1. Premessa
Con la recente sentenza n. 27606 del 14 settembre 2020 (deposito 6 ottobre 2020, Pres. Di Nicola, Rel. Socci), la Sezione Terza della Cassazione Penale ha fornito alcune valide indicazioni sulle modalità con cui determinare la competenza territoriale ex art. 18, comma 2, d.lgs. 74/2000, ribadendo ancora una volta la centralità del dato della sede effettiva. La pronuncia si lascia, inoltre, apprezzare, in quanto offre un’accurata ricostruzione storica dell’istituto processuale in esame, andando a chiarire le ragioni sottostanti al dato normativo.
Trattasi di un tema caratterizzato, al tempo stesso, da una considerevole evoluzione legislativa e da una altrettanto significativa attenzione giurisprudenziale. Del resto, la disciplina della competenza territoriale per i delitti tributari è sempre stata caratterizzata da regole diverse da quelle adottate dal codice di procedura penale per la generalità dei reati. Questo ha determinato, da un lato, una serie di modifiche legislative per lo più imposte dalla necessità di riallineamento della disciplina di settore con quella ordinaria e, dall’altro, una continua presa di posizione da parte della giurisprudenza.
2. Sentenza
Nel caso di specie, il ricorso ha ad oggetto l’ordinanza del Tribunale di Avellino, il quale aveva rigettato l’istanza di riesame proposta avverso il provvedimento di applicazione della misura cautelare reale del sequestro preventivo. In particolare, si lamenta la violazione degli articoli 18 e 5 del d.lgs. 74/2000 in relazione all’art. 27 c.p.p. Il primo, come noto, prevede che la consumazione del reato in contestazione (ossia quello di omessa dichiarazione) avvenga nel luogo in cui il contribuente ha domicilio fiscale. Il ricorrente lamenta dunque che il riesame sia stato svolto dinnanzi ad un Tribunale non territorialmente competente (Avellino), autorità che avrebbe, invece, dovuto trasmettere gli atti – in conformità al dettato dell’art. 27 c.p.p. – a quello competente, che, a giudizio del difensore, era quello di Lagonegro.
Il ricorso viene giudicato inammissibile: la polizia giudiziaria aveva, infatti, accertato che l’impresa coinvolta nel procedimento penale aveva trasferito la propria sede legale ad Atena Lucana, dove era tuttavia presente un mero recapito, mentre l’attività continuava de facto ad essere svolta in Guardia del Lombardi, località presso cui erano parcheggiati gli automezzi e dove era avvenuto l’accesso ispettivo.
La Suprema Corte ribadisce che “quello che rileva per la determinazione della competenza territoriale (exart.18, comma 2, d.lgs. 74/2000), infatti, non è la sede legale formale ma la sede effettiva dell’impresa (sia essa coincidente o no con la sede legale)”.
Fin dalla relazione governativa di accompagnamento al d.lgs. 74/2000, è stato evidenziato come l’art. 18, comma 2, fornisca specifiche disposizioni per risolvere normativamente i problemi connessi all’individuazione del giudice competente in ordine alle ipotesi di reato di natura dichiarativa. “Tali problemi si connettono al nuovo sistema di trasmissione dei dati in via telematica attraverso soggetti abilitati: sistema che, ove si abbia riguardo al luogo dal quale la trasmissione parte, consentirebbe, in pratica, all’autore dell’illecito di scegliersi il giudice competente” semplicemente incaricando della trasmissione un soggetto abilitato che operi nel luogo ritenuto più conveniente.
Al contrario, “ove si abbia riguardo al luogo in cui i dati confluiscono, [ciò] porterebbe all’inaccettabile risultato di concentrare la competenza per tutti i reati presso il Tribunale di Roma, stante la gestione centralizzata del materiale informatico”. Proprio per questo motivo, si è stabilito che i reati tributari dichiarativi si considerano consumati nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale, salvo che questo non sia all’estero (ipotesi in cui si applica il criterio suppletivo del luogo dell’accertamento).
Nella sentenza si chiarisce come “la sede [sia]il luogo in cui l’ente ha il centro principale della sua attività e tale luogo – indicato nell’atto costitutivo, nello statuto e riportato nel registro delle imprese – può essere diverso da quello in cui convenzionalmente è stata stabilita la sede legale, per cui in tal caso rimane solo il dato formale della indicazione “legale” della sede ma questa è, secondo il principio di effettività, altrove”. Un parallelismo, secondo la Corte, può essere compiuto con quanto emerge in tema di IRES: “ai fini dell’individuazione della residenza fiscale delle società ed enti, in base all’art. 73 – già 87 – comma 3, del d.P.R. n. 917/1986, la nozione di sede dell’amministrazione, in quanto contrapposta alla sede legale, è assimilabile alla sede effettiva di matrice civilistica, intesa come il luogo di concreto svolgimento delle attività amministrative, di direzione dell’ente e di convocazione delle assemblee e, quindi, come luogo stabilmente utilizzato per l’accentrato, nei rapporti e con i terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente.” (cfr. Cass. Civ., sez. V, n. 15184/2019).
Ciò mostra come il criterio della sede effettiva sia già da tempo noto ed applicato in ambito tributario.
3. Evoluzione legislativa
Chiarito il criterio che, per i reati in materia di dichiarazione, determina l’individuazione dell’autorità competente, appare opportuno sottolineare come l’esistenza di tale peculiare disciplina è espressamente prevista dal codice di rito. Infatti, le disposizioni contenute nel codice di procedura penale in materia di competenza territoriale – che prevedono, in via generale, il principio fondamentale del locus commissi delicti – trovano applicazione salvo che la legislazione speciale non vi deroghi, secondo quanto previsto dall’art. 210 delle norme di coordinamento al codice di rito, ai sensi del quale “continuano a osservarsi le disposizioni di leggi o decreti che regolano la competenza per materia o per territorio in deroga alla disciplina del codice”.
Come già detto, nel caso dei delitti fiscali, la legislazione speciale ha sempre previsto una regolamentazione differente da quella vigente per i restati illeciti penali.
In particolare, la prima disposizione ad essersi occupata della competenza territoriale era l’art. 21, comma 2, l. 4/1929, ai sensi del quale la competenza per territorio era individuata in base al criterio del “luogo di accertamento del reato”. Questo criterio di competenza è stato successivamente ripreso dall’art. 11, comma 2, l. 156/1982, disposizione che ancora una volta prevedeva, con riferimento ai reati fiscali, una disciplina speciale completamente autonoma e svincolata dai criteri adottati in via generale dal codice di rito.
Il motivo alla base di questa scelta era da ricondurre alla particolare complessità degli accertamenti necessari per risalire al locus commissi delicti in merito ai reati tributari. In ragione di ciò, il legislatore aveva, dunque, optato per un criterio maggiormente obiettivo: questo luogo, nella maggioranza dei casi, finiva per coincidere con quello in cui veniva materialmente redatto il processo verbale di constatazione, risultando – nella più classica delle eterogenesi dei fini – in una scelta, di chiara discrezionalità, da parte dell’autorità fiscale.
Per tale ragione, il criterio prescelto suscitava perplessità, determinando numerose incertezze applicative e comportando una potenziale deroga all’art. 25 Cost., norma che sancisce il principio del giudice naturale precostituito per legge. Appare infatti evidente come questo criterio non consentisse una piena individuazione ex ante e sufficientemente certa dell’autorità giudiziaria competente territorialmente.
Di conseguenza, con la legge delega 205/2009, l’art. 9, lett. h) ha richiesto al legislatore delegato di individuare la competenza per territorio sulla “base del luogo in cui il reato è stato commesso, ovvero, ove ciò non fosse possibile, del luogo in cui il reato è stato accertato”. In questo modo, il criterio del luogo dell’accertamento è divenuto di natura residuale e sussidiaria.
4. Art. 18 d.lgs. 74/2000
Il primo comma dell’art. 18 indica il principio generale in materia di competenza territoriale, affermando che: “salvo quanto previsto dai commi 2 e 3, se la competenza per territorio per i delitti previsti dal presente decreto non può essere determinata a norma dell’art. 8 c.p.p., è competente il giudice del luogo di accertamento del reato.”
Da tale principio, derivano le seguenti conseguenze, sotto il versante applicativo.
In primo luogo, stante l’esclusiva applicabilità della previsione ai soli reati previsti dal d. lgs. 72/2000, rimane, per i delitti finanziari differenti da quelli individuati dalla citata legislazione complementare, in vigore l’art. 21, comma 2, l. 4/1929. Secondariamente, emerge come il principio del locus commissi delicti diviene il criterio fondamentale e principale per individuare la competenza, mentre il luogo dell’accertamento diventa sussidiario. In terzo luogo, il richiamo esclusivo all’art. 8 c.p.p. esclude l’applicazione delle regole suppletive di cui all’art. 9 c.p.p.
Dunque, l’individuazione della competenza per territorio avviene sulla base dell’art. 8, comma 1, c.p.p., il quale prevede il criterio generale del locus commissi delicti, ossia il luogo in cui si è verificato l’evento ovvero si è realizzata la condotta.
È opportuno, però, ricordare come l’individuazione del locus commissi delicti debba essere sorretta da riscontri certi ed obiettivi e non da presunzioni e congetture prive di dati certi di riscontro. Perciò, in assenza di elementi idonei a determinare la competenza sulla base del luogo di consumazione del reato, dovrà farsi necessariamente riferimento al criterio sussidiario del luogo di accertamento del reato, nonostante le criticità precedentemente evidenziate con riferimento alla normativa previgente.
Appare utile osservare come il primo comma abbia, in realtà, una portata fortemente ridotta, a causa delle disposizioni contenute nei due successivi commi, che recano previsioni integrative o derogatorie per specifiche fattispecie di reato.
Nello specifico, il secondo comma introduce un’eccezione di particolarmente ampia applicazione, in quanto stabilisce che i delitti dichiarativi individuati al Capo I del Titolo II si considerano consumati “nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale”, senza che per essi assuma rilievo il locus commissi delicti. Questa scelta trova giustificazione – come ben evidenziato nella già citata Relazione ministeriale – nel nuovo sistema di trasmissione telematica delle dichiarazioni attraverso soggetti a ciò abilitati: non apparve opportuno optare per il luogo di consegna dei dati al soggetto abilitato come luogo di competenza, perché altrimenti il contribuente avrebbe potuto scegliersi il giudice competente. Allo stesso modo, non si volle riconnettere l’individuazione del giudice competente alla ricezione di qualsivoglia documentazione, dal momento che in questo caso, conseguenza logica ed univoca sarebbe stata quella di radicare la competenza presso l’autorità romana.
Il domicilio fiscale, definito dagli artt. 58 e 59 del D.P.R. 600/1973 in materia d’imposta sui redditi, va distinto a seconda che si tratti delle persone fisiche o giuridiche: nel primo caso esso è da individuarsi nella residenza risultante dall’anagrafe, mentre nel secondo coincide con la sede legale o, in mancanza, con la sede amministrativa o con la sede secondaria o con il luogo in cui si trovi una stabile organizzazione o dove eserciti prevalentemente l’attività. Questo principio rimanda all’effettività, come evidente anche dalla sentenza in commento: ove il giudice penale si convinca della fittizietà della sede legale, a fronte di una discrasia tra situazione reale e situazione apparente, potrà disattendere il dato formale, andando, a norma del medesimo comma, a ritenere consumato il reato nel luogo in cui si trova la sede effettiva. Qualora tale domicilio fiscale non sia individuabile, trova applicazione il criterio residuale e suppletivo del luogo di accertamento del reato. Come emerge anche dalla sentenza n. 535/2015 della sezione terza della Suprema Corte, “ai fini della determinazione della competenza per territorio per i reati tributari in materia di dichiarazione, il locus commissi delictiva individuato, per le persone giuridiche, in quello in cui hanno il domicilio fiscale che, di regola, coincide con la sede legale, salvo che non emergano prove univoche tali da smentire la presunzione suddetta, con la conseguenza che, qualora sia stata stabilita una sede legale fittizia, il domicilio coincide con il luogo nel quale si trova la sede effettiva della società ed in tale luogo il reato si intende consumato”.
Sono stati avanzati dubbi sulla legittimità costituzionale della norma, sotto il profilo dell’eccesso di delega. Infatti, il criterio del domicilio fiscale diventerebbe – nei fatti, considerato l’elevato numero di illeciti dichiarativi – il principio fondante la competenza per territorio, pur non essendo stato in tal modo individuato nella legge delega.
Il rilievo non appare cogliere nel segno, dal momento che il secondo comma dell’art. 18 può essere considerato come un mero intervento di adattamento e di chiarificazione del criterio del locus commissi delicti in rapporto alla specificità dei reati dichiarativi.
Il terzo comma introduce un’ulteriore deroga, nel caso in cui il reato di emissione di fatture false o altri documenti per operazioni inesistenti sia realizzato con l’utilizzo di più fatture o documenti. Andando a considerare questo come un unico reato, viene stabilito che, qualora non sia possibile stabilire il luogo di competenza secondo i precedenti commi, la competenza sarà quella del luogo in cui ha sede l’ufficio del Pubblico Ministero che ha per primo iscritto la notizia di reato nel registro (ex art. 9, comma 3, c.p.p.). Infatti, il legislatore temeva che, nel caso in cui i documenti o le fatture false fossero stati emessi in luoghi diversi, la scoperta in fasi successive dei singoli episodi avrebbe potuto portare a continue questioni di competenza (sul punto, si veda Cass. Pen., sez. III, n. 20505/2014). Qualora più luoghi di emissione non siano determinabili, si dovrà tenere in considerazione il luogo di consumazione del reato, se almeno uno è noto, o il criterio residuale del luogo di accertamento. Ovviamente, nel caso in cui ci si trovi di fronte ad una pluralità di periodi di imposta, ci si dovrà confrontare con una pluralità di reati, ciascuno da considerare alla luce dell’articolo 18, comma 1.
Da ultimo, si consideri che la regola sussidiaria, ancorché particolarmente ricorrente, del luogo di accertamento del reato (di cui all’art. 18, comma 1) dovrà far riferimento al luogo in cui sono stati valutati gli elementi che depongono per la sussistenza della violazione (e non in senso meramente formalistico; cfr., sul punto, Cass. Pen., sez. III, n. 11977/2014).
In particolare, si è spesso ricorso a tale criterio per il delitto di occultamento di documenti contabili e per i delitti di omesso versamento. Per quanto riguarda il primo, vista la sostanziale impossibilità di accertare il luogo ove è avvenuto l’occultamento o la sottrazione, la competenza si radica nel luogo dell’accertamento, ossia il luogo in cui la Guardia di Finanza ha chiesto all’imputato di esibire il documento contabile e in cui vi è stato un vero e proprio occultamento, ad esempio attraverso una falsa dichiarazione di smarrimento dello stesso. In materia, invece, di omesso versamento, si deve considerare come l’adempimento dell’obbligazione tributaria possa essere compiuto presso qualsiasi concessionario operante sul territorio nazionale. Ciò rende necessario, vista l’impossibilità di individuare con esattezza il locus commissi delicti, ricorrere al criterio sussidiario del luogo di accertamento del reato.
Infine, per quanto riguarda l’omesso versamento di ritenute, è stato sostenuto che la competenza per territorio va individuata, ai sensi dell’articolo 8 c.p.p., nel luogo in cui ha sede effettiva l’impresa, sempre da intendersi come centro dell’attività amministrativa e direttiva e, perciò, come luogo in cui logicamente si è verificata l’omissione (si veda Cass. Pen., sez. III., n. 23784/2017).