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Attualità

Direttiva ATAD: le nuove disposizioni in materia di Controlled Foreign Companies

18 Febbraio 2019

Davide Villa, Dottore Commercialista, Junior Partner, Pirola Pennuto Zei & Associati

Di cosa si parla in questo articolo

Il D. Lgs n. 142/2018[1] (“il Decreto”) ha apportato rilevanti modifiche alla disciplina sulle CFC confermando la natura prevalentemente antielusiva della stessa; le novità riguardano principalmente il requisito del controllo, l’eliminazione della bipartizione esistente tra CFC c.d. black list e CFC c.d. white list, l’introduzione di un passive income test, nonché la previsione di una unica circostanza esimente.

Relativamente al requisito del controllo, il nuovo art. 167 prevede che lo stesso si considera verificato per i soggetti esteri (i) controllati direttamente o indirettamente, anche tramite società fiduciaria o interposta persona, ai sensi dell’art. 2359 c.c. da un soggetto residente o, alternativamente (ii) nei quali un soggetto residente detiene oltre il 50% della partecipazione ai loro utili, direttamente o indirettamente, mediante una o più società controllate sempre ai sensi dell’art. 2359 c.c., o tramite società fiduciaria o interposta persona; in caso di partecipazione indiretta la percentuale di partecipazione agli utili è determinata tenendo conto della demoltiplicazione prodotta dalla catena societaria partecipativa.

Il requisito sub (ii), di natura “economica”, amplia il concetto di controllo rilevante affiancandosi a quello, prettamente “legale”, ex art. 2359 c.c.. e risulta coerente con l’estensione dell’ambito soggettivo della norma anche alle stabili organizzazioni italiane di soggetti non residenti, che controllano a loro volta soggetti non residenti.

Non è stata recepita la regola c.d. della constructive ownership, contenuta nella Direttiva ATAD e finalizzata, come chiarito dall’Action 3 del BEPS, ad evitare l’aggiramento del requisito del controllo; il Decreto, tuttavia, contemplando nell’ambito della nozione di controllo anche quello c.d. “di fatto”, deve ritenersi conforme alla previsione della Direttiva, che costituisce un minimum standard.

La novità più rilevante è, probabilmente, l’eliminazione della bipartizione originaria esistente tra regime CFC c.d. black list e CFC c.d.white list, ora sostituita da un unico regime che considera CFC i soggetti controllati non residenti che, congiuntamente, (a) risultano essere assoggettati a tassazione effettiva inferiore alla metà di quella a cui sarebbero stati soggetti qualora residenti in Italia e (b) conseguano oltre un terzo dei propri proventi dalle categorie dei c.d. passive income[2].

La scelta operata non sembra conformarsi pienamente ad alcuno dei modelli CFC proposti dalla Direttiva (jurisdictional approach ovvero transactional approach) caratterizzandosi per l’adozione di una struttura “ibrida” nella quale il conseguimento di passive income oltre una certa soglia diventa essa stessa una condizione di accesso al regime.

Quanto al requisito sub (a), inerente la tassazione effettiva, la relazione illustrativa al Decreto conferma che il confronto tra tax rate ‘effettivo’ estero (“TREE” – pari al rapporto tra imposta estera corrispondente al reddito imponibile e utile ante imposte risultante dal bilancio della controllata) ed il tax rate virtuale interno (“TRVI” – da calcolare rideterminando il reddito estero in base alle disposizioni fiscali interne) riguarda, sul fronte del TRVI, esclusivamente l’IRES e non anche l’IRAP. Tale criterio ricalca quello previsto dal previgente regime CFC c.d. white è quindi ragionevole ritenere che – in attesa della pubblicazione del provvedimento nel quale verranno indicati i criteri per effettuare, con modalità semplificate, il confronto tra i tax rate – sia opportuno continuare a fare riferimento, ove compatibile, al precedente provvedimento n. prot. 143239/2016.

Ai fini del calcolo occorre interrogarsi in merito all’applicabilità della c.d. mini IRES ossia una disposizione frutto di una “fusione” tra (l’abrogata norma) ACE ed il c.d. super-ammortamento (irrilevante ai sensi del provvedimento sopra citato). Ragioni di ordine logico-sistematico, condurrebbero ad una risposta negativa; tuttavia, tenuto conto dell’elenco apparentemente tassativo delle fattispecie escluse dalla determinazione del tax rate virtuale[3], un chiarimento da parte dell’Agenzia delle Entrate appare quanto mai opportuno.

Passando all’analisi del requisito sub (b) riteniamo che l’elencazione dei c.d. passive income fornita debba considerarsi tassativa e quindi limitata alle sole categorie ivi indicate; segnaliamo inoltre che il Decreto, per esigenze di semplificazione, ha preferito individuare l’incidenza dei passive income con riferimento ai proventi lordi (i.e. ricavi) in luogo dei redditi (i.e. ricavi al netto dei costi) come invece esplicitamente previsto dalla Direttiva; tale scelta, tuttavia, potrebbe portare risultati paradossali in virtù dei quali, in presenza di un TREE < 50% TRVI, un soggetto controllato estero con proventi lordi passive inferiori a 1/3 dei proventi totali, ma redditi complessivi derivanti esclusivamente da passive income, non sarebbe soggetto alla disciplina CFC.

Inoltre, considerato che la norma primaria fa esplicito riferimento ai proventi “realizzati” occorre interrogarsi se tra essi debbano essere inclusi anche quelli “da valutazione”; a nostro avviso la risposta dovrebbe essere negativa in quanto il termine realizzati sembra far implicito riferimento a proventi da cui scaturiscono redditi distribuibili. Anche su questo punto, tuttavia, si attendono i chiarimenti di prassi.

Tra i passive income sono inclusi anche la compravendita di beni e le prestazioni servizi infragruppo con valore economico aggiunto scarso o nullo per la cui individuazione occorre far riferimento alle indicazioni contenute nel D.M. 14 maggio 2018 in materia di TP[4].

Da una prima lettura non è chiaro quali sono, in concreto, le fattispecie che la stessa si prefigge di colpire; in attesa dei necessari chiarimenti di prassi, la nuova disposizione non sembrerebbe tuttavia applicabile alle società del gruppo che si occupano delle attività di distribuzione, trattandosi di attività “core business” alle quali, pertanto, non potrebbe essere attribuita natura di supporto.

Il richiamo al concetto di operazioni a “valore aggiunto scarso o nullo” genera peraltro una sovrapposizione solo apparente con la disciplina sui prezzi di trasferimento in quanto trattasi di due normative tra loro concorrenti aventi diverse finalità con il portato che ben potrebbe verificarsi una situazione nella quale, pur in presenza di una politica dei prezzi di trasferimento praticati infragruppo rispettosa dell’arm’s length principle, il reddito realizzato dalla controllata estera, ricorrendone i requisiti, verrebbe comunque integralmente tassato per trasparenza in Italia fermo restando ovviamente il diritto alla dimostrazione della circostanza esimente.

Proprio con riferimento alla nuova circostanza esimente, l’attuale regime prevede la possibilità di disapplicare la disciplina CFC dimostrando che il soggetto controllato estero svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali (così l’art. 167(5)), senza più fare riferimento al (necessario) radicamento nello Stato di insediamento.

La nuova formulazione sembra indirizzare l’analisi (esclusivamente?) verso l’adeguatezza e la coerenza della struttura estera in relazione all’attività svolta da parte della controllata; tuttavia non è chiaro se, ai fini dell’applicazione, è necessaria la compresenza di tutti gli elementi previsti dalla norma (personale, attrezzature, attivi e locali).

Da ultimo ricordiamo che la normativa in commento è stata ritenuta (ancora) incompatibile con il diritto dell’UE da parte dell’AIDC[5] in quanto si risolverebbe in una presunzione legale predeterminata di evasione/elusione avente portata generale, che impone quindi al contribuente l’inversione dell’onere della prova a prescindere da una effettiva evasione/frode.



[1] Il quale ha recepito in Italia la Direttiva UE 2016/1164 (ATAD 1) come modificata dalla Direttiva UE 2017/952 (ATAD 2).

[2] Il Decreto identifica i passive income come i proventi rientranti in una o più delle seguenti categorie: (i) interessi o qualsiasi altro reddito generato da attivi finanziari; (ii) canoni o qualsiasi altro reddito generato da proprietà intellettuale; (iii) dividendi e redditi derivanti dalla cessione di partecipazioni; (iv) redditi da leasing finanziario; (v) redditi da attività assicurativa, bancaria e altre attività finanziarie; (vi) redditi da operazioni di cessione di beni o prestazione di servizi a valore economico aggiunto scarso o nullo con soggetti che, direttamente o indirettamente, controllano il soggetto controllato non residente, ne sono controllati o sono controllati dallo stesso soggetto che controlla il soggetto non residente.

[3] La disposizione attuale chiarisce inoltre che ai fini del calcolo del tax rate virtuale si applicano le regole di determinazione del reddito ai fini IRES previste per le imprese residenti ad eccezione delle disposizioni (i) sulle società di comodo/perdita sistematica (ii) sugli Studi di Settore (iii) dell’ACE (ora abrogata) e, da ultimo, (iv) della rateizzazione delle plusvalenze ex art. 86(4) del TUIR

[4] L’inclusione delle attività di compravendita di beni non può considerarsi una novità assoluta nel panorama CFC tenuto conto che per il tramite della Circolare n. 28/E del 28 giugno 2011 era già stata ipotizzata la riconducibilità di tali attività tra le fattispecie dei servizi “intercompany” e quindi rilevanti ai fini della previgente disciplina delle CFC c.d. white list.

[5] Integrazione alla denuncia Commissione incompatibilità norma UE del 26 settembre 2018.

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