La sentenza in commento ha disposto la condanna di persone fisiche e giuridiche in relazione al delitto di truffa aggravata in danno del Comune di Milano nella stipula dei contratti derivati.
In questa sede si intende svolgere qualche considerazione sulla parte della motivazione relativa alla responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del d.lg. 231/2001.
Il giudice ritiene accertata la commissione del reato contestato da parte di soggetti (apicali e non1) incardinati presso gli enti imputati, nell’interesse e a vantaggio delle società.
Dal processo sarebbe emersa una vera e propria politica d’impresa che spingeva verso quei comportamenti delittuosi (il Giudice parla di persona giuridica “ispiratrice e complice”2).
Insomma, l’illecito dell’ente è integrato: trattasi di un reato-presupposto commesso da un soggetto indicato nell’art 5 ed oggettivamente riconducibile all’ente per il tramite del criterio dell’interesse (ex ante) e del vantaggio (accertato ex post in concreto).
Spettava agli enti, a questo punto, la prova dell’elemento impeditivo della definitiva ascrizione di responsabilità, rappresentato dall’adozione e dall’attuazione di un idoneo Modello organizzativo.
Sul punto il Giudice testualmente afferma:
Sulla base di tali considerazioni non risultano nemmeno ipotizzabili profili di rilievo ai fini della verifica della sussistenza delle cause di esclusione della responsabilità dell’ente di cui all’art 6 d.lg. 231/2001: tutte le società ritenute responsabili hanno certamente adottato modelli di organizzazione e di gestione idonei, in astratto, a prevenire fatti come quelli fin qui considerati, ma, come si è visto, i modelli preesistenti non risultano aver avuto alcuna efficacia preventiva ed appaiono (ad una lettura non superficiale) solo una attenta precostituzione di alibi, al solo fine di garantire ai funzionari di grado superiore una specie di impunità per quanto eventualmente commesso dai vari sellers o traders nella stipula dei contratti effettuati.
Le procedure allora in vigore prodotte dalle difese non sono quindi in alcun modo da ritenersi concretamente efficaci e, per loro struttura, non erano in alcun modo idonee a impedire reati di truffa ai danni di enti pubblici, come quelli qui contestati.
In particolare, l’unica procedura in vigore al momento dei fatti di cui si tratta e che avrebbe potuto avere qualche rilevanza in questo procedimento, è quella relativa al corretto trattamento dei clienti ed alla loro classificazione, che tuttavia, pur sussistente, non indica alcuna misura idonea a prevenire eventi illegittimi o comunque eventualità di scorretto trattamento, mentre i codici etici contengono soltanto un generico divieto di fatti illeciti, non seguito da alcuna procedura idonea al controllo e all’impedimento degli stessi.
Trattasi, ad avviso di chi scrive, di motivazione meritevole di molteplici considerazioni critiche.
La valutazione del modello organizzativo
Colpisce in primis la brevità della motivazione sullo specifico punto: delle poche pagine dedicate alla responsabilità degli enti, soltanto pochi righi sono stati vergati per escludere la rilevanza esimente dei Modelli.
Va precisato: la brevità non è un difetto in quanto tale, ma può diventarlo, se il contenuto di quello che si scrive non corrisponde ai corretti canoni motivazionali imposti al giudicante dalla legge (nella specie: dal d.lg. 231); oppure se la motivazione è apparente, contenendo mere clausole di stile o assunti assiomatici.
Non appare innanzitutto corretto affermare che “Sulla base di tali considerazioni (reati commessi in esecuzione di una politica di impresa, n.d.a.) non risultano nemmeno ipotizzabili profili di rilievo ai fini della verifica della sussistenza delle cause di esclusione della responsabilità dell’ente”.
Tale argomentazione trova un precedente in termini nella menzionata ordinanza Impregilo, che, sul punto, usava il diverso aggettivo “ridondante”:
Le considerazioni appena svolte rendono ridondante ogni ulteriore valutazione in ordine all’imputazione soggettiva alle indagate…
Il Modello ha rilievo anche nell’ipotesi di c.d. responsabilità “dolosa”, da politica d’impresa che spinge al reato; a meno di non voler ipotizzare un’impresa intrinsecamente illecita, la quale è definitivamente interdetta ex art 16, e comunque estranea alla vicenda in oggetto.
Quest’ultimo passaggio è evidenziato pure nella relazione di accompagnamento del d.lg. 231:
Ai fini della responsabilità dell'ente occorrerà, dunque, non soltanto che il reato sia ad esso ricollegabile sul piano oggettivo (le condizioni alle quali ciò si verifica, come si è visto, sono disciplinate dall'art. 5); di più, il reato dovrà costituire anche espressione della politica aziendale o quanto meno derivare da una colpa di organizzazione. All'ente viene in pratica richiesta l'adozione di modelli comportamentali specificamente calibrati sul rischio-reato, e cioè volti ad impedire, attraverso la fissazione di regole di condotta, la commissione di determinati reati. Requisito indispensabile perché dall'adozione del modello derivi l'esenzione da responsabilità dell'ente è che esso venga anche efficacemente attuato: l'effettività rappresenta, dunque, un punto qualificante ed irrinunciabile del nuovo sistema di responsabilità.
Il famigerato circolo vizioso
“Se un reato è stato commesso, il Modello non ha funzionato e, di conseguenza, l’esenzione dalla responsabilità va negata”
non deve avere diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico.
La nota “sentenza Impregilo”3 lo ribadisce in termini netti:
Del resto non avrebbe senso ritenere inefficace un modello organizzativo per il solo fatto che siano stati commessi degli illeciti da parte dei vertici della persona giuridica, in quanto ciò comporterebbe ovviamente la pratica inapplicabilità della norma contenuta nell’art 6…
Occorre in altre parole stabilire se prima della commissione del fatto fosse stato adottato un corretto modello organizzativo e se tale modello con valutazione ex ante potesse considerarsi efficace per prevenire gli illeciti societari oggetto di prevenzione.
In secondo luogo è una contraddizione in termini affermare l’idoneità in astratto di un Modello se le procedure aziendali sono ritenute inidonee.
Le procedure aziendali rappresentano il cuore del Modello: disciplinano le attività a rischio di reato e quelle c.d. strumentali.
Si tratta di requisito richiesto dalla (peraltro scarsa) giurisprudenza, a partire dall’ordinanza sul “caso IVRI”4, che ha messo l’accento sulla specificità dei protocolli che devono attuare in dettaglio eventuali generali direttive di comportamento contenute nel Modello stesso5.
La menzionata sentenza Impregilo ha ritenuto specificamente rilevante, ai fini dell’assoluzione della società,la bontà della procedura sullo specifico rischio di reato contestato (manipolazione del mercato), esaminandone i contenuti.
Se le procedure non sono idonee – e, in particolare, se non è idonea la procedura che dovrebbe regolare l’attività sensibile interessata dal procedimento penale – il Modello è esso stesso inidoneo, già in astratto, in quanto non contenente adeguate misure preventive.
Infine, assolutamente privo di motivazione lo spunto potenzialmente più innovativo della motivazione, secondo il quale i Modelli
appaiono (ad una lettura non superficiale) solo una attenta precostituzione di alibi, al solo fine di garantire ai funzionari di grado superiore una specie di impunità per quanto eventualmente commesso dai vari sellers o traders nella stipula dei contratti effettuati.
Da un punto di vista scientifico lo spunto è particolarmente raffinato; sotto un profilo processuale trattasi di valutazione molto grave, che, ovviamente, esigeva una motivazione “robusta”.
Una riflessione di questo tipo è emersa anche nel procedimento c.d. “Farmatruffa”,conclusosi qualche anno fa dinanzi al Tribunale di Bari6, laddove è stata evidenziata dai periti del GIP, in sede di incidente cautelare, una certa filosofia di costruzione del Modello e dell’ODV finalizzata a “scaricare a valle” le responsabilità dei vertici aziendali:
Ciò che viene in considerazione è un’istanza di controllo nei confronti delle posizioni di vertice e non tanto e non solo verso i dipendenti.
Ne deriva che la conformazione dell’organismo di vigilanza, pure rimessa alla discrezionalità di chi lo nomina (il CdA), non può, logicamente, prima ancora che giuridicamente, riversare una commistione tra controllori e controllati: non devono, cioè, essere chiamati a far parte dell’organo soggetti che svolgono funzioni di vertice e che, proprio per questa ragione (come vuole l’art. 6), sono sottoposti a controllo.
L’azienda ha incentivato significativamente la politica della prevenzione essenzialmente nei confronti dei dipendenti, specie sul versante dei rischi connessi alla commercializzazione dei farmaci.
Ad avviso di chi scrive la conclusione che il Modello fosse meramente “cosmetico”, come usa dirsi, non può che derivare dall’attento esame della sua attuazione in concreto, di cui deve darsi conto in motivazione.
Inoltre, se il giudice ritenesse di ravvisare addirittura una politica criminosa d’impresa, potrà essere sempre agevolmente negata l’elusione fraudolenta del Modello stesso.
Ma tutto ciò è il risultato del ragionamento decisorio, non certo la sua premessa assiomatica.
Conclusioni
Dalla ricognizione della giurisprudenza che si è soffermata sui Modelli organizzativi si ha l’impressione (forse sarebbe meglio dire: la certezza) che la responsabilità dell’ente venga vista come un quid minoris rispetto a quella delle persone fisiche.
Qualcosa che si può sbrigativamente sancire, senza andare troppo per il sottile; in maniera pressoché automatica nelle ipotesi di reati degli apicali; con pochissime parole sulla compliance preventiva che, invece, potrebbe giustificare l’assoluzione.
Tale atteggiamento – da un lato comprensibile avuto riguardo alla tradizione del “diritto penale della persona fisica” – non può in alcun modo essere giustificato, proprio alla luce del tipo di responsabilità, punitiva e para-penale, prevista dal d.lg. 231.
Lo spettro della responsabilità oggettiva, seppur sempre negato a parole, continua ad agitarsi minaccioso.
Non tanto, a ben vedere, nel riscontro del collegamento soggettivo e del requisito dell’interesse/vantaggio; quanto nell’annacquamento della prova contraria.
Il Giudice ben può avere la percezione di società lontane dall’essere good citizens; di società che creano apparenza di diligenza; di società che coprono la loro spregiudicatezza illecita con la paper compliance.
La percezione del giudice è di sicura importanza, ed è inevitabile: ma, certamente, è solo il primo tassello del ragionamento decisorio.
Nella sentenza di condanna il giudice deve spiegare le ragioni sulla base delle quali non ravvisa l’esimente, esattamente in relazione al contenuto della stessa ex artt 6 e 7.
Deve ancora una volta ribadirsi che – per i reati dei vertici7 – è la società a dover dimostrare la “compliance 231”.
Incisiva ancora una volta l’ordinanza Impregilo:
L’oggetto della verifica rimessa al Giudice è dunque duplice, essendo necessaria una valutazione sull’idoneità del modello e cioè sulla completezza, esaustività e specificità delle sue previsioni, in punto di individuazione e tipizzazione delle misure organizzative e di controllo, nonché sull’efficacia della sua attuazione, sulla concreta misurazione dei presidi predisposti alla realtà effettuale ed operativa.
La prima indagine va svolta sul modello, sul suo contenuto dichiarativo e descrittivo, la seconda, comportando la valutazione di circostanze fattuali concrete necessita di ulteriori elementi e dati di natura obiettiva, alla cui emersione, nella fase del giudizio ovvero nella fase incidentale della cautela, deve provvedere il soggetto su cui incombe il realtivo onere dimostrativo e cioè lo stesso ente che subisce il rischio sostanziale del mancato accertamento.
Il giudice deve attendere la prova impeditiva dell’ente e se non viene persuaso della sua diligenza organizzativa applicherà la sanzione.
In altri termini, sotto il profilo decisionale, si trova forse nella più facile posizione di dover “contestare” la prospettata diligenza da parte dell’ente.
In definitiva, per escludere la rilevanza esimente dei Modelli il giudice avrebbe dovuto, anche in maniera sintetica, ma certamente non criptica:
- evidenziare l’insufficienza della mappatura del rischio di truffa in danno di ente pubblico, fornendo una risposta al seguente quesito: i Modelli esaminati avevano chiaramente ipotizzato la possibilità di raggirare l’ente pubblico nei contratti del tipo sub iudice?
- valutare l’adeguatezza in astratto dei presidi interni a gestire quello specifico rischio di truffa, rispondendo alla domanda: le procedure per la negoziazione erano adeguate a disciplinare tale attività (ad esempio: sotto il profilo della segregation of duties, degli snodi informativi all’ODV, dell’archiviazione ecc.)?
- valutare se quelle procedure erano applicate, oppure se vigeva una prassi di negoziazione difforme rispetto alle procedure;
- valutare la disciplina dell’ODV;
- valutare l’effettività della vigilanza dell’ODV;
- valutare l’esistenza e l’idoneità del sistema sanzionatorio interno.
Alcuni dei requisiti sopra indicati attengono all’idoneità in astratto del Modello organizzativo, altri alla sua effettiva attuazione.
All’ente, per andare assolto, servono tutti, sia quelli relativi all’idoneità in astratto che quelli relativi all’attuazione in concreto; al Giudice, invece, per escludere l’esimente è sufficiente l’inidoneità in astratto8.
Da ultimo – ma di certo non per importanza9 – gli enti avrebbero dovuto dimostrare l’elusione fraudolenta del Modello: il giudice avrebbe potuto contestare tale ricostruzione, ad esempio affermando che si trattava di una mera violazione delle regole10 e non di vera e propria “frode interna”.
In ogni caso, facendo ricorso ad un concetto più rigoroso di elusione fraudolenta rispetto a quello che ha mostrato di seguire la sentenza Impregilo11.
Quanto sopra detto vuole soprattutto fondare, pro futuro, l’auspicio che la “compliance 231” assurga a momento centrale dei processi e a capitolo fondamentale delle successive sentenze.
Altrimenti la tanto decantata filosofia preventiva della responsabilità ex crimine degli enti, che dovrebbe condurre il sistema economico a conciliare etica e profitto, finirà su un binario morto nei prossimi anni.
1
Un altro aspetto importante, ma che non verrà affrontato in questa nota di commento, attiene al mancato approfondimento in motivazione, in tutte le sue implicazioni, della distinzione tra “apicali” e “sottoposti”, soprattutto in relazione all’onere probatorio relativo all’adozione e attuazione dei Modelli organizzativi, il quale, per i reati commessi dai c.d. sottoposti, non è invertito a carico dell’ente (art 7), come quello ex art 6 , relativo alle ipotesi di reato commesso da soggetti apicali.
2
Ripetendo quasi testualmente il passo motivazionale della nota ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli (26 giugno 2007: “ordinanza Impregilo”), resa nell’ambito di un incidente cautelare:
Ed è proprio il coinvolgimento nei fatti di cui alla provvisoria imputazione di un numero così rilevante di soggetti apicali ed anzi dei più alti vertici delle società che, rimasta incontesta ed anzi esclusa dal dato probatorio la sussistenza dell'interesse esclusivo proprio o di terzi che ne abbia teleologicamente orientato l'azione, induce a ritenere che l'ente sia stato "il vero istigatore, esecutore e beneficiario delle condotte materialmente commesse" dalle persone fisiche in esso inserite e che vi svolgevano le più alte funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione. Omissis.
E analoga conclusione è autorizzata dall'univoco dato probatorio, chè tale può qualificarsi il dato che in questa fase basterebbe fosse indiziario, per i soggetti sottoposti all'altrui direzione e vigilanza, giacchè essi non hanno agito, come autenticamente ammesso nelle conversazioni riservate e negli interrogatori resi al P.M. (cfr. dichiarazioni di …), violando le regole comportamentali e aggirando i presidi di controllo apprestati dalle rispettive società, ma in esecuzione delle direttive ricevute, pienamente condivise, volontariamente realizzate.
Le loro condotte, in piena aderenza agli imput forniti dai vertici preposti alla loro vigilanza e controllo, si sono uniformate alle istruzioni, alle prassi aziendali; esse si iscrivono nella complessiva strategia imprenditoriale concretamente assunta, sicchè è la persona giuridica attraverso i suoi organi, e nella pienezza della immedesimazione con gli stessi, che risulta ispiratrice e complice dei comportamenti delittuosi e, dunque, responsabile di fatti che certamente non possono esserle addebitati a titolo di mera culpa in vigilando.
5
Il quale, altrimenti, avrebbe – per usare termini consueti al diritto costituzionale – natura meramente programmatica e non immediatamente precettiva.
6
Procedimento per i reati di corruzione e truffa in danno del Servizio sanitario nazionale da parte di medici, farmacisti e personale di alcune società farmaceutiche. Le società imputate ai sensi del d.lg. 231 hanno patteggiato la sanzione, dopo aver modificato ed integrato i loro Modelli organizzativi alla luce delle indicazioni dei periti del GIP e dei consulenti tecnici del PM. Sul tema: Viscardi, Prevenzione del rischio-reato e standard di adeguatezza delle cautele: i modelli di organizzazione e di gestione di società farmaceutiche al banco di prova di un'indagine peritale, Cass. pen., 3/2010; Arena, La prevenzione della corruzione nelle aziende farmaceutiche, Filodiritto Editore, 2011.
7
Sul punto non si condivide l’approccio fornito dalla menzionata ordinanza Impregilo, secondo cui anche nell’ipotesi di reato commesso da soggetto non apicale, l’onere della prova ricadrebbe sull’ente imputato:
Siffatta conclusione non appare, invero, condivisibile, posto che, poiché la valutazione che il giudice dovrà compiere sul modello è identica in entrambe le fattispecie (sia che il reato sia commesso da soggetto apicale, sia che sia commesso da sottoposto) e comporta una disamina del suo contenuto – sotto il profilo dell'idoneità – e della sua attuazione – sotto il profilo dell'efficacia – sarà indubbiamente interesse dell'ente che al riguardo risulta obiettivamente dotato di maggiori poteri conoscitivi dimostrare, in ambedue i casi, l'adozione di idonei strumenti comportamentali ma soprattutto dimostrarne l'efficace attuazione attraverso l'effettiva e costante implementazione del modello, così validamente interloquendo sull'istanza di coercizione ovvero sulla contestazione formulata.
8
Le tre ordinanze di riferimento (FINSPA (GIP Tribunale Roma 4 aprile 2003) e le menzionate IVRI e IMPREGILO), escludono l’idoneità in astratto dei Modelli esaminati, non soffermandosi neppure sul profilo dell’attuazione in concreto. Questa è la stessa impostazione della sentenza Impregilo, criticata in dottrina (oltre che nell’appello della Procura) proprio per l’esclusiva attenzione al dato formale.
9
E neppure per criticità teorica, trattandosi del principale elemento di prova contraria che fa parlare di probatio diabolica a carico dell’ente, ai limiti della responsabilità oggettiva.
10
Scontata, con ogni probabilità, alla luce dell’affermazione secondo cui i dipendenti hanno agito “non violando le regole comportamentali o aggirando i presidi di controllo” ma “in esecuzione delle direttive ricevute, pienamente condivise e volontariamente realizzate”.
11
In breve: aggiramento del Modello con artifizi e raggiri (come indicato pure nelle “Linee-guida 231” di Confindustria) e non mera violazione dello stesso. L’opzione più soft, accolta nel caso Impregilo, rende ovviamente più agevole la prova contraria dell’ente.