“Non possiamo indovinare il tempo che sarà, possiamo almeno avete il diritto di immaginare come desideriamo che sia”
Eduardo Galeano
1. Questa riforma era necessaria? Una domanda per concludere un importante evento di approfondimento e divulgazione dei contenuti della riforma delle BCC, in un contesto che é avviato verso la costituzione di gruppi e, quindi, proietta l’intera categoria verso la grande dimensione dell’impresa bancaria, con l’ovvia conseguenza di sottoporre le banche di credito cooperativo alla supervisione diretta della BCE.
E’ una riforma possibile e da accettare nei contenuti fissati dal d.l. n. 91 del 2018, a dire del senatore Alberto Bagnai, il quale ha confermato l’opzione di tener fermo il provvedimento definito dal precedente Governo nel d.l. n. 18 del 2016, convertito nel corso della decorsa legislatura (dalla l. 49/2016), dovendo ritenersi sufficienti a segnare il cambiamento alcune modifiche che – per quanto valorizzate dal senatore – non incidono sull’impostazione originaria della legge.
Appare in dissenso con la conclusione del menzionato politico il prof. Valerio Onida, secondo cui l’attuale formulazione del testo normativo in esame, per un verso, non promuove la cooperazione, come invece sarebbe stato necessario in ossequio al disposto dell’art. 45 della nostra Costituzione, per altro limita fortemente la libertà di associazionismo assicurata dall’art. 18 Cost.
Sono questi i confini di una critica che, da tempo, la dottrina giuseconomica solleva con forza. Se, da un lato, è indubbio che la rigida applicazione di modelli matematici di vigilanza (del tipo «one size fits all») penalizza gli enti creditizi di piccole dimensioni, dall’altro appare possibile ipotizzare che una forzosa integrazione metta a dura prova la capacità (di operatori legati al territorio) di esercitare l’attività bancaria in concorrenza con imprese multinazionali di consolidata esperienza professionale nella competizione che connota il mercato finanziario.
Ugualmente critica nei confronti della legge n. 49 è la costruzione rappresentata dal prof. Francesco Capriglione, secondo cui l’esigenza di risolvere situazioni contingenti (legate alle difficoltà in cui versava un numero contenuto di BCC) è stata sufficiente a giustificare la costituzione di un innovativo modello di ‘gruppo cooperativo’ (fondato sulla eterogestione delle BCC da parte di una holding cui fa capo ogni potere decisionale dell’aggregato) per conseguire una soluzione solidaristica che, a somiglianza di quanto è dato riscontrare in numerosi paesi UE, avrebbe potuto essere realizzata in altre modalità.
Ed invero, negli interventi degli accademici che hanno analizzato la legge n. 49 si rinvengono numerose opzioni alternative alla costruzione di ‘giganti dai piedi d’argilla’: dalla segregazione degli attivi deteriorati in side funds (sfruttando le nuove opportunità concesse dalla AIFMD) alla preferenza per una dimensione regionale delle aggregazioni, alla valorizzazione dei meccanismi di valutazione del merito creditizio basati sulla comprensione del territorio di insediamento, sono questi solo alcuni dei rimedi applicabili in vista della finalità sopra indicata. Non v’è dubbio, infatti, che sino ad oggi gli studiosi non si sono limitati a criticare i fondamenti logici di una concentrazione realizzata con strumenti giuridici particolari (i.e. il gruppo cooperativo paritetico, la holding partecipata, il contratto di adesione/sottomissione…), ma hanno proposto soluzioni in grado di salvaguardare la stabilità finanziaria e di promuovere la cooperazione a carattere di mutualità.
Per converso, l’incontro del 13 settembre 2018, organizzato dall’Associazione Articolo 2, ha registrato la sostanziale conferma da parte della politica della pregressa tempistica di attuazione della riforma.
Da qui l’orientamento assunto dal dibattito verso la verifica della possibilità di proporre un referendum abrogativo (ritenuto ammissibile dal prof. Onida, per quanto legato nella sua esecuzione a tempi lunghi), nonché al positivo riscontro di numerosi dubbi sul piano della compatibilità della citata legge 49 con la nostra Costituzione; donde l’apertura prospettica a possibili ricorsi concernenti la legittimità costituzionale della legge in parola.
E in una logica che guarda a questo futuro appare utile soffermarsi sull’intervento del prof. Andrea Sacco Ginevri e, in particolare, sull’interpretazione da lui data ai «vincoli» di cui all’art. 2 della legge n. 49. Ci si riferisce ai limiti imposti al diritto di recesso dei soci delle BCC. Richiamando sul punto un recente orientamento giurisprudenziale relativo alla partecipazione nelle banche popolari, tale studioso ha infatti sottolineato che una limitazione al recesso può essere considerata compatibile con il nostro ordinamento solo se circoscritta al diritto di rimborso delle somme rifluite nei fondi propri della banca. Si versa, quindi, in presenza di un’ipotesi interpretativa che, in presenza di esigenze di stabilità finanziaria, ravvisa la prevalenza del diritto di exit, ma non anche di quello di refunding.
2. A ben riflettere, tale ultima ipotesi solleva il problema della determinazione della durata e della dimensione di una siffatta compressione dei diritti patrimoniali dei soci che intendono recedere. Viene, quindi, in considerazione il rilievo delle regole di adeguatezza patrimoniale di Basilea 3, che divengono misura del diritto al rimborso del socio (e, quindi, incidono sulla sfera patrimoniale e proprietaria di quest’ultimo). In tale contesto, occorre aver presente che l’integrità del capitale sociale è un obiettivo che si quantifica nel riferimento ai livelli di operatività della banca e, quindi, la misura minimale del capitale stesso può esser ridotta mediante una contrazione degli attivi. Da qui, la prospettiva che la limitazione all’esercizio del recesso, per quanto diffuso, non può trovare adeguata giustificazione nella volontà della banca di mantenere (o aumentare) la propria quota di mercato.
Conseguono ampi margini di incertezza sul futuro dei gruppi, chiamati a competere in un mercato in cui l’obbiettivo della crescita dimensionale, nel correlarsi al fine di lucro, orienta la governance delle imprese bancarie verso scelte che prescindono dalle motivazioni che, fin dalle loro origini, hanno orientato l’agere delle piccole casse rurali verso le esigenze del territorio e dei suoi abitanti.