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Editoriali

Il nuovo diritto euro-unitario in tema di fusioni, scissioni e trasformazioni transfrontaliere

9 Dicembre 2019

Marco Lamandini

Professore ordinario di diritto commerciale, Università di Bologna

Di cosa si parla in questo articolo

1. Il 6 novembre 2019 ha avuto compimento il processo di adozione della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 per quanto riguarda le trasformazioni, le fusioni e le scissioni transfrontaliere. La direttiva dovrà essere recepita entro 36 mesi dalla sua entrata in vigore. Si tratta di un importante modifica, che vale a introdurre, per la prima volta, un regime armonizzato per le trasformazioni e scissioni transfrontaliere – seppure, quanto alle seconde, solo per quelle attuate attraverso costituzione di una o più NewCo (nel contesto delle quali viene tuttavia anche, sorprendentemente, ricondotta dalla direttiva, all’art. 160 ter, paragrafo 4, lettera c), una c.d. scissione per scorporo che, nelle nostre categorie, sembra costituire un mero conferimento in natura). Essa vale, al tempo stesso, a modificare il precedente approccio euro-unitario alla disciplina delle fusioni transfrontaliere, sostituendo a norme essenzialmente di conflitto dirette a governare il cumulo nell’applicazione delle leggi nazionali applicabili norme di diritto materiale uniforme, seppur non di armonizzazione massima (come pur era stato suggerito nei lavori preparatori della Commissione del progetto di direttiva).

2. La nuova direttiva, come era già avvenuto con la direttiva del 2005 riguardante le fusioni transfrontaliere, interviene dopo che la Corte di Giustizia aveva avuto modo di ribadire la centralità della libertà di stabilimento in relazione alla mobilità delle società con la sentenza del 25 ottobre 2017, Polbud Wykonawstwo, C-106/16 (ECLI:EU:C:2017:804). Essa offre tuttavia un regime più completo di diritto secondario europeo, che muovendo dai principi enunciati dalla Corte (ricordati ad esempio nel considerando 2 ove si legge che “nell’interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia dell’Unione europea, la disposizione [dell’art. 49, secondo comma, TFUE] comprende il diritto di una società costituita in conformità con la normativo di uno Stato membro di trasformarsi in una società disciplinata dal diritto di un altro Stato membro, purché siano soddisfatte le condizioni stabilite dalla normativa di tale altro Stato membro e, in particolare, il criterio posto da quest’ultimo Stato membro per collegare una società all’ordinamento giuridico nazionale”), ambisce a contemperare gli stessi con altri obiettivi dell’integrazione europea quali la protezione sociale di cui all’art. 3 TUE e 9 TFUE e la promozione del dialogo sociale di cui agli artt. 150 e 151 TFUE. Si creano in tal modole condizioni per il superamento di quelle frammentazioni delle regole e incertezza del diritto che hanno costituito fino ad ora un ostacolo (in taluni casi del tutto impeditivo dell’operazione; in altri casi non in sé impeditivo, ma fonte di indesiderati maggiori costi e maggiori complessità procedurali) all’esercizio in questa forma della libertà di stabilimento.

3. Gli aspetti salienti del nuovo regime euro-unitario possono ravvisarsi, come detto, nell’introduzione di regole armonizzate di diritto materiale, le quali operano in relazione alla tutela dei soci, alla tutela dei creditori e alla tutela dei lavoratori. Si tratta in molti casi, come rende manifesto il considerando 17 con riguardo alle tutele dei soci “di un grado minimo di protezione”, con la conseguenza che gli Stati membri possono “mantenere o introdurre norme supplementari di tutela per i soci, a meno che tali norme non confliggano con quelle previste dalla direttiva o con la libertà di stabilimento”. Le soluzioni di diritto materiale euro-unitario introdotte, per quanto (come di consueto) tributarie delle diverse tradizioni nazionali, presentano diversi aspetti di interesse. Quanto alla tutela dei soci, non risulterà certo sorprendente che molte delle tutele previste dalla direttiva trovino già ora riscontro nel nostro diritto nazionale. Ad esempio, la direttiva prevede il diritto, quanto meno per i soci che hanno votato contro la relativa delibera e che per effetto dell’operazione risultino soci di una società disciplinata dal diritto di uno Stato membro diverso, di alienare le loro azioni per un’adeguata liquidazione in denaro, con effetti analoghi al diritto di recesso riconosciuto dal diritto nazionale in caso di trasferimento della sede all’estero. Viene demandato agli Stati membri di disciplinare il suddetto diritto sulla base di una serie di principi armonizzati dalla direttiva stessa, tra cui quello – già da noi ben noto – in forza del quale il socio che ritenga inadeguata la liquidazione offerta dalla società è legittimato ad agire per ottenere un conguaglio davanti all’autorità competente o all’organismo incaricato a norma del diritto nazionale. Al contempo, la direttiva appresta come tutela per i soci di una fusione transfrontaliera che pur abbiano votato favorevolmente per la fusione il diritto di contestare il rapporto di cambio. Naturalmente si tratta, anche in questo caso, di un diritto non nuovo nel nostro ordinamento. Tuttavia, costituisce una interessante novità che l’art. 126 bis, all’ultimo periodo del paragrafo 6, rimetta agli Stati membri la scelta se disporre che il rapporto di cambio delle azioni stabilito dalla decisione dell’autorità competente che accolga il ricorso di uno o più soci che abbiano contestato il rapporto di cambio “si applichi a qualsiasi socio della società partecipante alla fusione”, acquisendo in tal modo efficacia erga omnes. Del pari, è di sicuro interesse che l’art. 126 bis, al paragrafo 7, consenta agli Stati membri di prevedere (come talora risulta anche da talune esperienze italiane, ma nel silenzio della legge nazionale sul punto) che “la società risultante dalla fusione transfrontaliera abbia la facoltà di corrispondere il conguaglio mediante attribuzione di azioni o altro indennizzo, anziché in denaro”. Quanto alla tutela dei creditori (anteriori all’operazione transfrontaliera), la direttiva richiede agli Stati membri di provvedere, come nella sostanza il nostro ordinamento già fa, che il creditore che non è soddisfatto dalle garanzie offerte nel progetto, possa rivolgersi alla competente autorità amministrativa o giudiziaria per ottenere garanzie adeguate, essendo tuttavia onere di tale creditore quello di dimostrare che l’operazione mette in pericolo il soddisfacimento del suo credito e non sono state fornite garanzie sufficienti. Viene del pari previsto – con previsione che è viceversa parzialmente destinata ad innovare il nostro ordinamento rispetto a quanto dispone ora l’art. 2503 c.c. (che lo consente solo alla società di revisione che agisca quale esperto), qualora, in sede di attuazione, la relativa opzione fosse esercitata – che gli Stati membri possano esigere dai competenti organi sociali “una dichiarazione che rifletta accuratamente la situazione finanziaria della società ad una data non anteriore ad un mese rispetto alla pubblicazione della dichiarazione”, con la quale si attesti che, sulla base delle informazioni di cui si dispone ed effettuate indagini ragionevoli, “nulla indica che la società possa non essere in grado di rispondere delle proprie obbligazioni alla scadenza”. Quanto alla tutela dei lavoratori, si estendono i diritti di informazione e consultazione dei lavoratori in conformità alle direttive 2002/14/CE e 2001/23/CE. Si richiede inoltre, con previsione innovativa anche per il nostro ordinamento, che la relazione dell’organo di amministrazione, nella sezione destinata ai dipendenti, illustri a) le implicazioni della trasformazione transfrontaliera per i rapporti di lavoro come anche, se del caso, le eventuali misure per salvaguardare tali rapporti e b) le eventuali modifiche sostanziali delle condizioni di impiego applicabili o dell’ubicazione dei centri di attività della società.

4. Per quanto in linea generale la disciplina della trasformazione transfrontaliera e della scissione transfrontaliera risultino, dalla direttiva, ricalcati su quella della fusione transfrontaliera (che come si ricorderà era l’unica tra le tre operazioni transfrontaliere ad essere già disciplinata a livello europeo dalla direttiva 2005/56/CE, poi consolidata nella direttiva 2017/1132) e l’art. 86 nonies per la trasformazione e l’art. 160 nonies per la scissione transfrontaliera prevedano ad esempio che “gli Stati membri dispongono che la maggioranza necessaria per l’approvazione sia pari ad almeno due terzi ma a non oltre il 90% dei voti attribuiti alle azioni o al capitale sottoscritto rappresentati nell’assemblea generale” avendo cura di precisare che “in nessun caso la percentuale minima di voti richiesta sia superiore a quella che il diritto nazionale prevede per l’approvazione di una fusione transfrontaliera”, vi sono alcune previsioni specifiche per queste due operazioni, percepite dal legislatore europeo (come emerge nitidamente dai lavori preparatori) come più a rischio di un utilizzo opportunistico in pregiudizio delle ragioni dei creditori e dei lavoratori. L’art. 86 undecies, al paragrafo 4, prevede, ad esempio, che gli Stati membri “provvedono a che i creditori i cui crediti siano anteriori alla data di pubblicazione del progetto di trasformazione transfrontaliera, possano agire in giudizio contro la società anche nello Stato membro di partenza, entro due anni dalla data in cui la trasformazione ha acquistato efficacia, senza pregiudizio delle norme sulla competenza derivanti dal diritto dell’Unione o nazionale o da un accordo contrattuale. Tale facoltà di agire in giudizio si aggiunge alle altre norme sulla scelta del foro competente applicabili conformemente al diritto dell’Unione”. A sua volta l’art. 86 terdecies per la trasformazione e l’art. 160 terdecies per la scissione transfrontaliera dettano una articolata disciplina dei diritti di partecipazione dei lavoratori in funzione antielusiva.

5. Proprio il timore di un uso opportunistico in danno dell’interesse generale di queste operazioni di riorganizzazione societaria su base transfrontaliera costituisce infine la ragione della disposizione per certi aspetti più ambigua della direttiva. Una disposizione che codifica sì un principio da tempo enunciato dalla Corte di Giustizia – e cioè che la libertà di stabilimento non può essere utilizzato per scopi abusivi e fraudolenti – ma lo fa demandando agli Stati membri il compito di provvedere che l’autorità competente non rilasci il certificato preliminare necessario per il compimento dell’operazione “qualora venga stabilito, in conformità al diritto nazionale, che [l’operazione] transfrontaliera è effettuata per scopi abusivi o fraudolenti, comportando la, o essendo diretta all’evasione o all’elusione del diritto dell’Unione o nazionale, ovvero per scopi criminali” (v. art. 86 quaterdecies, paragrafo 8 per la trasformazione transfrontaliera; art. 127, paragrafo 8 per la fusione transfrontaliera; art. 160 quaterdecies, paragrafo 8 per la scissione transfrontaliera). In questo modo, a me sembra che la direttiva trasformi un principio che fino ad ora era parsimoniosamente custodito e applicato dalla Corte di Giustizia nella sua verifica di compatibilità dei diritti societari nazionali con la libertà di stabilimento in una norma di diritto secondario europeo che addirittura impone – e non già solo legittima, come avveniva in base alla giurisprudenza della Corte sulla libertà di stabilimento – agli Stati membri di apprestare un controllo amministrativo o giudiziario (la scelta è rimessa a ciascuno Stato membro: v. ad esempio art. 86 quaterdecies, paragrafo 1) volto ad impedire riorganizzazioni societarie transfrontaliere che siano giudicate dallo Stato membro di partenza “per scopi abusivi e fraudolenti”. Se si considera, tuttavia, che la direttiva già armonizza con norme di diritto materiale i presidi (minimi) di tutela dei soci di minoranza, dei creditori (ivi compreso il fisco) e dei lavoratori (di modo che risulta difficile comprendere come un’operazione che, di necessità, rispetti tali tutele, possa ciò non di meno apparire abusiva) e che la nozione di abuso richiama per sua natura una fattispecie “in bianco”, vi è da domandarsi se davvero fosse necessario operare una simile, ampia, delega a favore degli Stati membri. Il timore è che, per effetto di essa, possa domani risultare più difficile alla Corte di Giustizia considerare in violazione del diritto primario europeo disposizioni nazionali che, per quanto restrittive della libertà di stabilimento, si pongano formalmente come di attuazione della clausola anti-abuso prevista dalla direttiva e possano dunque invocare la “copertura” offerta dal diritto secondario europeo (diritto secondario europeo rispetto alla cui idoneità a violare le libertà fondamentali la Corte ha in genere un atteggiamento più benevolo che non nei confronti del diritto nazionale). Solo il futuro dirà se, con vera e propria eterogenesi dei fini, questa ambigua previsione potrà costituire il “cavallo di troia” con cui soggiogare, in questo campo, il diritto (europeo) alla politica (nazionale).

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