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Dossier

Covid-19 e “giusto prezzo”

9 Giugno 2020

Edoardo Rulli, Dottore di ricerca, Università di Roma Tor Vergata

1. L’ordinanza sul prezzo “non superiore” delle mascherine

L’ordinanza 26 aprile 2020, n. 11 del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 stabilisce che: «Il prezzo finale di vendita al consumo dei prodotti indicati nell’allegato 1 [mascherine, n.d.r.], praticato dai rivenditori finali, non può essere superiore, per ciascuna unità, ad € 0,50, al netto dell’imposta sul valore aggiunto».

La ragione che ha spinto il Commissario a varare la norma è nota: si è trattato di porre un freno alla speculazione sul prezzo di un bene divenuto improvvisamente necessario in quantità difficilmente reperibili sul mercato. Un provvedimento che, ci si è affrettati a precisare, è destinato a rimanere in vigore solo per il tempo che il mercato impiegherà a diventare “maturo” (la conferenza stampa è visibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=vnJqABw5s4c).

Il rallentare dell’emergenza consente, a oltre un mese dall’adozione di quel provvedimento, di ragionare sul suo significato, senza polemica nei riguardi di chi, nel pieno dell’emergenza, lo ha adottato in sicura buona fede. E’ giusto fissare per “legge” il prezzo di un bene? E, soprattutto, ha senso farlo? Non si tratta di domande pruriginose. Chi scrive non ha spirito mercantilista, e anzi ritiene che, ove possibile, il contratto sociale che lega i cittadini consiglia che in futuro sia il servizio sanitario ad acquistare in massa mascherine per ottenere economie di scala, e che queste siano distribuite, gratuitamente o con un sistema di ticket sottratti al mercato. Questa è la migliore risposta alle speculazioni.

2. Cenni sull’origine del concetto di prezzo e di giusto prezzo nel diritto romano

Il prezzo calmierato, il giusto prezzo fanno venire la tentazione di fare un salto nel passato.

Che cosa sia il prezzo, e che cosa il lemma significhi veramente oggi, è difficile dirlo. Il termine viene dal latino pretium, che il vocabolario Treccani online definisce «equivalente in unità monetarie di un bene o di un oggetto, di un servizio o di una prestazione». L’idea che pretium sia una controprestazione è ovviamente emersa nel diritto romano. Ma è possibile che nel diritto romano repubblicano la parola pretium indicasse la controprestazione tout court, e cioè anche un bene in natura diverso dal denaro, come nel caso del baratto poi codificato nel contratto di permuta. L’idea che il prezzo sia un equivalente in unità monetarie, probabilmente, è emersa nel diritto romano tardo repubblicano e, poi, imperiale, quando la distinzione tra permuta (cosa contro cosa) e vendita (cosa contro prezzo) si è fatta più nitida[1].

E’ attorno a questi concetti che nel Mediterraneo si sviluppano un commercio, anche basato sul credito, e, poi, un mercato a guida romana. Un mercato che non può dirsi capitalistico in senso proprio, se non altro perché artificiosamente gonfiato dalle conquiste militari e dal giogo imposto ai conquistati, ma pur sempre informato a leggi di domanda e offerta, almeno per quanto concerne il commercio dei beni. Nessuno dubita che l’accordo delle parti su di un pretium certum sia un elemento del contratto; sul punto, Gaio scrive in più occasioni che la vendita si contrae si de pretio convenerit (Gaio, Institutiones, III, 142 e, in tema, V. Arangio Ruiz, La compravendita in diritto romano, ed. II, Napoli 1954, 33).

3. I colpi alla libertà contrattuale: l’editto dei prezzi e a laesio enormis al tempo di Diocleziano

Che il prezzo dei beni, a Roma, fosse normalmente lasciato alla dinamica di domanda e offerta è dimostrato anche dalle vicende che seguirono la promulgazione dell’editto sui prezzi massimi dell’imperatore Diocleziano. All’inizio del secolo quarto Roma era ormai un’altra: l’impero esisteva da tre secoli e aveva assunto, sino al tardo antico, dimensioni mastodontiche. Gli anni che precedono la presa del potere di Diocleziano, intelligente generale illirico di modeste origini, sono noti come gli anni della crisi del terzo secolo. La classe dirigente aveva da qualche decennio provenienza militare, e per questo non sempre possedeva le competenze necessarie per amministrare la complessa macchina dell’impero. Il conflitto con la Persia dei Sasanidi, la spinta dei flussi migratori di popoli ai confini segnati da Reno e Danubio, e a quelle centripete, erano all’ordine del giorno. Roma-città non era più la guida dell’impero, che era via via divenuto sempre più statalista e orientale, quasi asiatico, almeno con riguardo al suo baricentro.

In quest’ ambiente, la pressione fiscale aumentò a dismisura e la moneta in oro o iniziò a svalutarsi, il che convinse il potere imperiale a introdurre manovre che di recente abbiamo visto attuate in Venezuela: a una minore quantità di oro o argento iniziò a corrispondere una valore più alto, per legge. Per arrestare questa spirale, Diocleziano fece emettere nuova moneta in rame, il che ebbe come effetto la scomparsa dalla circolazione delle monete d’oro e d’argento, che vennero tesaurizzate, secondo un meccanismo non dissimile da quello che abbiamo visto in tempo di Covid-19 con la crescita dei volumi dei depositi bancari. La risposta fu emettere altra moneta di poco pregio, il che spinse l’inflazione a livelli astronomici, scollando definitivamente il valore di prezzi e salari, soprattutto quelli dei militari, dal loro valore reale. A ciò Diocleziano rispose imponendo prezzi massimi di vendita non superiori a quelli imposto per legge (nel passo riportato dalla Civiltà Cattolica, fasc. X, 23 marzo 1891: quae pretia in singularum rerum vendicionibus excedere nemini licitum sit). Il provvedimento riguardò tutti i beni principali, come i generi alimentari. Nelle premesse dell’editto, l’imperatore afferma come il provvedimento, che certo dovette essere percepito come odioso, si fosse reso necessario per contenere l’avidità di improbos et immodestos, cioè di coloro che oggi chiameremmospeculatori.

I risultati del calmiere dioclezianeo sono noti: l’inflazione continuò a salire, i produttori rallentarono la produzione e alimentarono le scorte nella speranza di poter vendere più tardi a prezzi più vantaggiosi, gli incettatori iniziarono ad acquistare a prezzi calmierati nei piccoli centri per poi rivendere i beni in città, sul mercato nero, a prezzi maggiorati. I più poveri tornarono al baratto di prodotti agricoli, usati anche per far fronte all’imposizione fiscale, una circostanza questa che, secondo alcuni, gettò le premesse dello statuto medioevale della servitù della gleba. Tutto questo accadde nonostante le pene severissime, tra cui la pena di morte, previste non solo gli speculatori, ma anche per agli acquirenti di beni.

Un’altra norma indicativa della situazione economica dell’epoca, precedente l’editto dei prezzi, si legge nella costituzione degli imperatori Diocleziano e Massimiano del 285 d.C. (C.4.44.2). Si tratta della laesio enormis, soluzione adottata forse per decidere un caso concreto, e quindi priva di forza applicativa generalizzata. Con essa si stabilì che per ragioni umanitarie (humanum est) si potesse rompere il rapporto contrattuale nel quale il venditore avesse ricevuto una somma corrispondente a meno della metà del giusto prezzo del bene. Come l’editto dei prezzi, il precetto non sopravvisse a Diocleziano, ma l’idea fu in qualche modo conservata dal diritto romano, o, almeno, reintrodotta nel Corpus Iuris di Giustiniano. Doveva, insomma, essersi sviluppata un’idea di giustizia del prezzo, figlia certamente della situazione economica. Una regola che, non senza paternalismo, consentisse al giudice di sciogliere il vincolo contrattuale legalmente inoppugnabile, ma percepito come eticamente riprovevole, in quanto portatore di un ingiusto vantaggio per la parte forte del contratto: lo speculatore. E’ noto come l’idea abbia avuto un certo successo nella storia del diritto, divenendo l’eccezione paradigmatica alla regola della libera fissazione del prezzo, un freno all’idea-archetipo liberale, pure antichissima, del contratto quale legge tra le parti, pure ove queste tentino di trarre, con astuzia, un vantaggio in punto di prezzo (Digesto, 4.4.16.4, ove in pretio emptionis et venditionis, naturaliter licet contrahentibus se circumvenire).

Benché rispetto ai suoi predecessori Diocleziano fosse riuscito a dare una nuova organizzazione all’impero, e nonostante i successi militari, quattro anni dopo l’editto dei prezzi si ritirò a vita privata, a Spalato, dove ancora oggi si possono vedere i resti del suo palzzo. Non è escluso che la clamorosa debacle economica abbia giocato un ruolo in quella che è un’inusuale abdicazione.

E, però, il concetto di prezzo massimo, o di giusto prezzo, legato qualche volta all’idea che un bene abbia un valore intrinseco (pretium verum), altre volte all’idea che il bene venduto debba far conseguire al venditore un margine di guadagno per il suo sostentamento (pretium iustum), era entrata in circolazione, e andava via via sovrapponendosi ai precetti morali dei nuovi culti giunti da oriente, tra cui il Cristianesimo.

4. San Tommaso d’Aquino e il “giusto prezzo”

Con San Tommaso d’Aquino si cristallizza nella cultura cristiana un’idea di giusto prezzo che accompagnerà, con qualche eccezione, il pensiero economico medioevale. Le evidenze dagli studi del Santo, infatti, sono purtuttavia equivoche. Da un lato, egli sembra accettare l’idea che un bene possa essere venduto a un prezzo superiore al suo valore, richiamando i precetti del diritto romano. Dall’altro, sembra ritenere che vi sia un prezzo oggettivo, legato – par di capire dal commentario all’Etica Nicomachea – all’idea di costo di produzione, che sarebbe il prezzo giusto (iustum pretium). La tesi, di origine aristotelica, non era intesa a negare l’esistenza di domanda e offerta; piuttosto, essa intendeva porre un limite etico al comportamento del mercante che intendesse lucrare sulle spalle della parte debole: un prezzo troppo superiore a quello giusto, cioè troppo superiore al costo di produzione, è una frode.

Il substrato culturale è chiaro: sullo sfondo sta il comandamento “non fare al prossimo ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Il precetto religioso, innestato nel sapere economico, porta dapprima Tommaso al rifiuto dell’usura: il denaro non può produrre denaro, anche perché il prestatore ne ricaverebbe un premio pur rimanendo inerte, senza apportare alcun valore. Di lì, il passo verso la disapprovazione di ogni immorale aumento dei prezzi è breve e nella Summa il Santo lo dice chiaramente: Alio modo possumus loqui de emptione et venditione secundum quod per accidens cedit in utilitatem unius et detrimentum alterius, puta cum aliquis multum indiget habere rem aliquam, et alius laeditur si ea careat. Et in tali casu iustum pretium erit ut non solum respiciatur ad rem quae venditur, sed ad damnum quod venditor ex venditione incurrit (Summa Theologiae, p. II, q. 77).

5. Dal medioevo all’evo moderno: il prezzo è determinato da domanda e offerta

E’ lo stato di bisogno a introdurre l’elemento che colora di immoralità del prezzo più alto di quello giusto, un concetto questo, ripudiato da una parte del mondo illuminista che iniziava a intendere il prezzo come il risultato della concorrenza (cfr. Montesquieu) e, poi, condannato come rozzo medievalismo dal liberalismo ottocentesco a trazione anglosassone, che è purtuttavia riuscito a infilarsi nelle pieghe della storia, tanto da trovarsi ancora in molti codici dell’Europa continentale (cfr. art. 1448 c.c.).

Ma prima ancora, due correnti di pensiero moderne hanno, senza riuscirvi appieno, provato a dare il colpo di grazia alle costruzioni di Tommaso. In primo luogo, il riferimento cade sulle visioni di Mandeville e dei suoi seguaci, secondo cui gli agenti economici naturalmente tendono alla massimizzazione del proprio profitto, e queste spinte, oltre ad essere del tutto legittime, sono benefiche perché regolano il mercato. Il passaggio da questa idea alla mano invisibile di Smith è immediato e si può quindi risparmiare inchiostro.

In secondo luogo, la tesi hobbesiana per cui la giustizia non è un’idea che si lega ai termini del contratto, tra i quali il prezzo, ma all’esecuzione del contratto. Non ci sarebbe quindi un prezzo giusto, intrinseco al bene, ma le parti devono eseguire il contratto secondo giustizia. L’idea non è ovviamente nuova, e affonda le radici nel concetto, pure romano, di buona fede.

Se si fa eccezione per la teoria del valore della produzione di Marx, il mondo occidentale inebriato dal capitalismo ha, nell’Ottocento e all’inizio del Novecento, non solo criticato, ma proprio dileggiato ogni teoria sul giusto prezzo. A pochi istanti dalla crisi del 1929, il filosofo inglese Collingwood sintetizzava plasticamente la temperie culturale della sua epoca con queste parole: «A just price, a just wage, a just rate of interest, is a contradiction in terms. The question what a person ought to get in return for his goods and labour is a question absolutely devoid of meaning. The only rational questions are what can he get in return for his goods or labor and whether he ought to sell them at all» (R. G. Collingwood, Economics as a Philosophical Science, Ethics 1926, p. 17).

6. Il fastidio nei confronti dello speculatore: insopprimibilità di un dato antropologico

Anche gli studenti del primo anno di economia sanno che il prezzo lo determinano domanda e offerta. Non si discute praticamente più di limiti alla libertà di impresa, e il pensiero occidentale ha sviluppato una complessa rete di regole a tutela della concorrenza, i cui pilastri sono la libera determinazione dei prezzi e l’idea che il contenimento di questi avvenga per via, per così dire, naturale, quale conseguenza della lotta per la conquista di consumatori. Il dogma della seconda metà del Novecento è questo: non dobbiamo preoccuparci del prezzo, esso scenderà perché gli imprenditori competono, e la competizione non diminuirà la qualità perché a ciò farebbe seguito il re-indirizzarsi della domanda verso altri imprenditori.

C’è, tuttavia, un dato antropologico insopprimibile. Se uno di quegli studenti di economia fosse abituato a mangiare un piatto di pasta alla trattoria dinanzi all’Università per un prezzo di 5 euro, sappiamo che proverebbe un senso di ingiustizia il giorno in cui l’oste dovesse alzare il prezzo a 6 euro, a parità di inflazione e qualità. Quello studente non sarebbe in grado di razionalizzare convincendosi che basti cambiare ristorante; o meglio, potrebbe convincersene e sostenerlo nel discorso pubblico, ma nell’intimo è molto più probabile che provi un senso di fastidio, di ingiustizia del prezzo.

Se l’esempio che precede sembra naïve, si prenda l’esperimento descritto nel libro di un economista svizzero (Frey, Not just for the money. An economic theory of personal motivation. 1997, Cheltenham). Un campione di 1750 consumatori viene interpellato all’inizio degli anni Novanta sulla domanda se sia giusto che un ferramenta, in occasione di una forte nevicata, alzi il prezzo delle pale da neve da 30 a 40 franchi, in ragione dell’ovvia crescita della domanda. L’83% dei partecipanti al sondaggio ha risposto che il comportamento del ferramenta sarebbe opportunistico e che il prezzo di 40 franchi sarebbe ingiusto o, con il termine usato nel libro, unfair.

7. La reintroduzione di un paternalismo contrattuale: un “giusto prezzo” sotto mentite spoglie?

Nel diritto contemporaneo il senso di ingiustizia per le pratiche commerciali scorrette (unfair) ha dato vita al filone del diritto consumeristico. Il dato di partenza non è etico, come in Tommaso d’Aquino, ma si fonda sulla constatazione che nell’economia moderna i grandi produttori e i grandi distributori di beni e servizi occupano nel rapporto contrattuale una posizione di preminenza.

È così che la tutela della parte debole di un rapporto contrattuale si è affermata come una tra le tecniche di regolazione del mercato più utilizzate dal legislatore europeo. Lo confermano le premesse delle direttive in materia: in esse è trasversale il leitmotiv per cui proteggere il contraente debole (consumatore, cliente al dettaglio, depositante) sia la via maestra per conseguire l’obiettivo dell’integrità del mercato unico. È del resto noto come l’Articolo 169 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea individui nel raggiungimento di un «livello elevato di protezione dei consumatori», una norma di carattere programmatico. Un programma che traduce in norma primaria dell’Unione una tendenza legislativa in atto dagli anni Ottanta, poi consolidatasi negli anni Novanta con la pubblicazione della direttiva sulle clausole abusive nei contratti con i consumatori e, poi, con la prima direttiva sulla prestazione dei servizi di investimento (G. Alpa, Quando il segno diventa comando: la trasparenza dei contratti bancari, assicurativi e dell’intermediazione finanziaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, I, p. 467; R. Lener. Forma contrattuale e contraente “non qualificato” nel mercato finanziario, Milano, 1996, passim).

E, tuttavia, il principio di libertà contrattuale non è smentito dalle tutele rafforzate per la parte debole. Il diritto consumeristico si è collocato, nonostante la crescente l’importanza sistematica, quale eccezione alla regola liberale del contratto come legge tra le parti. Non esiste, cioè, una forma di tutela che si spinga a costringere le parti a commerciare con un sistema di prezzi dati, con la sola eccezione della ridotta area degli obblighi a contrarre nei servizi pubblici, in cui però la fissazione di un prezzo standard risponde a logiche diverse e consegue alla struttura di impresa esercitata in forma di concessione (e.g. il trasporto pubblico urbano).

8. Il Covid-19 rompe gli argini del liberismo contrattuale: i prezzi possono essere fissati per legge: i casi Argentina, Uruguay, Filippine e Zimbawe.

L’emergenza Covid-19 ha infranto anche l’ultimo baluardo concettuale non scalfito dal diritto consumeristico, e potrebbe aver chiuso i conti con l’onda lunga del pensiero ottocentesco. Norme di diritto hanno imposto prezzi, contingentamenti, limitazioni alle esportazioni. E’ chiaro che si tratta di legislazione emergenziale, dalla quale non possono desumersi ricadute definitive e generalizzate. Ma ciò che conta è che nel discorso pubblico sia crollato il tabù del mercato come regolatore di ultima istanza dei prezzi.

Il caso delle mascherine italiane non è isolato.

L’Argentina ha per legge fissato, dal 20 marzo al 30 giungo 2020, i prezzi al consumo di generi alimentari, bevande e prodotti per l’igiene personale. I prezzi sono congelati al valore di quelli praticati il 6 marzo 2020 su tutto il territorio nazionale (la lista dei beni e dei relativi prezzi è disponibile qui: https://www.argentina.gob.ar/preciosmaximos). Una misura simile, concordata però tra il Governo e le imprese, è stata contemporaneamente adottata in Uruguay, con il proposito di riportare il prezzo di alimenti e prodotti sanitari ai livelli precedenti la diffusione del Covid-19.

Nelle Filippine, il Governo ha pubblicato un vero e proprio editto dei prezzi (Price Act 7581), accompagnato da una circolare dall’esplicativo titolo Price Freeze under a State of Calamity throughout the Philippines due to the Coronavirus Disease 2019. Con essa, il prezzo della maggior parte dei generi alimentari è fissato sino al 30 settembre 2020 (il provvedimento è disponibile qui: https://f.datasrvr.com/fr1/520/47589/DTI_Suggested_Retail_Bulletin.pdf).

Un provvedimento di fissazione dei prezzi è stato promulgato anche in Zimbawe. In una conferenza stampa del 25 marzo 2020 il vice presidente del governo Kembo Mohadi ha dichiarato: «There was a general agreement amongst the multi-sectoral partners that the price increase, particularly during the lockdown, was speculative and unjustified. The Multi-sectorial stakeholders committed to a price moratorium to operate based on the prices which were applicable on the 25th of March».

E’ chiaro che l’emergenza potrebbe non fare giurisprudenza. Ma le conseguenze di essa sul pensiero giuridico potrebbero essere durevoli. E pare lecito chiedersi: andrà a finire come con Diocleziano?


[1] In tema, si veda il noto passaggio del giurista Giulio Paolo, libro 33 ad edictum, D. 18.1.1.1, richiamato in più opere da von Jhering e, in Italia, da M. Talamanca, Contributi alla palingenesi della giurisprudenza romana. I. Dig. 18.1.34 e la struttura del lib. 33 ‘ad edictum’ di Paolo, in Estudios A. Calonge, II, Salamanca, 2002, 1021, nt. 110.


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