Mentre l’economia italiana è ancora alla ricerca di interventi che consentano di superare la forte crisi che ha colpito vari settori del mondo bancario e finanziario; mentre sono in corso vari processi penali che vedono sul banco degli imputati amministratori, sindaci, revisori ed altri soggetti a vario titolo accusati di aver cagionato tale gravissima situazione di criticità e danno per tanti azionisti e risparmiatori; mentre stanno iniziando i lavori della Commissione bicamerale d’inchiesta con la quale anche il Parlamento italiano ha confermato l’esigenza, non solo di meglio valutare cause ed effetti di tutto ciò, ma anche e soprattutto di accertare «l’adeguatezza della disciplina legislativa e regolamentare nazionale ed europea sul sistema bancario e finanziario, nonché sul sistema di vigilanza, anche ai fini della prevenzione e gestione delle crisi bancarie» (così l’art. 3 della legge n. 107/2017 istitutiva della Commissione), nel dibattito generale viene rilanciata la proposta di introdurre nel codice penale italiano un apposito capo incentrato sulla previsione di nuovi reati commessi da intermediari finanziari e bancari.
La proposta proviene da voce autorevole ed esperta, qual’è quella del Dott. Francesco Greco, capo della Procura della Repubblica di Milano, e, formulata per la prima volta nel marzo 2016 (v. l’intervista “Controlli sulle banche, più chiarezza”, in Corriere della sera del 5 marzo 2016), è stata ripresa in giorni recenti (v. Il Sole 24 Ore del 7 ottobre 2017, “Codice penale bancario, parte il dibattito fra banchieri e politici”) in ragione di alcune specifiche motivazioni. Secondo il Dott. Greco, la necessità di intervenire nel settore bancario con la previsione di nuove fattispecie incriminatrici deriva soprattutto dal fatto che, «da quando sul finire degli anni ’80 la Cassazione escluse che l’attività bancaria fosse da considerare un pubblico servizio, non esistono norme efficaci per reprimere le condotte di mala gestio degli amministratori e dei funzionari bancari», e questo rappresenterebbe un limite ad una efficace tutela del risparmio, bene di «valenza costituzionale che … impone come conseguenza la previsione di sanzioni penali … di facile applicabilità e che abbiano una sufficiente portata deterrente».
Come confermato dall’interesse che ha subito suscitato, si tratta sicuramente di proposta che merita di essere valutata con grande attenzione, essendo comunque indiscusso che, sia per l’importanza dei valori in gioco, sia per la gravità dei mezzi con i quali si sollecita di intervenire, la ricerca di soluzioni adeguate non possa che essere vagliata con la massima ponderazione.
Proviamo allora a tratteggiare le linee di una rapida riflessione sugli aspetti più salienti della questione.
La scelta di collocare all’interno del codice penale la previsione di apposite fattispecie incriminatrici in materia bancaria si allinea certamente ad una soluzione di recuperata centralità del codice penale, che anche di recente ha incontrato molti consensi ed ha trovato riscontro positivo nella stessa prospettazione di un vero e proprio principio “di riserva di codice”, che fece comparsa sia nel progetto di riforma costituzionale della Commissione bicamerale (1997), sia nel successivo progetto di riforma del codice penale presentato nel 2007 dalla c.d. “Commissione Pisapia”. Si tratta di soluzione che viene da molti intesa come un diretto corollario del principio di legalità, utile anche nell’ottica della necessaria “frammentarietà” e della migliore conoscibilità delle norme penali, ma che ha incontrato riserve critiche proprio in relazione a quei settori dell’ordinamento nei quali, come nel caso della legislazione societaria, bancaria e finanziaria, la disciplina penale tende spesso a risultare talmente connessa e coordinata con quella extrapenale, da non poter essere ragionevolmente separata da quest’ultima.
In relazione a questo primo aspetto della proposta, il problema vero è allora quello di capire se la auspicata previsione di nuove figure di reato possa e/o meriti davvero di essere impostata con criteri di autonomia ed indipendenza rispetto alla parallela disciplina extrapenale della materia.
Ad una risposta positiva parrebbe orientata la soluzione auspicata dal Dott. Greco, che, non a caso rievocando la passata valenza delle norme contenute nel c.d. “statuto penale della pubblica amministrazione”, attribuisce proprio alla cessata applicabilità al settore bancario di queste disposizioni la perdita di «norme efficaci per reprimere le condotte di mala gestio degli amministratori e dei funzionari bancari», pur riconoscendo l’impossibilità di un ritorno al passato, che «contrasterebbe con la normativa europea oltre ad essere impraticabile per ragioni storiche e socio-politiche».
Che sia questo il modello di disposizioni incriminatrici idoneo a meglio prevenire e reprimere gli abusi che hanno portato all’attuale situazione di crisi del mondo bancario rimane tuttavia soluzione incerta. Per molte delle fattispecie previste in questo ambito, lo spazio di concreta applicabilità non appare radicalmente difforme da quello offerto dalle disposizioni oggi riferibili al settore delle imprese private: così, in particolare, la fattispecie di “peculato” presenta oggi uno spazio applicativo oggettivamente non dissimile da quello del reato di “appropriazione indebita”; ed un tendenziale riavvicinamento applicativo si è registrato anche con riferimento al fenomeno della “corruzione”, soprattutto a seguito della recente riforma del reato di “corruzione tra privati”. Di certo, in tutti questi casi la gravità delle sanzioni irrogabili è sicuramente diversa, ma le tecniche e gli spazi di tutela non presentano difformità radicali, né lacune significative. A ben vedere, l’unica fattispecie ancora priva di una diretta corrispondenza è solo quella in tema di “abuso di ufficio”, ma è proprio questa la fattispecie che potrebbe ingenerare la maggiori distorsioni applicative, se calata in un ambito nel quale le scelte amministrative e gestionali non sono rigidamente modulabili, né valutabili secondo i precipui schemi pubblicistici richiesti dall’art. 323 c.p.
Il quadro delle disposizioni penali già oggi applicabili al settore bancario e finanziario non appare peraltro inadeguato a colpire abusi e distorsioni. L’attuale assetto delle nome penali societarie e finanziarie (con precipuo riferimento alla nuova e più grave disciplina in tema di “false comunicazioni sociali”, al reato di “infedeltà patrimoniale”, a quello di “ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza”, alle vigenti disposizioni in tema di “abusi di mercato” ed alla già citata disciplina della “corruzione tra privati”), pur senza spingersi ai livelli sanzionatori previsti dalla spesso menzionata normativa statunitense del “Sarbanes-Oxley Act”(connotata peraltro da limiti massimi di pena che, quanto meno nell’ordinamento italiano, apparirebbero francamente sproporzionati rispetto alle sanzioni previste per altri gravissimi reati) offre uno spazio di tutela sufficientemente articolato ed idoneo a colpire le principali condotte illecite, che appaiono ravvisabili a monte delle più recenti situazioni di crisi del settore bancario. Di certo non mancano aspetti suscettibili di un parziale miglioramento: così, in particolare, sul fronte delle fattispecie poste a tutela dell’integrità del capitale sociale, ambito puntualmente segnalato anche dal Dott. Greco e che forse meriterebbe un più attento raccordo con l’attuale disciplina in tema di acquisto di azioni proprie.
Ma il problema di fondo è forse diverso. Proprio la recente esperienza delle principali vicende bancarie italiane ha posto in evidenza, che la tutela del risparmio non può essere affidata solo all’intervento di norme penali (in primis, le stesse fattispecie di “bancarotta”) che, nel rispetto del principio di offensività, vengano a trovare applicazione solo in epoca successiva alla già compiuta (e spesso non più recuperabile) lesione del bene. In questo contesto, l’importanza del bene protetto impone una tutela anticipata e di adeguata efficacia, ma che, nel contempo, risulti compatibile con la parallela tutela di altri principi costituzionali, quali quelli posti a presidio dell’attività economica esercitata secondo le regole del mondo privatistico. In quest’ottica non appare allora errato auspicare, che la segnalata esigenza di più efficace tutela possa e debba essere potenziata soprattutto in via preventiva, non già con l’intervento punitivo della magistratura penale che, come si verificherebbe se si dovesse ritornare all’applicabilità del reato di “abuso di ufficio”, veda così legittimato uno spazio aperto al sindacato delle scelte gestionali dell’impresa bancaria, ma intervenendo soprattutto sul potenziamento di controlli ispettivi atti a scongiurare ed impedire con necessario anticipo quelle condotte distorsive e di non corretta erogazione del credito (direttamente apprezzabili anche alla base dell’attuale gravità del fenomeno dei c.d. crediti deteriorati), che si sono rivelate quale causa primaria dell’odierna crisi del settore bancario e finanziario.