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Dossier

Commento all’ordinanza della Corte di Cassazione del 25 febbraio 2015, No. 3886 in tema di imposta indiretta e trust autodichiarato

14 Giugno 2015

Giulio Errani, LLM

Premessa

L’obiettivo di questa nota è cercare di fare chiarezza sulle recenti pronunce della sezione Tributaria della Suprema Corte riguardanti il trattamento fiscale e, in certi casi, l’ammissibilità stessa dei trust nel nostro ordinamento.

La decisione qui commentata è in particolare l’ordinanza del 25 febbraio 2015 n. 3886, che, pur restando all’interno del menzionato filone interpretativo della Suprema Corte[1], fornisce anche spunti utili per una lettura critica, dal momento che i giudici, in questa fattispecie, manifestano l’intenzione di addentrarsi anche in tematiche di carattere sostanziale che esulano dal mero campo del diritto tributario.

Il caso in esame ha riguardato un notaio al quale l’Agenzia delle entrate ha notificato un avviso di liquidazione per recuperare, in relazione all’atto di costituzione di un trust, che noi capiamo essere autodichiarato per via della mancanza di trasferimento a terzi dei beni conferiti, le imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale, nonché l’imposta sulle successioni e donazioni con aliquota dell’8%. Nell’atto istitutivo del negozio in esame, comparivano come disponenti due coniugi che indicavano come beneficiari se stessi, se in vita, altrimenti i figli in parti uguali.

Profili Tributari

Per introdurre l’argomento dell’imposta indiretta applicabile al conferimento in trust bisogna partire dalla norma di cui all’articolo 2 comma 47 del D.L. 3 ottobre 2006 n. 262[2] che recita testualmente:«è istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni (…)». In altre parole, per mezzo di questa norma, i “vincoli di destinazione”, indipendentemente dalla causa alla base della loro costituzione, sono accomunati per imposizione fiscale agli atti di disposizione a titolo gratuito.

A parte l’incertezza riguardante l’individuazione concettuale della categoria dei “vincoli di destinazione”, cui la norma si riferisce senza ulteriori specificazioni, e la perplessità generata nell’interprete da un indiscriminato accomunamento della disciplina dei vincoli di destinazione a quella delle successioni e donazioni[3], la stessa formulazione italiana del testo in esame, disgraziatamente, lascia spazio a dubbi non certo irrilevanti. In particolare, il tenore letterale della norma non rende facile all’interprete capire alcune questioni cruciali: una prima è se il “trasferimento di beni e diritti” sia presupposto di applicazione dell’imposta solo per atti a causa di morte, donazione e atti a titolo gratuito o se invece questo presupposto debba sussistere anche per applicare la detta imposta alla costituzione di vincoli di destinazione; una seconda è invece se l’imposta sulla “costituzione di vincoli di destinazione” sia da considerare come una sottocategoria dell’imposta sulle successioni e donazioni o se, invece, sia un’imposta nuova e diversa a cui il legislatore ha deciso autoritativamente di apporre le medesime aliquote dell’imposta di successione e, quindi, solo per questo motivo, di disciplinarla comunemente a quest’ultima. Altra questione non specificata dalla norma è poi come applicare le diverse aliquote all’ipotesi di vincolo di destinazione.

Tali problematiche sono state innanzitutto affrontate dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate del 6 agosto 2007, n. 48/E. In tale occasione, l’Ufficio ha compiuto un ammirevole sforzo interpretativo spiegando che, poiché tutte le vicende del trust sono legate ad un’unica causa, l’imposta va applicata al momento dell’atto dispositivo con cui il disponente vincola determinati beni in trust[4]. L’imposta va applicata con aliquota proporzionale anche nel caso di trustautodichiarato, cioè anche quando non vi sia un iniziale trasferimento di titolarità dei beni[5]. Inoltre, per quanto riguarda la determinazione dell’aliquota applicabile, è spiegato che essa va calcolata prendendo in considerazione la relazione che lega direttamente il disponente e il beneficiario (e non conta a questo fine il trasferimento tra disponente e trustee), poiché la costituzione del vincolo di destinazione avviene sin dall’inizio a favore del beneficiario, essendo la disposizione espressione di un unico disegno volto alla realizzazione di un’attribuzione liberale[6]. Nel tentativo ulteriore di limitare i dubbi interpretativi e il rischio di fenomeni di doppia imposizione, nella Circolare viene chiarito che «la devoluzione ai beneficiari dei beni vincolati non realizza, ai fini dell’imposta sulle donazioni, un presupposto impositivo ulteriore»[7]. Secondo la visione dell’Agenzia, quindi, l’imposta si applica a tutte le tipologie di trust, si riscuote al momento del conferimento dei beni nel trust, e non all’uscita; l’aliquota si calcola con riferimento al rapporto di parentela che lega il disponente al beneficiario.

La prassi notarile degli anni successivi, tuttavia, confortata da un tendenziale favore delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali[8], non ha sempre tenuto conto delle linee interpretative fornite dall’Amministrazione Finanziaria. In virtù del fatto che l’arricchimento del beneficiario nei fatti non si verifica al momento della costituzione dei beni in trust, e che in molti casi tale arricchimento risulta per i soggetti beneficiari del tutto eventuale, si tendeva, infatti, a considerare un’applicazione anticipata del tributo come una palese violazione del principio costituzionale di capacità contributiva[9], presupposto essenziale per l’imposizione fiscale.

Delineati i punti chiave di dibattito, vediamo ora come la pronuncia oggetto di analisi, va ad incidere sulle questioni sopra delineate[10].

I giudici del Palazzaccio osservano innanzitutto che l’imposta in oggetto si applica «a causa della costituzione del vincolo di destinazione» e quindi non necessita un trasferimento di diritti. Riguardo al significato della locuzione “vincoli di destinazione”, in modo cristallino la Corte afferma che con il termine “vincoli di destinazione” si designano non negozi specifici, bensì tutti i regolamenti che consentono ad un soggetto di ottenere l’effetto giuridico di porre un bene fuori da sé orientandone i diritti dominicali al perseguimento degli obiettivi voluti, senza che a ciò sia coessenziale l’attribuzione del bene a terzi. Proseguendo sugli effetti caratteristici del vincolo di destinazione i giudici stessi affermano che il caso in esame è riconducibile agli atti di destinazione di cui al 2645-ter cod. civ. e ha effetti assimilabili a quelli di un fondo patrimoniale. La Suprema Corte sembra quindi smentire l’interpretazione della norma fornita dall’Agenzia delle Entrate nella circolare del 22 gennaio 2008, No. 3 ove si affermava che, con eccezione dei trust, la costituzione di vincoli di destinazione con effetto non traslativo, sono irrilevanti ai fini dell’imposta in esame[11].

Passando poi ad analizzare il rapporto tra imposta sui vincoli di destinazione ed imposta di successione e donazione, i giudici sottolineano (pericolosamente per il contribuente) che «l’imposta sui vincoli di destinazione è un’imposta nuova, accomunata solo per assonanza alla gratuità delle attribuzioni liberali (…)». Proseguono poi spiegando che la norma non presenta margini di incostituzionalità e non è in conflitto con il principio di capacità contributiva. Il presupposto dell’imposta sui vincoli di destinazione non è l’arricchimento del beneficiario: se così fosse, infatti, essa sarebbe del tutto superflua, già sussistendo l’imposta sulle donazioni a tal uopo. Presupposto dell’imposta sui vincoli è la capacità del disponente di impoverirsi[12]. Dopo aver sottolineato la novità e la diversità dell’imposta sui vincoli di destinazione da quella sulle successioni e donazioni[13], la Corte non compie purtroppo l’ultimo passaggio del suo ragionamento lasciando irrisolto il dubbio che a questo punto si è insinuato nella mente dell’interprete: al momento dell’uscita dei beni dal trust, la “diversa” imposta sulle donazioni dovrà trovare (nuovamente) applicazione o, invece, il conto con l’Amministrazione potrà considerarsi saldato una volta per tutte al momento del conferimento dei beni nel trust? Detto con le parole che avevamo utilizzato in apertura, l’imposta sulla “costituzione di vincoli di destinazione” è da considerare come una sottocategoria dell’imposta sulle successioni e donazioni o, invece, è un’imposta nuova e diversa a cui il legislatore ha deciso semplicemente di apporre le medesime aliquote dell’imposta di successione e la cui applicazione quindi non esclude una successiva imposizione di quest’ultima?

Altra questione, trattata molto succintamente dalla Corte, è quella relativa all’aliquota applicata. Si afferma nella motivazione che l’imposta si deve applicare con aliquota dell’8%, poiché la figura dei conferenti che mantengono la proprietà dei beni non rientra nelle categorie che godono di aliquota inferiore[14]. Sul punto si vuole fare solamente una precisazione. La ragione per cui eventualmente l’aliquota applicabile potrebbe essere quella dell’8%, è che i conferenti sono i beneficiari finali del trust e non certo perché ne sono i trustee. Pur non essendo la Corte in questo frangente molto chiara sul punto, bisogna ritenere che il rapporto da osservare per la determinazione dell’aliquota applicabile sia ancora quello tra disponente e beneficiario finale (senza che a questo fine rilevi il passaggio al trustee).

Profili sostanziali

Come è già stato accennato nelle premesse, la decisione in esame fornisce un’ottima opportunità di dibattito poiché la Suprema Corte non si limita a valutare gli aspetti tributari della fattispecie, ma si sbilancia anche in una valutazione della ammissibilità stessa del trust autodichiarato.

In particolare, nel corso della motivazione, i giudici di legittimità affermano che «il regolamento voluto e realizzato (dai disponenti), benché sia denominato trust, non ne ha la fisionomia: ne manca, difatti, uno dei tratti tipologicamente caratteristici, ossia il trasferimento a terzi da parte del settlor dei beni costituiti intrust». In questo modo la Corte vuole insinuare il dubbio che il trust autodichiarato non sia da considerare affatto come un vero trust. Degno di nota è sicuramente un recente articolo del Professor Lupoi[15] in proposito, ove il noto autore evidenzia la confusione che viene fatta dalla Suprema Corte tra la definizione di trust nella Convenzione[16] e la definizione di trust tratta da un ordinamento giuridico o da più ordinamenti. In particolare, l’autore sottolinea che la logica argomentativa utilizzata dalla nostra Cassazione è viziata quando afferma che il trust autodichiarato non è un trust in quanto non rientra nell’ambito applicativo della Convenzione. È, infatti, fuori di dubbio che i trust autodichiarati siano trust, si può poi discutere se essi siano o meno soggetti alla Convenzione, ma nessuno contesta il fatto che si tratti di veri e propri trust. Lupoi, in sostanza, critica la Corte per il fatto di aver voluto valutare l’istituto in esame applicando il nostro linguaggio e il nostro ragionamento giuridico, per aver tentato un infelice “addomesticamento” del concetto di trust. A sostegno della propria posizione, tuttavia, la Cassazione ricorda anche il terzo comma dell’art. 2 della Convezione de L’Aja, a norma del quale «il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà o che iltrustee abbia alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di untrust»; sulla base di tale affermazione la Cassazione conclude che il trust postula l’alienazione dei beni del disponente. A parere di chi scrive, è questo il punto fondamentale del ragionamento esposto nelle ordinanze in oggetto. Si deve, tuttavia, dissentire con le conclusioni dei giudici di legittimità. Il fatto che un trust sia autodichiarato o meno, e cioè che vi sia o non vi sia un trasferimento della titolarità dei diritti “conferiti intrust” dal disponente ad un terzo, non può influenzare la ammissibilità del trust nel nostro ordinamento. Nel trustautodichiarato, infatti, lo stesso soggetto è sia disponente sia trustee, ma non per questo si dovrà automaticamente concludere che egli, nella sua qualità di disponente, si sia riservato diritti e facoltà incompatibili con il comma 3 dell’art. 2 della Convenzione, proprio perché il vincolo funzionale che deriva dal conferimento di detti diritti in trustfa sì che “la qualità” del diritto che egli ha come trustee sia diversa da quella che aveva come disponente, ancorché la titolarità non sia cambiata. E così è chiaramente possibile avere un trust autodichiarato dove il disponente non si è riservato alcun diritto o facoltà, ma non è più titolare dello stesso diritto che aveva prima, perché ora è vincolato al programma del trust. Non bisogna commettere l’errore di confondere i ruoli di trustee e disponente che sono ontologicamente profondamente diversi. La proprietà del trustee sui beni del trustè un diritto di tipo meramente funzionale. Il trustee deve, infatti, rispondere della gestione del fondo nei confronti dei beneficiari. Il fatto che il soggetto che ricopre ruolo di trustee sia lo stesso soggetto disponente non può comportare automaticamente la non ammissibilità del trusto comunque la sua inefficacia, in quanto atto simulato, come pare sostenga la Cassazione nel nostro caso. Sarà invece necessario valutare la causa in concreto del trust per poter trarre conclusioni in merito. Nel caso in cui in concreto il trustsi riveli una mera interposizione fittizia e quindi nulla sia cambiato per il disponente/trustee nell’amministrazione dei beni, non dovendo egli rendere conto a nessuno di ciò che fa, allora l’autodichiarato sarà non riconoscibile nel nostro ordinamento perché in violazione dell’articolo 2 ultimo comma della Convenzione, ma se le circostanze del caso non portano a tali conclusioni allora non si vede perché la figura del trustautodichiarato non possa rientrare nei limiti imposti dalla Convenzione.

Conclusioni

Nonostante le varie perplessità insinuate dalla pronuncia in esame, nella speranza di un repentino intervento chiarificatore da parte della stessa Corte, dell’Agenzia o magari del legislatore, sembra innanzitutto ragionevole ritenere che la tassazione dei conferimenti in trust non possa essere sia “all’entrata” sia “all’uscita” dei beni nel/dal trust e che quindi l’imposta iniziale sui vincoli di destinazione si applichi anziché (e non oltre a) quella di donazione[17]. Per quanto riguarda l’applicazione dell’aliquota dell’8% al conferimento fatto dal disponente che si riservi dei benefici nel trust, essa si baserebbe sul presupposto che un soggetto non è parente in linea retta né fratello/sorella di se stesso. È evidente, in questo frangente, che l’imposta sulle successioni e donazioni non poteva prevedere un’aliquota per il caso in cui il defunto o il donante si auto-destinasse benefici su quanto trasferito. È quindi chiaro, in questo contesto, un allontanamento dalla intenzione del legislatore nel prevedere le agevolazioni, ed è auspicabile una rapida inversione di rotta a questo riguardo.

Sull’ammissibilità o meno del trust autodichiarato si rimanda a quanto già espresso nel precedente paragrafo e ci si augura che in futuro il criterio discriminante per determinare la bontà o meno di un trust non si basi su preconcetti, ma sulla valutazione caso per caso dell’esistenza o meno di interessi meritevoli di tutela.

 


[1] La decisione oggetto della presente nota è, infatti, parente stretta di altre tre decisioni che riflettono gli stessi principi (in particolare si allude alle ordinanze del 24 febbraio 2015, n. 3735 e n. 3737 e all’ordinanza del 18 marzo 2015 n. 5322, emesse a loro volta dalla Sezione Tributaria della Suprema Corte). Queste quattro decisioni, seppur portatrici dei medesimi principi tributari, possono essere raggruppate in due sottoinsiemi in forza delle tematiche da esse affrontate. La n. 3735 e la n. 3886, infatti, riguardano due casi di trust autodichiarato e interessano anche argomenti di carattere sostanziale, andando a dare un giudizio di portata generale sull’ammissibilità di tale tipologia di trust nel nostro ordinamento. Le altre due (la n. 3737 e la n. 5322) riguardano invece il trust di scopo e non si addentrano in un’indagine di validità sostanziale dell’istituto in esame, limitandosi ad assoggettarlo all’imposta sulle donazioni con aliquota dell’8%.

[2] Come convertito dalla L. 24 novembre 2006 n. 286.

[3] Peraltro, sulla inopportunità di applicare una soluzione impositiva di carattere generale ai trust, indipendentemente dalla loro causa e senza differenziare la singola fattispecie, si è espressa anche la C.T.P. di Milano con sentenza del 05 febbraio 2014 n.1213/17/14 in ilCaso.it sez. Giurisprudenza.

[4] Cfr. C.M. 48/E/2007 a p. 22: «Il trust si sostanzia in un rapporto giuridico complesso che ha un’unica causa fiduciaria. Tutte le vicende del trust (istituzione, dotazione patrimoniale, gestione, realizzazione dell’interesse del beneficiario, il raggiungimento dello scopo) sono collegate dalla medesima causa».

[5] Posizione questa ribadita dalla Agenzia delle Entrate anche con la circolare 3/E/2008. In questa sede viene anche specificato che, nonostante tutti gli altri atti idonei a produrre un vincolo di destinazione (ad esempio: fondo patrimoniale, articolo 2645-ter, articolo 2447-bis) siano irrilevanti ai fini dell’imposta di successione e donazione quando non vi sia trasferimento di titolarità, il trust autodichiarato sconta in ogni caso l’imposta in misura proporzionale.

[6] Cfr. C.M. 48/E/2007 a p. 22: «Ciò induce a ritenere che la costituzione del vincolo di destinazione avvenga sin dall’origine a favore del beneficiario (naturalmente nei trust con beneficiario) e sia espressione dell’unico disegno volto a consentire la realizzazione dell’attribuzione liberale».

[7] Ivi a p. 24.

[8] Cfr. C.T.R. Milano del 10 febbraio 2015 n. 386; C.T.P. Roma del 25 marzo 2015, n. 6615/25/15; C.T.R. Milano del 10 febbraio 2015; C.T.R. Napoli del 02 aprile 2015; C.T.P. Lodi sentenza n.19/02/15; C.T.P. Milano del 05 febbraio 2014 n.1213/17/14; C.T.R. Venezia – Mestre sentenza n. 10/29/2012; C.T.P. Ravenna sentenza 143/01/12; C.T.P. Macerata n. 207/02/2012; C.T.P. Salerno sentenza n. 504/4/12; C.T.R. Milano sentenza 73/15/2012; C.T.P. Torino sentenza n. 70/13/2011; C.T.R. Firenze sentenza n. 77 del 17.11.2011; C.T.P. di Milano sentenza n. 132/35/11; C.T.R. di Roma sentenza n. 709/39/11; C.T.P. Latina ordinanza n. 10/02/2013; C.T.R. Firenze sentenza n. 117 del 11.04.2011 e C.T.P. Lodi sentenza n. 60/2/11 del 04.04.2011. Seguendo lo stesso principio, ma con riferimento particolare alle imposte ipotecarie e catastali, si vedano C.T.R. Napoli 16 febbraio 2015; C.T.P. Milano, n. 240/8/13; C.T.P. Lodi n. 100/1/13; C.T.P. Napoli n. 571 del 2 ottobre 2013; C.T.P. Treviso del 14 ottobre 2009, n. 95/1/09. Si vedano anche i recenti articoli di L. Serpieri, La giurisprudenza in materia d’imposizione indiretta sugli atti di dotazione di beni in trust, in Trusts e attività fiduciarie, 2015, p.152 e di S. Infantino, I trust davanti ai giudici tributari, in Trusts e attività fiduciarie, 2015, p.129.

[9] Articolo 53 Cost.

[10] A sottolineare il contrasto tra la precedente giurisprudenza di merito e il nuovo filone interpretativo della Corte di Cassazione anche A. Borgoglio, Il trust autodichiarato sconta l’imposta sulle successioni e donazioni, in Il fisco, n.11/2015.

[11] C.M. 3/E/2008

[12] Afferma la Corte: «Ciò in quanto nell’imposta in esame, a differenza che in quella tradizionale, il presupposto impositivo è correlato alla predisposizione del programma di funzionalizzazione del diritto al perseguimento degli obiettivi voluti; là dove l’oggetto consiste nel valore dell’utilità della quale il disponente, stabilendo che sia sottratta all’ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, finisce con l’impoverirsi» e poi anche: «È, allora, evidente la manifesta infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale della disposizione prospettati dal controricorrente per la dedotta violazione dei principi di ragionevolezza e di capacità contributiva, in ragione della mancanza di arricchimento: con riguardo all’imposta in esame, non rileva affatto la mancanza di arricchimento, giacché il contenuto patrimoniale referente di capacità contributiva è ragguagliato all’utilità economica, della quale il costituente, destinando, dispone.» Cfr. Anita Mauro, Il trust sconta l’imposta come vincolo di destinazione, su eutekne.info e anche A. Busani e R.A. Papotti, Trust, l’imposta si paga subito, su ilsole24ore.com

[13] Cfr. A. Busani e R.A. Papotti, L’imposizione indiretta dei trust: luci e ombre delle recenti pronunce della Corte di Cassazione, in Corriere Tributario, 2015, p. 1203.

[14] In altre parole, come sarà anche precisato nelle conclusioni, l’aliquota dell’8% si applica sulla base del presupposto che un soggetto non è parente in linea retta né fratello/sorella di se stesso.

[15] M. Lupoi, I “trust interni” rimangono regolati dalla legge straniera, pubblicato sul Sole24Ore del 25 marzo 2015.

[16] Con il termine “Convenzione” s’intende la Convenzione adottata a L’Aja il 1º luglio 1985 sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento.

[17] Questo appare anche da una lettura analitica della norma stessa, che, se avesse voluto introdurre due imposte differenti, avrebbe recitato «sono istituite [anziché il verbo al singolare “è istituita”] l’imposta sulle successioni e donazioni (…) e sulla costituzione di vincoli di destinazione».


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