Sembrerebbe inutile esercizio commentare l’ennesima sentenza in tema di azione revocatoria e trust (attendiamo, invece, le prime pronunce applicative dell’art. 2929 bis, c.c.)., tuttavia quella del Tribunale di Bergamo è degna di nota perché, pur accogliendo la domanda (ma, come vedremo, con modalità alquanto discutibili), è priva di quella chiarezza che dovrebbe caratterizzare le sentenze emesse dai tribunali della Repubblica Italiana.
I fatti alla base del processo sono consueti: tre persone fisiche, fideiussori di una s.r.l., di cui erano stati amministratori, istituiscono un trust. Una banca, loro creditrice, agisce chiedendone la revoca (ex art. 2901 c.c.).
Nella parte in fatto della sentenza si riporta una clausola dell’atto di trust che recita “gli istituenti costituiscono in trust e trasferiscono in piena proprietà ai trustees i beni e i diritti di cui a un allegato A”.
Il giudice tuttavia rileva d’ufficio e in via incidentale la nullità dell’atto costitutivo del trust, avendo le parti instaurato un contraddittorio su tale questione (ex art. 101 c.p.c., infatti, se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione).
Osserva il giudice che con l’istituzione del trust il disponente si spossessa dei beni e li attribuisce in proprietà al trustee che assume l’obbligo di amministrarli nell’interesse dei beneficiari individuati dallo stesso disponente.
Sulla base di questa “definizione” della fattispecie il giudice rileva che l’atto di trust prevede coincidenza fra la figura del disponente e quella dei trustees, ovvero, si dice nella sentenza “coloro cui vengono trasferiti i beni conferiti in trust”. I beneficiari, invece, non sono indicati nell’atto, essendosi riservati i disponenti di nominarli successivamente. Si tratterebbe quindi di un trust c.d. autodichiarato (sulla questione della mancata indicazione dei beneficiari ci soffermeremo più avanti).
Ritiene quindi il giudice che l’atto sia nullo in quanto elemento caratteristico del trust sarebbe il trasferimento dei beni a un terzo (= il trustee) e cita a tal proposito, per supportare la propria argomentazione, anzitutto l’art. 2 della Convenzione de L’Aja, che nel definire il trust usa l’espressione “beni posti sotto il controllo di un trustee”.
Da tale norma il giudice ricava l’inammissibilità del trust autodichiarato. A tale affermazione si può replicare anzitutto rinviando ai lavori preparatori della Convenzione de L’Aja, da cui risulta con molta chiarezza che la ricomprensione del trust autodichiarato nell’ambito definitorio dell’art. 2 Conv. fu data per scontata da tutti i delegati. In secondo luogo osservando: a) che l’art. 2 Conv., laddove parla di “disponente” e “trustee” non postula affatto che costoro siano soggetti diversi; b) che l’art. 2 Conv., quando parla di “controllo”, introduce una nozione convenzionale di trust più ampia di quella propria del modello tradizionale anglosassone e che pertanto in detta più ampia nozione non può che rientrare anche il trust autodichiarato, che è una tipologia di trust senz’altro rientrante nel modello tradizionale.
Il giudice cita inoltre, a sostegno della propria affermazione, l’ordinanza della Corte di Cassazione, Sez. Trib., 24.2.2015, n. 3735, nonché Cass. pen., 24.1.2011, n. 13276, la quale tuttavia – almeno a parere di chi scrive – non ha negato la configurabilità del trust autodichiarato, ma si è limitata ad affermare, per confermare la legittimità di un sequestro preventivo penale, che presupposto essenziale affinché si possa parlare di trust è che il disponente perda la “disponibilità” di quanto abbia “conferito” in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive, aggiungendo poi che, ove risulti che la “perdita del controllo” dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio.
Se rispetto alla sentenza della Cassazione civile, peraltro resa in materia tributaria, si possono ripetere le osservazioni sopra riportate circa l’interpretazione dell’art. 2 Conv., rispetto alla sentenza della Cassazione penale può osservarsi che l’art. 2 Conv. non parla di perdita di “disponibilità” (espressione che sembra alludere all’esigenza di un effetto traslativo), né di “perdita di controllo”, ma richiede che i beni siano “posti sotto il controllo” di un trustee. Che quindi una persona possa dichiararsi trustee di certi beni, che dal momento della dichiarazione in poi inizia a “controllare” nella diversa veste di trustee e non più nella precedente veste, non è affatto escluso dall’art. 2 Conv.
Il tema vero è, invece, un altro, che rileva per tutte le fattispecie di trust, a prescindere dalla loro struttura, autodichiarata o meno: affinché certi beni possano considerarsi “posti sotto il controllo di un trustee”, coincida o meno costui con il disponente, è necessario che muti il precedente rapporto tra il disponente e i beni. In altri termini, se dopo l’istituzione del trust nulla cambia, significa che ciò cui il disponente ha dato luogo è un simulacro di trust, una situazione di mera apparenza.
Il giudice ritiene tuttavia di aggiungere una considerazione che a chi scrive appare incomprensibile: poiché l’effetto tipico del trust, si afferma, consiste nella segregazione del patrimonio del disponente, tale effetto contrasterebbe con l’art. 2740 c.c. (ritenuto addirittura “principio di ordine pubblico”, ciò che, ancor più dopo l’introduzione dell’art. 2645 ter c.c., non è sostenibile in alcun modo), “allorché le caratteristiche dell’atto non consentano di rispettare la causa dell’istituto (corsivo di chi scrive)”.
Si confondono, evidentemente, piani che con la struttura dell’atto negoziale nulla hanno a che vedere.
La “causa” del trust, infatti, non dipende certo dall’essere il trust autodichiarato o meno. Essa, che è essenzialmente “variabile”, andrà ricercata sulla base del “programma” contenuto nell’atto istitutivo, attraverso la cui realizzazione il disponente potrà, ad es., realizzare una liberalità in favore dei beneficiari, garantire l’adempimento di obbligazioni, assicurare assistenza a un disabile, liquidare una società e quant’altro la pratica professionale possa immaginare.
Quanto alla separazione patrimoniale, essa costituisce l’effetto tipico di qualunque trust, sia esso autodichiarato o meno, come si ricava dall’art. 11 Conv.
Se così è, e non dubitiamo che così sia, delle due l’una: o il trust autodichiarato è ammissibile, e allora sicuramente si produrrà l’effetto di separazione patrimoniale, salvo verificare se la “causa concreta” del trust sia lecita o, come molti ritengono, meritevole di tutela; oppure il trust autodichiarato è inammissibile, cioè nullo, e allora non si pongono, per ovvie ragioni, né questioni di “causa” né di “effetto”.
Il giudice, a questo punto, anziché fermarsi alla nullità del trust, prova a “ricondurlo” all’atto di destinazione ex art. 2645 ter, c.c. dichiarandolo però ugualmente nullo sia per mancanza del requisito dell’altruità dell’interesse, ritenuto elemento essenziale affinché un negozio di destinazione possa essere stipulato, sia per mancanza di meritevolezza dell’interesse.
Quanto all’altruità dell’interesse, rileva che la mancanza di indicazione dei beneficiari a distanza di oltre un anno dalla stipula fa sì che i beneficiari si debbano ritenere coincidenti con i disponenti/trustees (operazione che a chi scrive pare una forzatura, perché se è vero che l’art. 2645 ter c.c. richiede l’indicazione dei beneficiari e i disponenti non li hanno indicati non può il giudice, autoritativamente, considerare tali gli stessi disponenti).
Quanto alla meritevolezza degli interessi, la ritiene insussistente a causa dell’estrema genericità delle finalità indicate nell’atto.
In altri termini, il giudice prova ad applicare l’art. 1424 c.c. (applicabile anche agli atti unilaterali per via del rinvio fatto dall’art. 1324 c.c.), il quale prevede che il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità, ma nega la praticabilità della conversione per ragioni di sostanza (si ipotizza, perché dalla sentenza non si ricava, che il trust fosse stato stipulato per atto pubblico).
Prima di proseguire oltre (perché la sentenza presenta altre “sorprese”, una delle quali nel dispositivo) è il caso di svolgere una considerazione di metodo, che a mio avviso avrebbero condotto a una più semplice soluzione della questione, evitando di prendere posizione circa la ricomprensione del trust autodichiarato nell’ambito definitorio di cui all’art. 2 Conv.
Lo stesso giudice ricorda che con l’istituzione del trust il disponente si spossessa dei beni e li attribuisce in proprietà al trustee che assume l’obbligo di amministrarli nell’interesse dei beneficiari individuati dallo stesso disponente. E dice anche che i beneficiari del trust non sono indicati nell’atto, essendosi riservati i disponenti di nominarli successivamente.
Ecco, di fronte a questa situazione, il giudice, in assenza di prova circa l’avvenuta designazione dei beneficiari del trust avrebbe semplicemente dovuto dichiarare che alcun trust era sorto e, di conseguenza, alcun effetto di separazione patrimoniale si era prodotto.
Poiché nel trust oggetto di indagine i disponenti avevano omesso di individuare ab initio i beneficiari si trattava infatti – per così dire – di un trust “in incertam personam”.
Questo trust non era allora validamente sorto, in quanto, com’è noto, affinché un trust (non di scopo) possa validamente sorgere è necessaria la contemporanea presenza di tre requisiti (le c.d. tre certezze): a) l’intenzione del disponente di istituire un trust (certainty of intention); b) la presenza di un trust fund (certainty of subject matter); c) la certezza circa i beneficiari in favore dei quali il trust viene istituito (certainty of objects).
Evidentemente, nel caso di specie, mancava una delle tre certezze, cioè la certezza dei beneficiari.
Vero è che secondo autorevole dottrina[1] siffatti trusts sarebbero comunque validi in quanto si “convertirebbero” in altrettanti resulting trust aventi quale beneficiario il disponente, ovvero (se costui sia deceduto) i suoi eredi. Tale osservazione però non pare persuasiva, non tanto perché l’ammissibilità del resulting trust nel nostro ordinamento è (visto il tenore degli artt. 3 e 20 Conv.) discussa, quanto e soprattutto perché il resulting trust è un trust distinto dal trust negoziale a suo tempo istituito dal disponente: esso ha infatti fonte in una sentenza che, in applicazione di una regola di equity, accerta l’esistenza di un obbligo restitutorio del trustee quale conseguenza – appunto – dell’invalidità o della sopravvenuta impossibilità di detto trust di fonte negoziale.
Affermare che un trust negoziale non è nullo perché si converte in resulting trust, pertanto, significa in realtà ammettere che detto trust negoziale è ab initio improduttivo di qualunque effetto.
A tutto concedere, un trust in cui il disponente si riserva il potere di individuare in seguito i beneficiari potrebbe essere inteso (invece che come negozio nullo) come una fattispecie a formazione progressiva non ancora perfezionatasi: come tale, comunque, fino al momento del suo perfezionamento (cioè fino a quando il disponente non identifichi i beneficiari) esso non parrebbe in grado di produrre il caratteristico effetto finale del trust, dato dalla separazione patrimoniale.
Pertanto, senza necessità di scomodare la categoria della nullità (dipendente da una carenza di natura strutturale, cioè il trasferimento dei beni dal disponente al trustee), da un lato il giudice avrebbe potuto dichiarare semplicemente inefficace il trust per mancato perfezionamento della fattispecie istitutiva; dall’altro la banca creditrice avrebbe potuto aggredire direttamente con l’azione esecutiva i beni in trust, non essendosi prodotto alcun effetto di separazione patrimoniale.
Chiusa questa parentesi, proseguiamo brevemente nell’analisi della sentenza, nella quale si parla di “accertata nullità” del trust, di “accoglimento della declaratoria di inefficacia” e di “riscontrata nullità”, non opponibile alla banca attrice.
Basterebbe questo per concludere, appunto, con la declaratoria di nullità dell’atto, che lo stesso giudice ritiene non violi la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, in quanto consente di assicurare gli effetti cui è tesa la domanda introdotta.
Invece il giudice accoglie la domanda revocatoria (meglio: sembra accogliere, perché il dispositivo, come vedremo, è ambiguo), con un passaggio concettuale che desta serissime perplessità, essendo palesemente in contraddizione con quanto fino a quel momento affermato.
Si dice infatti che non v’è dubbio che “l’atto di conferimento dei beni di proprietà dei convenuti nel trust costituisca atto di disposizione del patrimonio”: la ricostruzione svolta nella sentenza viene completamente modificata. Dal trust autodichiarato, nullo in quanto non traslativo, all’atto di conferimento “nel trust”, considerato alla stregua di una sorta di “ente”, quale atto dispositivo revocabile in quanto gratuito e pregiudizievole alle ragioni dei creditori.
Ma non è finita qui. Nel penultimo paragrafo della sentenza (prima del P.Q.M.), un’ulteriore modificazione: si dichiara l’inefficacia dell’atto con il quale … “sono stati trasferiti in piena proprietà ai trustees” i beni immobili indicati nell’allegato A”.
Dal trust autodichiarato al conferimento “nel trust”, dal conferimento “nel trust” al trasferimento ai trustees.
Infine, e l’osservazione non è priva di rilievo, il dispositivo della sentenza: il giudice dichiara “inefficace” l’atto istitutivo del trust.
Alla luce di tutto quanto sopra osservato, non è per nulla chiaro a cosa corrisponda tale “inefficacia”. La banca aveva infatti chiesto la revoca dell’atto, il cui accoglimento determina senza dubbio l’inefficacia dell’atto, ma solo a vantaggio del creditore agente; il giudice, nella parte motiva della sentenza, ha parlato di “accertata nullità” che anch’essa determina inefficacia, ma erga omnes.
Dichiarare “inefficace” l’atto, nel dispositivo della sentenza, senza precisare se tale inefficacia discenda dall’accoglimento della domanda di revoca ovvero dal rilievo d’ufficio della nullità dell’atto, non è certo indifferente dal punto di vista del creditore.
Lascio ai processualisti l’interpretazione del dispositivo alla luce della motivazione.
La conclusione è però obbligata: «Trust: un istituto da maneggiare con cura».
[1] M. Lupoi, L'atto istitutivo di trust, Milano, 2005, 75.