1. Il dado è tratto! La riforma delle BCC ha concluso il suo iter parlamentare: nei giorni scorsi è stata approvata la legge di conversione del d.l. n. 18 del 2016. Incurante degli appelli da più parti sollevati, il legislatore italiano ha lasciato pressoché integra l’originaria stesura del decreto: sono rimasti inalterati i limiti patrimoniali richiesti per la costituzione della holding del ‘gruppo bancario cooperativo’, nonché per il possibile way out (reso, anzi, più difficile dall’imposizione di termini stringenti per la sua praticabilità). La lettura del testo licenziato dal Parlamento non evidenzia modifiche normative volte a facilitare la costituzione di «più gruppi», unico rimedio esperibile in vista della conservazione della realtà cooperativa, come numerosi studiosi della materia hanno avuto modo di sottolineare ed io stesso ho ribadito in più occasioni (cfr. da ultimo l’Audizione parlamentare del 1° marzo u.s.).
A ben considerare, nonostante sul piano giuridico formale la nuova legge sembra aperta ad una visione pluralistica nella definizione del ‘gruppo’ (e tale è la lettura che ne dà la stampa specializzata, v. Ilsole24Ore del 7 aprile u.s.), in concreto si rinviene, alla base di essa, un impianto normativo che privilegia una soluzione di segno opposto. Viene attuata, infatti, una sorta di «blindatura» del modello in passato indicato da Federcasse, non solo tenendo fermi gli elevati livelli patrimoniali di cui testé si è detto, bensì disciplinando il way out in modalità tali da configurare una «via senza ritorno» per le BCC intenzionate a fruire di tale possibilità di fuga.
A monte di ogni valutazione va fatto presente che il legislatore appare pienamente consapevole della complessità di un’aggregazione tra più BCC, disposte a dar vita ad un ‘raccordo partecipativo’ finalizzato alla costituzione di un gruppo il cui capitale – in base a quanto stabilito nella riforma – deve essere da esse «detenuto in misura maggioritaria». La presunta ‘apertura al pluralismo dei gruppi’ tiene conto, quindi, delle difficoltà riscontrabili, all’interno della categoria, nella definizione di accordi da raggiungere all’unanimità: è di intuitiva percezione che il legislatore, nella sua logica dispositiva, ha fatto affidamento su tale non agevole convergenza di consensi, avvalendosene in vista dell’obiettivo che ha inteso perseguire.
Confermano tale conclusione le disposizioni che disciplinano il conferimento, da parte delle BCC intenzionate ad utilizzare il way out, «delle aziende bancarie ad una … società per azioni, anche di nuova costituzione, autorizzata all’esercizio della attività bancaria». Sul punto rileva la circostanza che detti enti conferenti sono obbligati a modificare «il proprio oggetto sociale per escludere l’esercizio dell’attività bancaria», fermo altresì il divieto del «diritto di recesso previsto dall’articolo 2437, primo comma, lettera a), del codice civile». E’ evidente come tale prescrizione impedisca alla banche di credito cooperativo di rilevanti dimensioni di vantare lo status giuridico (richiesto dalla normativa) per poter diventare detentrici di una quota partecipativa nelle società bancarie da esse scorporate (nucleo di riferimento per successive aggregazioni e, dunque, enti potenzialmente destinati ad assumere il ruolo di ‘capogruppo’). In altri termini, la legge in esame ha voluto escludere che il way out possa essere collegato alla costituzione di un ‘gruppo cooperativo’, evitando in tal modo la possibile creazione di più strutture di tal genere (ovviamente di contenute dimensioni) in grado di alterare il disegno normativo a base della riforma e le finalità ad esso sottese.
2. Non v’è dubbio che il regolatore ha condiviso – ed accolto senza riserve -l’ipotesi costruttiva del ‘gruppo unico’, patrocinata da Federcasse e validata dalla Banca d’Italia, come già ho sottolineato in passato commentando l’approvazione da parte della Camera del d.l. n. 18 (cfr. La Camera approva la riforma delle BCC. Verso il tramonto della cooperazione di credito? in questa Rivista). Non è mio intento tornare su argomentazioni già esposte in merito all’esigenza di dar vita ad una «pluralità di gruppi» al fine di tutelare gli scopi istituzionali della cooperazione di credito (e, dunque, l’importante funzione svolta dalle BCC nel supportare lo sviluppo delle economie locali). Del pari, ritengo superfluo rappresentare nuovamente i rischi connessi alla sottoposizione delle BCC ad input strategici che, essendo decisi in sedi lontane dai loro destinatari, sostanziano una sorta di eterogestione che, in nome “di un interesse di gruppo”, potrebbe disattendere la specificità interventistica propria della categoria bancaria in parola.
Per converso, va qui sottolineata la scarsa attenzione dedicata dal nostro legislatore alle implicazioni negative dell’assemblaggio in un unico organismo della quasi totalità delle banche di credito cooperativo. Viene dato per scontato il valido posizionamento nel mercato finanziario di un megagruppo che, per dimensioni e struttura, dovrebbe essere in grado di estendere la sua azione a tutto il territorio nazionale, confrontandosi con enti creditizi di consolidata esperienza manageriale ed operativa; si trascura, peraltro, di considerare che, a breve, le BCC saranno esposte alle intemperie delle verifiche stressanti effettuate dalla BCE sulle cd. banche significative, stress test cui inevitabilmente sarà sottoposto il ‘gruppo unico cooperativo’ (in ragione del suo inquadramento tra queste ultime). Con tutta probabilità, a fondamento dell’ opzione normativa espressa dalla riforma v’è la proposizione di una «sfida», che – tra l’altro – non tiene in alcun conto l’esigenza di conservare integra l’essenza valoriale fino ad oggi a base della cooperazione di credito; essenza che, in un avvenire non lontano, potrebbe facilmente vacillare essendo ora affidata ad un «colosso dai piedi d’argilla».
Analogamente non cessa di stupire la validazione data dalla Banca d’Italia all’ipotesi costruttiva del ‘gruppo unico’ (e sintomatiche, al riguardo, devono ritenersi le riflessioni di un autorevole esponente di detta istituzione formulate in una pluralità d’occasioni e, da ultimo, in un incontro presso la Fondazione Italianieuropei, svoltosi a Roma il 21 marzo 2016). Evidentemente, siamo in presenza di un malinteso senso di appartenenza all’UBE, che induce a ravvisare come necessaria l’aggregazione tra banche di piccole dimensioni nella prospettiva di traslarne la vigilanza alle competenti autorità europee. Si dà spazio, per tal via, ad un’interpretazione dei regolamenti (n. l024/2013/UE e n. 468/2014/BCE) che delineano il Single Supervisory Mechanism (SSM) in chiave dimissoria del ruolo ascrivibile all’autorità di vigilanza domestica; consegue il sostegno dato dal nostro Organo di controllo alle iniziative che, sul piano delle concretezze, trasferiscono alla BCE la supervisione su enti creditizi i quali, in base alla richiamata normativa europea, dovrebbero essere invece al medesimo sottoposti. Ciò spiega la ragione per cui – a fronte dell’accertamento di una situazione di grande difficoltà riguardante «circa 50» BCC che rappresentano «il 16 per cento dell’attivo della categoria» (secondo le indicazioni fornite da Barbagallo nel citato intervento presso la Fondazione Italianieuropei) – non v’è stata esitazione alcuna da parte della Banca d’Italia nel dare pieno appoggio alla tesi del ‘gruppo unico’, considerata per certi versi liberatoria dal carico di responsabilità connesso all’onere di una gravosa gestione di un rilevante numero di banche in crisi.
Trova, dunque, conferma la considerazione da noi formulata in passato (v. Considerazioni a margine di un provvedimento della Banca d’Italia sull’«entrata in funzione del Single Supervisory Mechanism», in Apertacontrada novembre 2014) secondo cui l’intento di evitare il governo di procedure di amministrazione straordinaria di banche di piccole/medie dimensioni orienta l’autorità verso una politica interventistica volta a ricondurre queste ultime nell’ambito di un ‘gruppo creditizio’ a rilevanza sistemica; politica che – come tenemmo a sottolineare -, nel penalizzare le esigenze dello sviluppo zonale, si iscrive in una logica di deresponsabilizzazione (quanto meno formale) dell’esercizio della supervisione bancaria.
3. Quanto sopra premesso, non si può piangere sul latte versato… le BCC che sono in condizione di fruire del way out (e quelle che intendano congiungersi a queste con apposita istanza all’autorità) hanno, a mio avviso, la possibilità di non restare arenate nelle secche del ‘gruppo unico’. Esse dovranno accettare la sfida di un cambiamento che – a ben considerare – potrà mutatis mutandis consentire di tener ferma la loro originaria mission di enti sostenitori delle economie locali. La proposizione di tempi molto stretti (non previsti nell’originario testo del d.l. n.18) per la presentazione della menzionata istanza di conferimento dell’azienda bancaria di certo non giova!
Un ausilio alle BCC che non intendono aggregarsi al ‘gruppo unico’, preferendo la soluzione pluralistica in precedenza richiamata, potrebbe venire da un intervento del Ministro dell’economia e delle finanze, cui la riforma assegna la facoltà di «stabilirecon proprio decreto, sentita la Banca d’Italia, una soglia di partecipazione delle banche di credito cooperativo al capitale della società capogruppo diversa da quella indicata» in via generale dalla normativa in esame. E’ evidente come un intervento volto a contenere in più ristretti limiti detta soglia, nel venir incontro alle esigenze di molti enti della categoria, darebbe certamente un segnale di apertura interpretativa nell’applicazione della nuova disciplina speciale… recando, al contempo, un messaggio rispettoso di un passato che non è opportuno cancellare.