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Editoriali

Alla ricerca dei capitali (e dei banchieri) perduti

7 Febbraio 2017

Luca Erzegovesi

Professore ordinario di economia degli intermediari finanziari, Università di Trento

“Se questa azienda è forte lo deve anche alle fondazioni, investitori strategici, di lungo periodo, che danno in momenti difficili”. Così affermava Carlo Messina alla cerimonia per i dieci anni del gruppo Intesa Sanpaolo. Senza dubbio la storia di questo gruppo è un caso di evoluzione virtuosa del modello ideato con la Legge Amato del 1990. Purtroppo altre banche italiane, pure fortemente legate a fondazioni socie, hanno avuto esperienze meno felici, come tre dei quattro istituti “risolti” nel novembre 2015 (per non parlare del Monte dei Paschi di Siena).

In questi casi patologici le Fondazioni non hanno portato la vision di lungo periodo apprezzata da Messina. Al contrario, hanno assecondato politiche schiacciate su orizzonti brevi al fine di ottenere alti dividendi per sé e una facile disponibilità di credito per le constituency dei loro territori. Hanno così tollerato l’accumulo di rischi eccessivi, per poi cedere all’urto dello shock recessivo del 2012. Pressate a ricapitalizzarsi dal nuovo quadro di Vigilanza europeo, le banche partecipate non hanno trovato sostegno né dai soci storici, privi di mezzi adeguati, né da nuovi soggetti. Hanno pertanto avuto bisogno di interventi straordinari posti a carico di fondi pubblici o di sistema.

La direttiva BRRD ha introdotto un nuovo modello di gestione delle crisi bancarie basato sul bail-in degli investitori (per assorbire le perdite pregresse) e sul ricorso al mercato (per ricapitalizzare le banche risanate). Per “mercato” si intendono le linee di asset management ad alta tolleranza del rischio amministrate da private equity firm, hedge fund e fondi sovrani. L’apertura al private equity degli assetti proprietari delle banche in dissesto è cominciata negli USA agli albori della crisi finanziaria globale. Ad esempio, nel 2009 la FDIC ha ceduto IndyMac alla OneWest Bank affiancata da un gruppo di fondi chiusi, senza imporre l’obbligo di costituire un’onerosa bank holding company. Forse le Autorità, anche quelle europee, hanno dato spazio a questi investitori “opportunistici”, lontani dall’ideale del socio stabile, per somministrare la cura da cavallo di cui necessitava un sistema bancario dissestato e inefficiente. Più prosaicamente, dopo la messa al bando nel 2013 dei bail-out con denaro pubblico, è stata una scelta obbligata per mancanza di alternative.

Ad ogni modo, questo modello non ha funzionato nel caso delle quattro banche e del Monte dei Paschi. Le prime sono in procinto di essere rilevate da gruppi bancari domestici (alla vecchia maniera) a un prezzo simbolico, dopo una pulizia costata più di quattro miliardi a carico del sistema. Il secondo, come è noto, sarà ricapitalizzato dallo Stato dopo un tentativo infruttuoso di aumento di capitale. Il Fondo Atlante, intervenuto nelle due banche popolari venete, può essere letto come un modello ibrido che assume la forma del private equity, ma ripropone nella sostanza la logica tradizionale di sostegno interbancario per finalità di sistema.

Diversa e migliore fortuna hanno avuto i due maggiori gruppi italiani, dove pure conta ancora – seppure con pesi diversi – la presenza delle Fondazioni azioniste. Soci storici e grandi investitori internazionali hanno formato coalizioni capaci di rispondere a richieste di capitali importanti a servizio di piani di business credibili. Lo dimostra il favore con cui i mercati stanno accogliendo il maxi-aumento di capitale da 13 miliardi lanciato da Unicredit.

Che conclusioni ne possiamo trarre? Posti di fronte a un sistema bancario con vaste aree di sofferenza, i mercati sono riluttanti a impegnarvi dei capitali se non per scommettere sui probabili vincitori che sopravvivranno alla sua riorganizzazione. Soltanto i gruppi di importanza sistemica, pensano gli investitori, saranno capaci di concepire e realizzare la transizione verso nuovi modelli di business, anche perché (si presume) continueranno a beneficiare di una rete di protezione pubblica più o meno palese. Si spera che i big four, o quanti ne resteranno, tornino a fare margini generosi grazie alla concorrenza indebolita e al ritorno dei tassi di interesse a livelli normali. A quel punto si potranno stabilizzare gli assetti proprietari, con l’uscita dei capitali smart e l’affermazione di nuovi soci strategici gravitanti su pochi gruppi bancari globali. Un percorso che potrebbe riaprire la partita sul controllo dei “campioni nazionali” del credito, o viceversa riportare o mantenere alcune delle banche maggiori sotto il controllo pubblico.

La grande partita del Risiko bancario è ricominciata, e non solo in Italia. Lo scenario sopra disegnato non è un destino ineluttabile, ma semplicemente la strategia di gioco di alcuni attori, per quanto importanti. Sono possibili scenari alternativi, e modi alternativi di fare banca. La risposta del resto del sistema, e penso soprattutto al credito cooperativo, deve però essere all’altezza della sfida epocale in corso.

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