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Editoriali

Istanze delle minoranze e nuove prospettive per la corporate governance

11 Novembre 2019

Niccolò Abriani

Professore ordinario di diritto commerciale, Università di Firenze

1. Di recente è assurta agli onori della cronaca la richiesta avanzata da alcuni soci di Cattolica Assicurazioni di avere acceso all’elenco aggiornato degli aventi diritto al voto al fine di sollecitare la convocazione di un’assemblea straordinaria che metta all’ordine del giorno una revisione delle regole di governance. Da quanto si apprende dai giornali, l’attenzione dei soci di minoranza si appunta sulla proposta di introdurre limiti statutari di età e di mandato per gli amministratori e sulla predeterminazione di un tetto massimo agli emolumenti, oltre a un auspicato “rafforzamento del legame con i territori”. Al di là di quest’ultimo peculiare profilo, l’iniziativa offre l’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte della corporate governance e sui suoi possibili sviluppi: e ciò tanto sul piano generale, quanto con più specifico riferimento alle società che hanno adottato, come appunto Cattolica, il sistema monistico di amministrazione e controllo.

Sul primo fronte, nuove best practice potranno essere introdotte in occasione del recepimento negli statuti delle nostre società quotate delle prescrizioni contenute nella SHRD II (e nel D.Lgs. n. 49/ 2019), che ha condotto a un’ulteriore valorizzazione del ruolo degli investitori istituzionali in una prospettiva di lungo termine (art. 124-quinquies TUF).

L’attenzione dedicata alla sostenibilità di medio e lungo periodo e ai risultati di natura non strettamente finanziaria – unitamente alla prima fase di sperimentazione della disciplina sulla informazione non finanziaria (anche in questo caso di fonte eurocomunitaria: Direttiva 2014/95 e D.lgs. n. 254 del 30 dicembre 2016) – potrebbe rafforzare la tendenza, già emersa in alcune società, ad ampliare l’angolo prospettico delle politiche di remunerazione, integrandole con criteri e parametri non strettamente finanziari, con una crescente attenzione al dato reputazionale, alla tutela degli stakeholders e, più in generale, al conseguimento di specifici obiettivi in punto di sostenibilità (e in questo alveo potrebbero forse ricondursi le ricordate istanze di rafforzamento del legame con i territori di riferimento).

All’interno di questo percorso di progressivo riallineamento dei compensi ad obiettivi di medio e lungo periodo coerenti con gestioni prudenziali e prospettiche, si iscrivono i principi di proporzionalità nelle remunerazioni, invocati da più parti su scala planetaria e che, in Italia, hanno trovato un loro punto di emersione proprio nel settore assicurativo: il riferimento è al Regolamento IVASS 38/2018 che richiede ai comitati per le remunerazioni di procedere a una verifica della proporzionalità delle remunerazioni dell’amministratore esecutivo rispetto al “personale rilevante” delle compagnie. In questa direzione, piuttosto che predeterminare tetti massimi astratti alle remunerazioni, si potrebbe appuntare l’attenzione sul rapporto mediano tra la retribuzione dei vertici aziendali, prevedendo un coefficiente massimo secondo un meccanismo di comply or explain che imponga di specificare le ragioni di un eventuale superamento dello stesso e la sua coerenza rispetto alle politiche generali di retribuzione e progressione di carriera dei dipendenti (e v. gli spuntiofferti, nel Regno Unito, dal Companies Miscellaneous Reporting Regulations del 2018 e dall’ultima versione del Corporate Governance Code).

E sempre con riferimento alle politiche di remunerazione si potrebbe cogliere l’occasione per unfine tuning sui profili sui quali si sono sinora riscontrate le maggiori criticità applicative, che – come emerge dall’ultima Relazione sull’evoluzione dellacorporate governance delle società quotate – si concentrano sulle indennità di fine carica e soprattutto sulle clausole di claw back per far fronte ai risultati negativi emergenti nel lungo periodo.

2. Non meno interessanti – e virtuosi – potrebbero essere gli sviluppi in ordine ai prefigurati “limiti statutari di età e di mandato per gli amministratori”. Qui si tratta non soltanto di “prendere seriamente” il termine di nove anni previsto dal Codice di autodisciplina come limite massimo per l’indipendenza dei consiglieri, richiedendo un più rigoroso explain per chi intenda discostarsene, ma di valutare se non sia opportuno predeterminare a livello statutario tale limite massimo, in particolare per i componenti indipendenti del comitato rischi delle banche, per i sindaci delle società a sistema tradizionale e per i membri del comitato per il controllo sulla gestione delle società a sistema monistico.

Con riguardo al modello monistico merita del resto di essere sottolineato che negli ordinamenti di origine dell’one-tier model l’elezione del board (e dei componenti, al suo interno, dell’audit committee) ha di regola cadenza annuale. Non si tratta di proporre trasposizioni, peraltro sperimentate di recente da Luxottica (il cui statuto rimette ora all’assemblea l’opzione in ordine alla durata, da uno a tre esercizi, del mandato), ma di chiedersi – come ha fatto di recente Marco Ventoruzzo – se tale differenza con gli ordinamenti anglo-americani non imponga di essere contemperata da un maggiore rigore nei requisiti di indipendenza e, soprattutto, nella rappresentanza delle minoranze quando il controllo viene riportato all’interno dell’organo di gestione.

In questa direzione si collocano gli statuti delle società bancarie e assicurative recentemente passate al sistema monistico, che hanno opportunamente esteso la rappresentanza delle minoranze oltre il minimo richiesto dalla legge e diviso in due sezioni le liste (una delle quali selettivamente riferita ai candidati al CCG), disciplinando la sostituzione dei suoi membri che siano cessati dalla carica in corso di mandato indirizzando il potere di cooptazione del consiglio verso il doveroso “ripescaggio” dei primi idonei non eletti dalla lista di appartenenza (così l’art. 22.20 e 22.22 dello Statuto UBI e l’art. 34.2 di Cattolica Assicurazioni).

In base a tali premesse meriterebbe un supplemento di riflessione il ricorso alla clausola simul stabunt, simul cadent a maggioranza (non infrequente: e v. infatti l’art. 22.25 dello Statuto UBI e l’art. 15.1 dello Statuto ISP), in quanto potrebbe prestarsi ad utilizzi abusivi in caso di disaccordo tra i componenti del comitato per il controllo sulla gestione e gli altri consiglieri, determinando la decadenza dei primi per dimissioni dei secondi. Rischi forse remoti in imprese di quella dimensione e visibilità, che si potrebbero comunque – e opportunamente – prevenire ricollegando la cessazione dell’intero consiglio alle dimissioni di un numero qualificato dei membri del comitato per il controllo, così da disattivarla (o, quanto meno, da escluderne l’efficacia per i componenti del CCG) qualora i consiglieri dimessisi rappresentino la maggioranza semplice dell’organo amministrativo, ma non anche la maggioranza dell’organo investito delle funzioni di controllo.

3. Lungo questa linea di ragionamento sipotrebbe andare oltre e introdurre un meccanismo di staggered board, che separi anche sul piano cronologico l’elezione dei consiglieri indipendenti destinati a comporre il comitato per il controllo sulla gestione rispetto agli altri consiglieri. In ogni caso, pare raccomandabile l’attribuzione allo stesso comitato del compito di procedere a una separata autovalutazione del CCG rispetto alla generale board evaluation ed eventualmente di elaborare la lista dedicata all’organo di controllo interno; profili, quest’ultimi, tanto più rilevanti dopo il definitivo “sdoganamento” della lista del consiglio che, se trasposta meccanicamente dal sistema tradizionale al monistico, accentuerebbe i rischi di auto-perpetuazione estendendoli anche alle funzioni di controllo.

Sempre in questa prospettiva si potrebbe valorizzare il ruolo del comitato per il controllo sulla gestione come peculiare nomination committee, investendolo dell’esame delle candidature e delle proposte di nomina degli organi di controllo delle società controllate (e forse anche dell’OdV 231 della stessa holding). È quest’ultimo uno soltanto dei temi che coinvolgono il generale ripensamento del riparto di ruoli e funzioni tra consiglio ed executives, nell’ambito del quale pare ormai giunto il momento di chiedersi se corrisponda a una regola virtuosa la prassi che lascia in mano al management della capogruppo – talora allo stesso CEO, ma più sovente al CFO o al general counsel – la scelta, a monte, sull’interlocking tra organi di controllo (favorito dalla Consob) e la selezione, a valle, dei candidati ritenuti più idonei a comporre l’OdV 231 della holding e gli organi di controllo delle società soggette a direzione e coordinamento.

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