Con la Circolare n. 23/E del 29 luglio 2020, l’Agenzia delle Entrate è tornata sui propri passi e, in aderenza al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni, ha escluso che la cessione di un fabbricato – anche se destinato alla demolizione – possa essere riqualificata come cessione del terreno edificabile ai fini della tassazione della relativa plusvalenza. Si tratta di una fattispecie che ricorre non di rado nella pratica degli affari di natura immobiliare e che trae il proprio spunto dalla cessione a titolo oneroso, da parte di un soggetto agente al di fuori dell’esercizio di attività di impresa o di lavoro autonomo, di un immobile da cui ha conseguito una plusvalenza.
Come noto, l’art. 67, comma 1, lett. b), del TUIR, include tra i redditi diversi le “plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione”. La prassi della riqualificazione immobiliare trova origine nella risalente Risoluzione n. 395/E del 22 ottobre 2008, in cui l’Agenzia, rispondendo all’interpello di un contribuente, ha sostenuto che l’inserimento dei fabbricati all’interno di un’area oggetto di un Piano di Recupero, da cui discenda la possibilità di ampliare le cubature esistenti, fa sì che oggetto della compravendita non possano essere considerati i fabbricati “oramai privi di effettivo valore economico, ma, diversamente, l’area su cui gli stessi insistono, riqualificata in relazione alle potenzialità edificatorie in corso di definizione”. Da quel momento gli Uffici si sono sentiti a vario titolo legittimati a riqualificare quelle cessioni che, per i più vari motivi, lasciassero trapelare l’intenzione dei contraenti di considerare quale reale oggetto della cessione non il fabbricato, magari oggetto di futura demolizione, ma la potenzialità edificatoria sottostante ad esso (e, quindi, l’area edificabile). Tra gli elementi espressivi di una diversa volontà sono stati inclusi: la presenza di un permesso di demolizione e ricostruzione già rilasciato ovvero l’esistenza di un piano urbanistico di recupero; ancora, il prezzo di cessione del fabbricato superiore al valore normale dello stesso, e così via. I richiamati elementi hanno portato l’Amministrazione finanziaria a qualificare la cessione di fabbricato come cessione di terreno, con conseguente tassazione della plusvalenza.
Così facendo, però, la prassi amministrativa ha finito per tradire la ratio della norma, trascurando il corretto presupposto d’imposta che, con siffatta previsione, il Legislatore tributario è voluto andare a colpire.
In primo luogo, se si guarda alla relazione di accompagnamento della legge n. 413/1991, che ha introdotto la fattispecie in esame, viene chiarito che la ratio ispiratrice dell’art. 81 (attuale art. 67) del TUIR è, infatti, quella di tassare la “manifestazione di forza economica” conseguente al “fatto oggettivo” della “avvenuta destinazione edificatoria in sede di pianificazione urbanistica dei terreni”, e non derivante da un’attività produttiva (o speculativa) del proprietario, o addirittura, del futuro proprietario dei beni oggetto di cessione.
In secondo luogo, ad un più profondo livello sistematico, la norma de quo appare senza dubbio collocabile nell’alveo delle norme di carattere eccezionale, atteso che si occupa di attrarre a tassazione forme di ricchezza diverse dal classico reddito derivante dall’attività (di lavoro, di impresa, etc.) posta in essere dal soggetto. Si tratta, in sostanza, di una chiara ipotesi di reddito entrata, e non solo la Cassazione ha affermato l’assoluta eccezionalità di questo paradigma normativo (si veda da ultimo Cass., n. 3380/2020), ma anche lo stesso Legislatore lascia chiaramente intravedere la propria propensione per la nozione di reddito prodotto all’interno del nostro ordinamento: lo si evince, oltre che dalle categorie reddituali elencate dall’art. 6 del TUIR, anche dal dato della totale assenza di una disposizione “in bianco” diretta a tassare qualunque altra entrata non espressamente prevista, come invece avveniva nel vecchio art. 80 del D.P.R. n. 597/1973, antecedente storico dell’art. 81 TUIR. Con la conseguenza che, le sporadiche ipotesi riconducibili al paradigma del reddito entrata vanno relegate fra le norme aventi natura eccezionale e, quindi, non suscettibili di interpretazione estensiva o addirittura analogica.
Ciò posto, sul contrasto fra prassi amministrativa e ratio legis è intervenuto, nel 2014, il Giudice di legittimità che, con due leading cases (sentenze nn. 4150 e 15629), ha delineato i confini della vicenda precisando che la cessione di un fabbricato, pur se poi demolito, non può mai essere riqualificata come cessione di area edificabile, dal momento che l’art. 67, comma 1, lett. b), è chiaro nel fare riferimento alle sole cessioni di terreni edificabili, quindi non ancora edificati. La Corte giunse alla conclusione per cui le norme tributarie di riferimento sono inequivocabilmente finalizzate a sottoporre a tassazione la manifestazione di forza economica derivante dalla “destinazione edificatoria originariamente conferita, ad area non edificata, in sede di pianificazione urbanistica e non a quella ripristinata, conseguentemente ad intervento su area già edificata operata dal cedente o cessionario”. A questi primi arresti ne sono seguiti alcuni di segno contrario (Cass., n. 7613/2014; Cass., n. 16983/2015), poi superati da molteplici pronunce con cui venivano invece ribaditi e sviluppati i principi affermati nel 2014 (Cass., n. 7599/2016; Cass., n. 7853/2016; Cass., n. 4361/2017; Cass., n. 15920/2017; Cass., n. 23409/2018; Cass., n. 5088/2019; Cass., n. 5090/2019; Cass., n. 22409/2019; Cass., n. 3380/2020).
Da queste decisioni discende una serie di corollari che l’Amministrazione finanziaria, nell’espletamento della propria attività accertativa, non poteva ignorare:
a) il primo, consiste nella regola per cui la distinzione fra “edificato” e “non ancora edificato” è alternativa e non ammette terze soluzioni;
b) in secondo luogo, si ricava il principio per cui la cessione di un edificio non può essere riqualificata quale cessione del terreno edificabile sottostante, neppure se l’edificio non assorbe integralmente la volumetria del lotto su cui insiste;
c) ne deriva, ulteriormente, il principio per cui la pattuizione fra le parti di demolire e ricostruire, anche con ampliamento di volumetria, non può essere riqualificata come cessione di terreno edificabile;
d) infine, si ricava che il potere generale dell’Amministrazione di riqualificare un negozio giuridico in ragione dell’operazione economica sottesa trova in ogni caso un limite nell’indicazione di carattere tassativo del Legislatore, che, nella specie, ha previsto due regimi fiscali differenti per la cessione di edifici e di terreni edificabili.
Ebbene, gli Uffici, in dispregio tanto della consolidata giurisprudenza di legittimità quanto delle più fondamentali istanze di certezza e legittimo affidamento del contribuente, hanno continuato, negli anni successivi al 2014, a sollevare contestazioni in materia. Si poneva pertanto la necessità di un intervento risolutivo.
Finalmente, con la citata Circolare n. 23/E di luglio 2020, è arrivata la definitiva presa di consapevolezza dell’Agenzia delle Entrate, laddove all’interno del documento – dopo aver brevemente ricostruito il contrasto interpretativo degli ultimi anni – si afferma che “In considerazione dell’indirizzo assunto dalla giurisprudenza di legittimità, da ritenersi consolidato, e tenuto conto dei pareri con cui l’Avvocatura generale dello Stato ha ritenuto non opportuna la prosecuzione in cassazione dei giudizi in materia, devono considerarsi superate le indicazioni contenute nella risoluzione n. 395/E del 2008 e, più in generale, non ulteriormente sostenibili le pretese dell’Amministrazione in contrasto con i principi espressi dalla giurisprudenza richiamata”.
Dopo oltre un decennio di contenziosi, la questione può dirsi risolta definitivamente.