autorizzati denunciato dal commissario giudiziale.

Un problema pratico si porrà poi quanto al pagamento del compenso del commissario giudiziale. Esso, stanti i rinvii normativi già prima indicati, andrà calcolato secondo i criteri propri del compenso dovuto al commissario giudiziale del concordato preventivo, ma naturalmente ragguagliato alla sola attività di vigilanza svolta interinalmente.

Se poi seguirà il concordato preventivo, potrebbe procedersi ad una liquidazione finale unica e complessiva che comprenda sia l’attività svolta durante il preconcordato, sia quella svolta durante il concordato preventivo.

Se invece il procedimento preconcordatario si fermi prima, o comunque non sfoci in una procedura concordataria, o sfoci piuttosto in una procedura di omologa di accordi di ristrutturazione, il compenso del commissario giudiziale andrà liquidato in quel momento. Fatto si è che in occasione della nomina del commissario giudiziale il Tribunale dovrà accertarsi che dalla contabilità emerga una situazione attiva tale almeno da garantire la possibilità concreta di pagamento del compenso, perché altrimenti o dovrà astenersi dal nominare il commissario giudiziale o dovrà comunque imporre al debitore una cauzione pro expensis, sebbene nemmeno la disciplina ora modificata preveda che il Tribunale debba fissare sempre quella contemplata dall’art. 163, comma 2, n. 4). Si tratta infatti di una necessità imposta dal diritto non virtuale, ma effettivo, spettante al commissario giudiziale, di percepire il compenso per l’opera da svolgere.

Nelle sedi giudiziarie in cui il Tribunale pone subito a carico del proponente l’obbligo di depositare una cauzione per il pagamento del compenso del commissario giudiziale sembra già registrarsi una relativa riduzione delle domande di preconcordato o comunque un effettuale incremento dei casi di insuccesso per difetto di liquidità.

6.5. Segue. Tipizzazione del contenuto e della periodicità degli obblighi informativi. Conseguenze dell’inadempimento.

È stata introdotta una speciale ipotesi di audizione obbligatoria del commissario giudiziale: quando l’attività compiuta dal debitore si riveli manifestamente inidonea alla predisposizione della proposta e del piano. Tale audizione va correlata alla previsione secondo cui il Tribunale, con il decreto di assegnazione del termine, “dovrà” d’ora innanzi sempre disporre gli obblighi informativi periodici (mentre prima la norma non era formulata espressamente nel senso della doverosità), non solo relativamente alla gestione finanziaria dell'impresa (anche se non sono stati indicati nemmeno ora i criteri con cui va esposta), ma anche riguardo all’attività compiuta dal debitore ai fini della predisposizione della proposta e del piano.

Il debitore dovrà assolvere tali obblighi con periodicità almeno mensile e sotto la vigilanza del commissario giudiziale, se nominato, sino alla scadenza del termine fissato.

La violazione degli obblighi informativi determina l’inammissibilità della proposta ai sensi dell’art. 162, ossia pone una preclusione alla continuazione del procedimento.

Quando invece l’attività compiuta dal debitore si riveli manifestamente inidonea alla predisposizione della proposta e del piano, il che potrà emergere non solo su espressa denuncia del commissario giudiziale, ma – tenuto conto che costui non sempre verrà nominato – anche dal tenore delle informazioni fornite dallo stesso debitore o acquisite aliunde, il tribunale, anche d’ufficio, sentito il debitore (per evidenti necessità di rispetto del contraddittorio) e il commissario giudiziale, se nominato, procederà ad abbreviare il termine già fissato.

Anche tale nuova previsione almeno in parte normativizza un’interpretazione ormai invalsa nella prassi, laddove estende gli obblighi informativi, come molti Tribunali già facevano, anche ai progressi compiuti dal debitore nel predisporre proposta e piano, e nel prevederne inoltre una periodicità almeno mensile.

Da un lato, infatti, è evidente che il termine concesso dal Tribunale deve risultare funzionale allo scopo, che è quello dell’effettiva ed utile predisposizione di proposta e piano, e non può risolversi invece in un semplice termine di grazia per il debitore o un premio per l’inerzia che gli consenta semplicemente di non pagare medio tempore i creditori senza subirne le conseguenze. Ciò spiega appunto la tendenza dei Tribunali, ora divenuta regola di legge, a vigilare anche su tale aspetto.

Non può invece considerarsi quale trasposizione di una prassi già invalsa la previsione secondo cui il Tribunale, quando risulta che l’attività compiuta dal debitore è manifestamente inidonea alla predisposizione della proposta e del piano, procede ad abbreviare il termine già fissato.

Si reputava, infatti, dai più, che tale abbreviazione non fosse possibile una volta concesso il termine, anche tenuto conto che l’inidoneità dell’attività compiuta alla predisposizione della proposta e del piano non sempre può considerarsi oggetto di inerzia o di abuso (ma magari effetto semplicemente di una situazione di speciale difficoltà economica o operativa).

Ora è la norma che concede tale possibilità, anche se, in verità, più che di possibilità sembra più esatto parlare di necessità, poiché, per il modo in cui la norma si esprime, sembra quasi che l’abbreviazione del termine sia un atto dovuto (“Quando risulta che l’attività compiuta dal debitore è manifestamente inidonea alla predisposizione della proposta e del piano, il tribunale, anche d’ufficio, sentito il debitore e il commissario giudiziale se nominato, abbrevia il termine fissato”).

I Tribunali probabilmente in tali casi abbrevieranno il termine fino a renderlo di immediata, imminente scadenza, non avendo senso, una volta acquisita la convinzione che l’attività compiuta dal debitore sia inidonea alla predisposizione della proposta e del piano, attendere oltre, creando – potenzialmente – ulteriori danni ai creditori. Si sarebbe potuto quindi consentire più semplicemente al Tribunale, anziché solo di abbreviare il termine, di applicare direttamente, in via alternativa, l’art. 162 l.f. ai fini di una declaratoria immediata d’inammissibilità/improcedibilità.

Infine, il decreto del “Fare” ha previsto che il debitore, con periodicità che, questa volta, è stata prevista come mensile in via predeterminata, depositi una situazione finanziaria dell’impresa; tale situazione deve essere pubblicata nel registro delle imprese a cura del cancelliere entro il giorno successivo al deposito. La nuova norma conferma anche la sanzione già anteriormente prevista, secondo cui, in caso di violazione di uno qualunque degli obblighi informativi da parte del debitore, il Tribunale può convocarlo in camera di consiglio e dichiarare l’improcedibilità della domanda.

A tale riguardo deve osservarsi come la situazione finanziaria mensile potrebbe duplicare, di fatto, gli obblighi informativi, tenuto conto, per un verso, che questi ultimi prevedono una relazione (anche) sulla gestione finanziaria dell'impresa, che è però formalmente cosa diversa dalla situazione finanziaria, la quale è la mera rappresentazione contabile delle attività finanziarie fotografate in un determinato momento, e, per l’altro, che mentre la situazione finanziaria va depositata con periodicità mensile fissa, le relazioni con cui il debitore assolve agli obblighi informativi possono avere una periodicità anche inferiore al mese (“con periodicità almeno mensile…”). Sarà dunque il caso che i Tribunali, per evitare tale duplicazione, fissino sempre obblighi mensili anche per le relazioni informative.

In ogni caso appare francamente esorbitante la prevista necessità di pubblicazione sul Registro delle imprese da parte del cancelliere della situazione finanziaria entro il giorno successivo al deposito (si noti che tale obbligo riguarda solo la situazione finanziaria e non la normale relazione informativa, che avrà dunque l’onore della pubblicazione solo se redatta contestualmente alla situazione finanziaria). Le cancellerie sono infatti già oberate da una miriade si adempimenti connessi ai procedimenti di preconcordato e certo non giova alla efficienza del loro lavoro la previsione di un ennesimo incombente.

L’incombente, peraltro, nemmeno sembra di particolare utilità, se si tien conto che la pubblicità della situazione finanziaria disposta (sembra solo per trasparenza) a vantaggio dei creditori non può certo produrre, una volta conosciuta dai creditori, un’utilità maggiore di quella che deriva già dalla conoscenza che ne abbiano il Tribunale ed il commissario giudiziale per effetto del deposito della situazione stessa in cancelleria.

Più in generale, peraltro, deve evidenziarsi che il “Decreto del Fare” ha imposto al Tribunale di prescrivere sempre gli obblighi informativi periodici pur facoltizzandolo a nominare un commissario giudiziale. L’unico modo per evitare che il Tribunale debba continuare a svolgere una miriade di controlli sulle relazioni periodiche nonostante la nomina del commissario giudiziale, che dovrebbe servire proprio per sollevare il Tribunale da questi incombenti, è disporre, nei decreti con cui si fissa il termine, s’impongono gli obblighi informativi e si nomina il commissario giudiziale, che le relazioni periodiche vengano trasmesse direttamente al commissario giudiziale, in modo che sia il commissario giudiziale a poter svolgere direttamente ed efficacemente la vigilanza sull’attività oggetto delle relazioni informative, che la stessa norma prevede espressamente come suo compito (“obblighi informativi periodici, …. che il debitore deve assolvere, … sotto la vigilanza del commissario giudiziale se nominato”). Il commissario giudiziale riferirà poi al Tribunale solo in presenza di situazioni anomale, dando motivate spiegazioni al riguardo, in modo da attivare i poteri officiosi per le eventuali declaratorie di improcedibilità o di abbreviazione del termine.

La possibilità che le relazioni periodiche, anziché essere depositate in cancelleria a disposizione del Tribunale, siano inviate direttamente al commissario giudiziale (o anche al commissario giudiziale) deriva anche dal confronto letterale con la previsione riguardante l’obbligo mensile di predisposizione di una situazione finanziaria, della quale è espressamente previsto il “deposito”, laddove invece l’indicazione delle modalità di assolvimento degli obblighi informativi è lasciata alla discrezionalità del Tribunale.

***

Concludendo questa veloce carrellata, si può dire che il cantiere delle riforme e dei ritocchi normativi dovrà restare necessariamente ancora aperto, sia per la necessità di perfezionare – come anche qui suggerito – talune delle misure già introdotte, sia, come ormai si auspica da più parti, per introdurre finalmente un ventaglio adeguato di misure di allerta e prevenzione che consentano di anticipare l’ostensione della crisi e l’intervento risanatore volto al suo superamento.In difetto di un intervento normativo caratterizzato da questa finalità la disciplina del preconcordato continuerà verosimilmente a produrre esiti deludenti ed inefficienti come quelli registrati finora.

 

1

Testo della relazione predisposta per il convegno organizzato da AREL: La crisi economica e la tutela del patrimonio produttivo dell’impresa. Esperienze applicative delle nuove norme per il risanamento: le criticità; Milano, ABI, 31 ottobre 2013.


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