L’acronimo ACE è quasi tautologico, visto che tutte le agevolazioni fiscali per l’azienda sono finalizzate, dopotutto, alla crescita economica. E’ più interessante il retroterra culturale dell’istituto, molto anteriore al 2011, anno in cui venne varato. Esso affonda le radici nella pretesa discriminazione del carico tributario a danno dei frutti del capitale proprio a vantaggio di quello di debito; se ne parla anche a proposito della deducibilità fiscale degli interessi rispetto all’ovvia indeducibilità dei dividendi, con una serie di evocazioni cui fanno capo anche l’idea di capitalizzazione sottile e gli attuali limiti alla deduzione degli interessi passivi entro il 30% del MOL. E’ una visione chiaramente riduttiva, semplicistica, in quanto non considera che gli interessi sono pienamente imponibili in capo a chi li percepisce. Alla piena imponibilità degli interessi per il percettore si accompagna l’abbattimento della base imponibile dei dividendi, per considerare l’imposta già assolta dalla società erogante. I paragoni di carico tributario, su flussi reddituali diversi e alternativi, devono tener conto di tutte le imposte e dell’intreccio di deducibilità e imponibilità in tutti i passaggi che ciascuno effettua; non ha quindi senso giustificare l’ACE confrontando isolatamente la deducibilità degli interessi con l’indeducibilità dei dividendi. Bisogna piuttosto analizzare il carico tributario complessivo, a partire da quello che accadeva con la c.d. “DIT”, dual income tax, che assoggettava il rendimento figurativo del capitale, secondo i tassi d’interessi correnti, allo stesso regime dei redditi finanziari delle persone fisiche; al momento della distribuzione dei redditi ai soci, questi ultimi avrebbero solo dovuto corrispondere l’ordinario adeguamento dell’Irpef all’ires, già considerata assolta dalla società; il “total tax rate” sul rendimento del capitale proprio era così un po’ meno oneroso di quello Irpef ordinario, cui si giungeva alla fine sommando l’imposizione su società e soci. Il regime DIT era quindi sempre meno conveniente di quello sugli interessi obbligazionari, che scontavano complessivamente solo l’imposta sostitutiva sui redditi finanziari, oggi il 26%.
Per questo l’ACE tolse invece del tutto, sul rendimento figurativo del capitale proprio, la prima fase di tassazione, in capo alla società, lasciando solo la seconda, al momento della distribuzione dei dividendi. L’ACE portava così a una detassazione degli utili reinvestiti, nei limiti del rendimento figurativo del capitale proprio incrementale (non dell’intero stock di capitale proprio esistente); la successiva distribuzione del dividendo, non assoggettato a imposta in capo alla società grazie all’ACE, avrebbe scontato il 26% di imposta sostitutiva, esattamente come i suddetti interessi su un finanziamento soci, tramite prestito obbligazionario; il flusso reddituale si sarebbe chiuso in entrambi i casi con un total tax rate del 26 %, in un caso sui dividendi, nell’altro sugli interessi (deducibili per la società e imponibili per il socio).
C’è una differenza “tempistica” sui momenti impositivi, in quanto l’ACE avrebbe consentito di azzerare il carico tributario fino al momento della distribuzione dei dividendi, mentre l’imposta sostitutiva sugli interessi passivi avrebbe dovuto essere comunque applicata dalla società sugli interessi maturati, a prescindere dalla loro percezione da parte del socio; è una caratteristica del finanziamento obbligazionario, mentre un ipotetico finanziamento ordinario farebbe scattare l’ordinaria progressività IRPEF, con un carico fiscale molto maggiore (analogo a quello ordinario dei dividendi, considerando la precedente imposizione IRES sulla società).
Insomma, alla fine l’ACE, rispetto alla DIT, che aveva la suddetta logica di coerenza impositiva col regime sostitutivo dei redditi finanziari, crea un vero e proprio salto di imposta ai limitati fini IRES, giustificandosi solo con la finalità extrafiscale dell’incentivazione al sistema produttivo. Tuttavia se consideriamo che la seconda fase della tassazione, alla distribuzione dei dividendi, essa equivale al carico fiscale su un eguale importo di interessi, se tassati con l’imposta sostitutiva sui redditi finanziari. L’ACE era quindi, oggettivamente, uno strumento perequativo di carico tributario tra interessi e dividendi. L’unica differenza, ripetiamo, è il momento di applicazione, che con l’ACE può essere differito al momento della distribuzione. Questo confronto vale nel caso in cui il socio percettore è una persona fisica residente, mentre il discorso è più articolato per i dividendi spettanti a società estere di gruppi multinazionali; in questi casi il carico fiscale globale dipende dalla tassazione dei dividendi “in uscita” a seconda della convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni applicabile alla società-socia; visto il tenore generale medio di queste convenzioni, la perdita di gettito per l’erario italiano è comunque probabilmente superiore.
Comunque in entrambi i casi (soci italiani e gruppi multinazionali) è difficile stimare l’incidenza marginale dell’ACE sulle capitalizzazioni di società italiane, e soprattutto sugli investimenti aggiuntivi rispetto a quelli che si sarebbero comunque fatti, per motivi economico sostanziali. La mia sensazione è che tali scelte dipendano da variabili molteplici, dove quelle favorevoli e quelle ostili alle aziende non si compensano tra loro, ma danno l’impressione di un contesto sociale inaffidabile. Anche per l’ACE questo spettacolo di “stop and go”, a seconda delle compagini governative, su un istituto “d’immagine” verso il mondo aziendale è un danno in sé, in termini di sensazione di affidabilità e stabilità, che è quello cui le aziende maggiormente guardano. In termini di coerenza, sarebbe stato forse addirittura meglio evitare la reintroduzione del beneficio, tanto più che esso, per inevitabili ragioni di abbassamento dei tassi di interesse fin quasi a zero, ha un appeal insignificante rispetto al rendimento del capitale in azienda.