La diffusione del virus Covid-19 sta ponendo gli Stati di fronte ad una crisi sanitaria di enormi proporzioni che, se osservata dal punto di vista dei riflessi economici e sociali, non ha precedenti nella storia dell’umanità. La pandemia mondiale e la globalizzazione economica rappresentano i presupposti di una possibile “tempesta perfetta”, che si sta manifestando con la profonda recessione in atto.
Il compito che ci troviamo ad affrontare è quello di evitare, lo ha scritto nei giorni scorsi Mario Draghi, che la recessione si trasformi in una “depressione duratura”. Per fare questo, bisogna sapere che non esistono, neppure sul piano economico-giuridico, rimedi predefiniti, già sperimentati. L’unica sicurezza che abbiamo è che la reazione, per definirsi tale, dovrà avvenire con strumenti dotati di grande forza di impatto.
L’elaborazione e l’attuazione di simili strumenti è una responsabilità che impegna in primo luogo i governi nazionali e le organizzazioni sovranazionali e riguarda il reperimento delle risorse, così come l’impiego delle stesse.
Da questo secondo punto di vista, gli Stati si sono principalmente mossi, fino ad ora, nel senso di sostenere la liquidità degli operatori economici (oltre che per necessari interventi assistenziali). Questo è avvenuto anche in Italia, con il DL n. 18/20, che ha rinviato i termini di versamento di tributi ed oneri pubblici, facilitato l’accesso al credito, erogato sussidi per coprire talune spese improrogabili o necessarie.
Raffaello Lupi, dalle pagine di questa Rivista, ha sostenuto che qualunque classe politica avrebbe adottato soluzioni simili a quelle contenute nel decreto CuraItalia ed è probabilmente vero. Certo, si poteva evitare di utilizzare la crisi per creare situazioni di chiara disparità, sul piano procedimentale e processuale, tra Amministrazione finanziaria e contribuenti (a favore, ça va sans dire, della prima); si doveva tendere a rinvii generalizzati e con scadenze omogenee, piuttosto che procedere con una babele disordinata ed incerta di sospensioni di termini; si potevano immaginare misure diverse dalle erogazioni una tantum a pioggia.
Tuttavia, lo spirito di fondo del decreto CuraItalia è quello, condivisibile, di dare una immediata risposta ai problemi più urgenti che la crisi sanitaria ha determinato (si vedano in merito anche le proposte di Confindustria).
Dobbiamo però essere consapevoli che si tratta di misure tampone, emergenziali, su cui non può essere basata la “fase 2” della reazione alla crisi, quella cioè diretta a contrastare la depressione duratura attraverso lo stimolo alla produzione di nuova ricchezza da parte degli operatori economici.
Questa seconda fase, di ricostruzione, deve prevedere un ruolo centrale alle misure di carattere tributario.
Sia perché la “leva fiscale” è tra gli strumenti legislativi più efficaci e rapidi, per liberare risorse con cui irrorare il sistema economico, colpito da un fattore esogeno e non endogeno (come invece è successo in occasione delle altre più recenti crisi).
Sia perché vi è una questione di base che deve essere affrontata: data l’attuale configurazione dell’ordinamento tributario, dato il livello “ordinario” di imposizione fiscale, qualunque ripartenza “post-bellica” rischia di essere ostacolata e disincentivata.
Le misure tributarie dovranno avere un impatto adeguato e proporzionato rispetto alla crisi da fronteggiare, il che significa che dovranno essere in grado di realizzare un impulso senza precedenti alle attività produttive, rafforzando la capacità reddituale degli operatori.
Il che si può ottenere, a mio avviso, con interventi che siano generali e non selettivi; semplici; il più possibile strutturali.
Gli incentivi fiscali dovrebbero riguardare tutte le attività economiche e non solo determinate filiere o aree geografiche, perché l’impatto della crisi è generalizzato e colpisce ogni singolo operatore. Non si possono neppure replicare misure adottate in passato, miranti ad incentivare alcune scelte imprenditoriali o professionali (determinati beni o certe operazioni), perché la crisi interessa trasversalmente la conduzione ordinaria delle attività produttive.
La semplicità è poi strettamente connessa alla facilità e sicurezza di applicazione della misura (e, quindi, alla realizzazione dell’obiettivo legislativo), nonché alla percezione che della misura si ha tra i contribuenti, il che condiziona, in definitiva, lo stesso effetto incentivante.
Infine, si dovrebbero evitare interventi che determinino strappi nel sistema tributario (come sarebbe un condono generalizzato: ingiusto ed inutile), tentando, accanto a misure inevitabilmente transitorie, di migliorare i difetti strutturali del sistema stesso.
Penso, in particolare, alla ingannevole progressività della nostra imposta personale sul reddito: eccessivamente punitiva per i redditi medi, troppo blanda per i redditi più elevati (con un andamento ad U rovesciata, ben illustrato dall’articolo di Ugo Colombino su lavoce.info). Rivedere la progressività complessiva del tributo, con contestuale abrogazione dei tanti regimi sostitutivi, ed alleggerire così la pressione fiscale sulla fascia reddituale media, determinerebbe un formidabile effetto boost, specie per le PMI ed i lavoratori autonomi.
Altra misura a regime, di cui soprattutto oggi il mondo produttivo ha bisogno, è una reale ed ampia riduzione del “cuneo fiscale” sul lavoro dipendente.
Inoltre, si potrebbero immaginare meccanismi temporanei, per il periodo 2020-2021, come una riduzione delle basi imponibili delle imprese e società attraverso estese misure di iper-ammortamento, immediatamente spendibili; la parziale trasformazione in crediti d’imposta delle perdite che le imprese inesorabilmente produrranno; la riduzione percentuale degli acconti d’imposta (oggi anche al 110%).
Al di là del profilo della sostenibilità economica, comunque centrale per definire la dimensione dell’intervento statale, credo si debba procedere senza indugi e con coraggio, immaginando anche strumenti nuovi, perché nuova è la dimensione dell’interesse fiscale, ai tempi del coronavirus.