[*] Può capitare – non è frequentissimo, ma capita – che il testo di un contratto di mutuo, preparato per la stipula notarile, venga a prevedere l’applicazione diacronica di due distinti tassi compensativi (entrambi destinati, cioè, all’esecuzione fisiologica del rapporto che nasce dal mutuo): uno, scritto per un primo periodo dell’esecuzione del rapporto; l’altro, e più elevato, per il susseguente periodo restante. Rispetto a una fattispecie così strutturata può anche accadere che – nel raffronto con il tasso soglia d’usura (: punto massimo della crescita consentita dalla legge rispetto al TEGM tempo per tempo rilevato), quale sussistente al momento della stipula notarile del patto – il primo tasso risulti inferiore alla soglia usuraria, mentre il secondo la venga a superare (magari) per una misura abbondante.
Nei fatti, una simile situazione viene a creare imbarazzi e incertezza; e non solo al notaio, costretto nella rigida alternativa consegnatagli dall’art. 28 della legge professionale. In effetti, un contratto non può – in uno stesso tempo – essere usurario e anche non usurario. Pure, il patto ipotizzato contempla – nel momento in cui lo stesso viene fatto (con rifermento, quindi, al momento in cui gli interessi «sono promessi o comunque convenuti», che è l’espressione adottata l’art. 1 della legge n. 24/2001) – sia un tasso lecito (il primo), sia un tasso illecito (il secondo). Occorre scegliere: chiedersi di conseguenza quale, tra i due tassi, sia quello da assumere come rilevante.
La risposta, per la verità, segue prima di ogni altra cosa il buon senso. Se può apparire in sé scontata, la stessa vale tuttavia a mostrare un primo punto determinante per la corretta comprensione e ricostruzione dell’usura dei contratti di mutuo e dei contratti di credito in genere. Che la ragione di una considerazione fermata sul tasso più basso (e, nell’esempio, lecito) riposa – non può non risposare – sul fatto che questo, non l’altro e più elevato, è il tasso che viene a entrare nell’immediato in applicazione: non appena avvenuta, meglio, l’erogazione delle somme di cui al mutuo.
Il puro e semplice riferimento alla stipula del patto e al tempo in cui questa avviene, dunque, appare profilo non sufficiente a impostare e risolvere in modo conveniente i problemi dell’usura, interpretativi come ricostruttivi, non meno che inerenti alla stesura legislativa delle regole che il relativo fenomeno intendono arginare. Al di là delle parole della norma dell’art. 1 della legge n. 24/2001, in proposito non può non assumere (= deve assumere) rilevanza – in una con il patto di mutuo – anche l’esecuzione del rapporto di cui al mutuo medesimo.
Per sua propria natura, tuttavia, il discorso relativo al dato materiale di rilevanza usuraria non è destinato a fermarsi con l’individuazione di questo paletto; non dovrebbe terminare, cioè, con la fermata rilevanza del tasso di prima ed effettiva applicazione. Occorre che si spinga sino a riconoscere e collocare la rilevanza usuraria dei tassi – che sono stati convenuti e poi applicati – anche rispetto ai successivi periodi di svolgimento del relativo rapporto.
Per constatarlo, sempre sul filo della ragionevolezza e del buon senso, si può riprendere l’esempio appena fatto, del doppio (e diacronico) tasso. Se il criterio orientativo della scelta iniziale è stato quello del tasso applicato – tra i più tassi convenuti -, lo stesso criterio dovrebbe valere per tutto lo svolgimento del rapporto. A contare dovrebbe essere, in altri termini, il tasso che tempo per tempo trova applicazione: con riferimento – occorre completare la frase – al TEGM rilevato per il relativo periodo di tempo, poiché quello inerente al periodo iniziale, passato il trimestre, functus est munere suo.
A meno di non ritenere che in relazione al tema della rilevanza usuraria abbia peso solo il tasso di prima e immediata applicazione. Ma di tanto – a fronte del rilievo appena svolto (la strada della rilevanza del tasso applicato, una volta adottata, dovrebbe valere sempre) – si dovrebbe comunque dare adeguata e forte dimostrazione.
Certo, una risposta definitiva in proposito non può comunque non dipendere dalle scelte operate dalla legge scritta (risposta che, per il diritto italiano, comunque è di segno positivo[1]). In via preliminare, peraltro, non sembra inopportuno notare come la rilevanza usuraria del tasso tempo per tempo applicato a suo favore non abbia, di per sé, solo la pur evidente circostanza che – a pensare diversamente – diventa sin troppo facile e immediato aggirare la normativa di repressione del fenomeno usurario: sino, in verità, a rendere la stessa del tutto evanescente e inutile.
Come da tempo avvertito in letteratura, l’esecuzione del rapporto di mutuo (dei contratti di credito in genere) si snoda lungo una serie di frazioni temporali che – se in sommatoria formano il periodo di godimento del danaro ricevuto, secondo quanto determinato nel contratto – peraltro restano strutturalmente distinte tra loro. A livello scomposto, ciascuna di esse viene a ricevere una propria retribuzione; per la replica del godimento che tempo per tempo viene concesso, come pure per la correlativa replica dell’efficacia del patto che tale retribuzione governa.
Secondo quanto risulta rispondente, del resto, alla costruzione assunta dalla norma generale dell’art. 821, comma 3, c.c., per cui gli interessi – intesi propriamente come «corrispettivo del godimento del danaro», che sia concesso dal proprietario delle somme erogare a prestito – «maturano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto» (nella vigente legge sull’usura, il «giorno per giorno» viene trasformato in «trimestre per trimestre»).
Il contratto di mutuo stipulato nel tempo presente, di conseguenza, non viene a rimanere estraneo al mercato che andrà a seguire nel futuro, lungo le varie frazioni temporali in cui il relativo rapporto è destinato a durare. Di sicuro, lo stesso non va fuori mercato – non muore – col finire della sua «prima applicazione» o del suo primo TEGM; come pure, del resto, il TEGM di un trimestre viene a fungere da sponda di riferimento per quello del trimestre successivo (e così via via, in prosieguo di tempo). Il riferimento al solo tasso di prima applicazione – rectius, del primo trimestre – in definitiva oscura il fluido continuo che per contro connota il mercato del credito.
In questa sede resta ancora un’osservazione da svolgere. Non si può trascurare che tra tasso applicato il primo trimestre e tasso di applicazione successiva corra una differenza importante: nel primo caso, il creditore sa – se impresa, non può non sapere – che quel tasso supera il massimo in quel momento consentito all’autonomia privata; nella seconda circostanza, il creditore si affida invece al futuro. Ora, questa differenza certamente può giustificare e comportare (come in effetti avviene nel sistema italiano) una diversità di trattamento in punto di modalità e termini di repressione del fenomeno usurario. È peraltro da aggiungere che, per il caso dell’applicazione successiva al primo trimestre, il creditore non si trova comunque in balia degli eventi: ben potendo lo stesso in via autonoma rimediare al sopravvenuto superamento della soglia – anche (ma non solo) a mezzo di apposite clausole di salvaguardia e cimatura, in quanto tali idonee a fermare in modo automatico il tasso sul limine del consentito – e così riportare sulla linea della correttezza il proprio comportamento.
[*] Lo scritto riproduce una parte della conversazione tenuta il 15 febbraio 2017 a Roma, presso la Corte di Cassazione, nell’ambito dell’Incontro organizzato dalla Struttura territoriale di formazione decentrata di Roma Cassazione, dottori Giacalone e Perrino. Il testo integrale del lavoro comparirà su Questione Giustizia.
[1] Per l’argomentazione dell’assunto rimando al mio Al vaglio delle Sezioni Unite l’usura sopravvenuta, in IlCaso.it.