Nell’ambito del percorso di conversione in legge della c.d. “manovrina” ( il d.l. n. 50 del 24.4.2017), con alcuni emendamenti presentati in Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione, il legislatore sembra prefiggersi encomiabilmente di intervenire sul vigente ordinamento finanziario al fine di dotarlo di più efficaci strumenti finalizzati ad una “gestione attiva” dei NPL (Non Performing Loans) e, in particolare di quel loro nutrito “sottoinsieme” costituito da quelli che più propriamente individuiamo negli UPL (Under Performing Loans), intendendosi per essi quei crediti problematici (incagli o crediti ristrutturandi) vantati dalle banche verso imprese che si trovino in stato di crisi e che abbiano intrapreso e possano intraprendere percorsi virtuosi di uscita da quella, attraverso l’impiego degli strumenti di composizione stragiudiziale o concordataria predisposti dal legislatore negli ultimi anni (piani attestati, accordi di ristrutturazione, concordati in continuità). La nuova proponenda disciplina ha infatti ad oggetto proprio quelle “cartolarizzazioni di crediti in tutto o in parte oggetto di accordi o procedure volti al risanamento o alla ristrutturazione in qualunque forma, previsti dalla legge o procedure concorsuali” – (emendamento 60.039).
Da un lato, verrebbe modificata la legge 130/99 sulle cartolarizzazioni al fine di consentire alle c.d. SPV di “acquisire o sottoscrivere i titoli di capitale e gli strumenti partecipativi, anche emessi a seguito di conversione dei crediti stessi” ( emendamento 60.053).
Dall’altro lato, verrebbe chiarito che la SPV può “concedere finanziamenti ai debitori dei crediti cartolarizzati, senza che agli stessi si applichino le disposizioni di cui agli articoli 2467 e 2497- quinquies del codice civile” ( emendamento 60.065)[1].
Si delineerebbe così un modello di intervento sugli UPL che pare del tutto speculare a quello che ha recentemente visto alcune prime applicazioni di successo; mi riferisco, in particolare alla nuova e peculiare fattispecie del “fondo di ristrutturazione”[2] che pare porsi come fattispecie intermedia tra i “fondi che investono in crediti” e i c.d. “fondi di private equity”.Tale schema operativo ricorre al modello del “fondo comune di investimento” – che costituisce, come noto, il modello di natura “contrattuale” tra quelli adottabili alternativamente nello svolgimento della “gestione collettiva del risparmio” – e vede nella sua fase genetica l’“apporto” o l’acquisto di crediti “problematici” (UPL) detenuti da una serie di banche al fondo medesimo, così venendo a costituire l’originario nucleo patrimoniale oggetto di gestione, a fronte della contestuale attribuzione delle quote del fondo stesso alle banche cedenti ( ma evidentemente si può ben pensare anche ad uno schema classico di “raccolta” da investire poi in UPL) ; i crediti oggetto di “apporto” o di acquisto saranno quindi gestiti professionalmente dalla SGR secondo una politica gestionale caratterizzata da una finalità non tanto di mero recupero/incasso di quei crediti ma di loro “ristrutturazione” tramite la fuoriuscita delle imprese target dalla situazione di crisi in cui versano, onde massimizzarne il recovery rate. Evidentemente, un elemento cruciale di questo schema sta nella possibilità del “fondo di ristrutturazione” di subentrare in una quota rilevante dell’indebitamento delle imprese in crisi e sottoposte a ristrutturazione; solo così si massimizzeranno i benefici di questo schema di gestione del processo di ristrutturazione rispetto alla situazione di partenza che vede una pluralità atomistica di posizioni creditorie, spesso tra loro contrapposte, in capo alle normalmente numerose banche.
Altrettanto funzionale ad un efficiente processo di ristrutturazione dell’impresa in crisi appare l’imprescindibile accompagnamento di quel processo con la disponibilità di c.d. nuova finanza; in tal senso, il fondo, in linea con i modelli operativi che si vanno consolidando nella prassi, prevede dunque un intervento anche su tale complementare fronte, affiancando al principale e tipico comparto crediti un complementare, accessorio e funzionale comparto nuova finanza, destinato proprio a supportare la ristrutturazione delle società target attraverso l’erogazione di “nuova finanza”.
Nei “fondi di ristrutturazione” – diversamente da quanto avviene nelle operazioni di cartolarizzazione – i crediti costituiscono il tipico oggetto di investimento solo in una fase iniziale dell’orizzonte gestorio che li caratterizza, essendo essi destinati a trasformarsi, sub specie di conversione, in “strumenti finanziari” di equity o quasi-equity o debito; la filosofia gestoria applicata al patrimonio oggetto di gestione sarà per sua natura dinamica ed evolutiva, ben diversamente da quanto non avvenga nelle operazioni di cartolarizzazione. Il patrimonio del “fondo di ristrutturazione” tenderà dunque naturalmente a trasformarsi dinamicamente, e almeno parzialmente, in quello che tradizionalmente e per certi versi potrebbe apparire riconducibile al classico patrimonio di un fondo c.d. di private equity. In tal senso, le politiche gestionali perseguite dal gestore di un “fondo di ristrutturazione” si pongono allora, come anticipavo, in nuovo territorio intermedio tra quelle tipiche di un “fondo di private equity” e quelle tipiche di un “fondo che investe in crediti”. Alla luce del loro tipico substrato patrimoniale (costituito da crediti nella fase genetica e iniziale e da strumenti finanziari di equity o quasi-equity o debito, nel corso della vita del fondo) e della loro peculiare filosofia gestoria (avente ad oggetto più l’impresa debitrice in stato di crisi, piuttosto che i crediti in quanto tali) non possono dunque essere assimilati ad alcuna già definita tipologia normativa di fondi – tanto meno a quelli utilizzati per operazioni di cartolarizzazioni ex art. 7,1., b) della l. 130/1999 – richiedendo una specifica considerazione.
La condivisibile attenzione con cui il legislatore segue da vicino il grande e delicato “nodo” dei NPL, sforzandosi di offrire agli operatori strumenti efficaci ed efficienti, in linea con le più avanzate esperienze straniere, non può tuttavia prescindere da una attenta e ponderata considerazione degli equilibri della complessiva architettura di sistema dell’ordinamento finanziario che solo di recente – dopo anni in cui hanno convissuto irrazionalmente enclaves quasi totalmente deregolate a fianco di riserve di legge militarmente presidiate (si pensi solo alla convivenza sullo stesso mercato tra “società finanziarie di partecipazione” e fondi di private equity) – pareva aver raggiunto un suo equilibrio.
Questo ritrovato equilibrio pare oggi rimesso in discussione sotto più profili ad opera dell’intervento normativo al vaglio del Parlamento.
In una prima prospettiva, tutta interna al fenomeno stesso della cartolarizzazione, l’utilizzo dello schema della SPV per svolgere una gestione attiva degli UPL – che preveda fisiologicamente la conversione in equity o quasi-equity dei crediti ristrutturandi e successivamente, una gestione attiva delle conseguenti partecipazioni societarie, in vista di una loro valorizzazione e dismissione – pare allora immediatamente contrastare con le opzioni concettuali sottese al modello stesso di cartolarizzazione da noi adottato. Sulla scorta del modello anglosassone, anche la nostra normativa concepisce da sempre la società di cartolarizzazione come un mero veicolo “trasparente”, “passante”, tra l’originator e i sottoscrittori dei titoli ABS, finalizzato ad un efficiente ring fencing dei crediti destinati al pagamento dei sottoscrittori e caratterizzato da una intrinseca insolvency remotness (senza dire qui del tema tutto dogmatico ma denso di implicazioni pratiche, circa la natura imprenditoriale o meno dell’ attività svolta dalla SPV). Da qui l’oggetto sociale esclusivo e i peculiari tratti della gestione dei crediti in termini di “gestione passiva”[3]. Ogni elemento di inquinamento della chiara ed esclusiva mission del veicolo è stato dunque visto sin qui con estremo sfavore e sostanzialmente considerato estraneo al modello di riferimento. Evidentemente l’ibridazione che di tale modello verrebbe a determinarsi, ove si consentisse al veicolo di svolgere una gestione attiva dei crediti che ne prevedano una loro trasformazione in partecipazioni societarie e, successivamente, una gestione attiva di questa (con tutti i profili, anche di responsabilità, connessi) verrebbe a minare irrimediabilmente quelle sottostanti opzioni concettuali.
In una seconda prospettiva esterna al fenomeno della cartolarizzazione ma, come dicevamo, “di sistema”, c’è da domandarsi se abbia senso questa corsa alla moltiplicazione/confusione/ibridazione dei modelli, in cui – allontanandosi da quella che era la specifica mission originariaper cui ogni istituto è originariamente nato, tutti finiscono a fare poi le stesse cose ma con regimi giuridici ben diversi, determinandosi così fenomeni di opacità e di “concorrenza sleale” tra operatori che presentano sostanzialmente lo stesso profilo operativo ma che si muovono in quadri regolamentari di riferimento del tutto differenti (norme prudenziali, requisiti, vincoli comportamentali etc.).
Sarebbe allora stato piuttosto utile intervenire sull’attuale quadro normativo al fine di adeguare ed “efficientare”, con interventi chirurgici ad hoc, e senza intaccare così pesantemente l’architettura d’insieme, l’operatività dei “fondi di ristrutturazione” che oggi non pare potersi dispiegare con pienezza? Chiarire l’inapplicabilità ai medesimi di alcuni vincoli regolamentari del tutto inconferenti rispetto alle specificità di questa tipologia di fondo; estendere ad essi la disciplina dell’art. 58 del TUB; imporre meccanismi di “creditor drag along” a favore di tali operatori nell’ambito delle procedure di composizione della crisi e sancire l’inapplicabilità di irragionevoli vincoli negoziali alla circolazione dei crediti; derogare alla disciplina di cui agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. ( disciplina dei finanziamenti soci), in relazione alla nuova finanza erogata a supporto della ristrutturazione (come peraltro la stessa norma in commento prevede a favore della SPV nella nuova ipotizzata veste).
[1] Si segnala inoltre, come lo stesso emendamento preveda la possibilità la possibilità per le SPV di “incaricare una o più società veicolo, di acquisire, nell’interesse esclusivo dell’operazione di cartolarizzazione, i beni a garanzia dei crediti dalla stessa vantati, nonché quelli oggetto di contratti di locazione finanziaria, anche se risolti [… omissis..]”. Sul punto si veda anche l’emendamento 60.039.
[2] Mi sia consentito di rinviare a P. Carrière, I “fondi comuni di ristrutturazione”: ricostruzione tipologica e inquadramento sistematico di una nuova fattispecie di OICR, in questa rivista 19 aprile 2016; Id., I “fondi comuni di ristrutturazione” tra investimento, finanziamento e cartolarizzazione, in Riv. Soc., 2016,718.
[3] Per tutti si rinvia a Lisa Carota, “La cartolarizzazione dei crediti” in “Le operazioni di finanziamento”, pp. 946 e ss, opera diretta da F. Galgano, Zanichelli Editore 2016