Con la risposta a istanza di interpello n. 839 del 21 dicembre 2021, l’Agenzia delle Entrate è tornata ad esprimersi in materia di applicabilità del regime di esenzione da ritenuta di cui all’art. 26, comma 5, del D.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600 (il “D.P.R. n. 600/73”) sui finanziamenti a medio-lungo termine concessi da banche del Regno Unito in seguito all’uscita di quest’ultimo dall’Unione europea nell’ambito della Brexit.
L’Agenzia delle Entrate ha, inoltre, fornito importanti indicazioni in merito alla nozione di “investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), del d.lgs. 1° aprile 1996, n. 239, soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti” richiamata al fine di delineare l’ambito soggettivo della disciplina di esenzione.
Come noto, l’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/73 prevede che, ferme restando le disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, sono esenti dalla ritenuta del 26% prevista in via ordinaria dal comma 5 dell’art. 26 del D.P.R. n. 600/73 (o dalla ritenuta applicata con minore aliquota ai sensi delle Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni) gli interessi sui finanziamenti a medio-lungo termine che siano erogati a imprese italiane da: (i) enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea; (ii) enti individuati all’art. 2, paragrafo 5, numeri da 4) a 23) della Direttiva 2013/36/UE; (iii) imprese di assicurazione costituite e autorizzate ai sensi di normative emanate da Stati membri dell’Unione europea; (iv) investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’art. 6, comma 1, lettera b) del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239 (il “D.Lgs. n. 239/96”) soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti.
Tale disposizione è stata introdotta nell’art. 26 del D.P.R. n. 600/73 come eccezione all’applicazione della ritenuta prevista dal comma 5 dello stesso articolo con l’obiettivo di favorire l’accesso al credito da parte delle imprese.
L’Agenzia delle Entrate afferma che il tenore letterale della norma non pone alcun dubbio interpretativo, riferendosi espressamente agli enti creditizi stabiliti in Stati membri dell’Unione europea. Con la conseguenza che l’esenzione non è applicabile agli enti creditizi del Regno Unito in quanto enti stabiliti in uno Stato che, a decorrere dal 1° febbraio 2020, non fa più parte dell’Unione europea.
Con riferimento alla questione se gli enti creditizi stabiliti nel Regno Unito possano essere compresi nella categoria degli “investitori istituzionali” costituiti in Stati e territori che consentono un adeguato scambio di informazioni (“Stati White List”)[1] – tra i quali rientra il Regno Unito – soggetti a forme di vigilanza, l’Agenzia delle Entrate ritiene che, ricostruendo le modifiche che hanno interessato l’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/73 e seguendo i canoni ermeneutici dell’interpretazione della norma di cui all’art. 12 delle preleggi, la risposta debba essere negativa, non potendosi ampliare l’ambito soggettivo di applicazione dell’esenzione a motivo del fatto che le norme di agevolative in materia tributaria devono ritenersi di stretta interpretazione per effetto della loro natura derogatoria di carattere speciale.
La fattispecie e i quesiti sottoposti
Le questioni sottoposte riguardano, in primo luogo, la possibilità di applicare la disciplina di esenzione da ritenuta di cui all’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/73 nei confronti delle banche stabilite nel Regno Unito in considerazione del fatto che, a decorrere dal 1° febbraio 2020, il Regno Unito non fa più parte dell’Unione europea. Gli effetti di tale uscita del Regno Unito sono stati disciplinati dall’Accordo di Recesso tra Regno Unito ed Unione europea (l’”Accordo di Recesso”). In base all’art. 127 dell’Accordo di Recesso, il Regno Unito è stato considerato alla stregua di uno Stato Membro ai fini dell’applicazione del diritto dell’Unione europea sino al termine del periodo transitorio concluso in data 31 dicembre 2020.
Il quesito è sottoposto da un istituto di credito stabilito nel Regno Unito (l’”Istante”), soggetto a vigilanza da parte della Banca d’Inghilterra ed ivi autorizzato a fornire servizi e prodotti bancari ai propri clienti.
L’Istante ha, in passato, svolto la propria attività in Italia in base al passaporto bancario (c.d. “Italian EEA financial Services Passport”) che ha cessato di essere valido il 31 dicembre 2020 e ha ottenuto dalla Banca d’Italia l’autorizzazione ad erogare, in libera prestazione di servizi e senza stabilimento sul territorio italiano, finanziamenti a soggetti italiani anche successivamente al termine del periodo transitorio.
L’Istante ed altri istituti di credito hanno sottoscritto, nel corso del periodo transitorio, un contratto di finanziamento per l’apertura di una linea di credito revolving a medio-lungo termine con una società fiscalmente residente in Italia. In relazione a tale contratto di finanziamento, la società italiana ha già sottoposto una apposita istanza d’interpello relativa all’applicabilità dell’esclusione da ritenuta ai sensi dell’art. 26, comma 5bis del D.P.R. n. 600/73 agli interessi ed altri proventi corrisposti all’Istante durante il periodo transitorio e ha ottenuto dall’Agenzia delle Entrate conferma della fruibilità di tale regime nel già menzionato periodo.
In relazione al contesto così delineato, l’Istante ravvisa obiettive condizioni di incertezza in merito al regime fiscale applicabile agli interessi e altri proventi derivanti dai finanziamenti a medio-lungo termine erogati ad imprese fiscalmente residenti nel territorio italiano e chiede:
- in primo luogo, di confermare applicabilità del regime di esclusione da ritenuta di cui all’art. 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/73 su interessi ed altri proventi (richiamando al riguardo anche le commissioni bancarie) derivanti da finanziamenti a medio lungo termine erogati ad imprese residenti in Italia (il “Primo Quesito”); e
- ove la risposta al Primo Quesito sia negativa, di confermare che l’esclusione da ritenuta di cui all’art. 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/73 sia applicabile all’Istante in quanto lo stesso rientrerebbe nella definizione di “investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), del d.lgs. 1° aprile 1996, n. 239, soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti” istituiti in Stati White List – quale il Regno Unito – e che, ai sensi della disciplina in oggetto, sono ammessi a fruire del regime di esclusione (il “Secondo Quesito”).
La soluzione interpretativa prospettata dal contribuente
L’Istante ricorda che il Regno Unito e l’Unione europea hanno concluso, in data 24 dicembre 2020, l’Accordo sugli Scambi Commerciali e Cooperazione tra Regno Unito ed Unione europea (c.d. Trade and Cooperation Agreement – il “TCA”) avente lo scopo di agevolare le relazioni commerciali e i rapporti tra il Regno Unito e l’Unione europea a partire dalla fine del periodo transitorio previsto dall’Accordo di Recesso.
L’Istante ritiene che, in virtù delle disposizioni del TCA, la ritenuta di cui all’art. 26, comma 5, del D.P.R. n. 600/73 non sia applicabile al caso di specie in virtù dell’esclusione di cui al comma 5-bis del medesimo articolo in quanto l’Istante non dovrebbe subire un trattamento fiscale – in termini di ritenute applicabili sugli interessi ed altri proventi corrisposti da soggetti italiani – che sia meno favorevole di quello applicabile agli enti creditizi nazionali e/o stabiliti in Stati membri dell’Unione europea o che, comunque, sia di ostacolo alle libertà garantite dal TCA, in termini di prestazione di servizi e libera circolazione dei capitali.
Al riguardo, l’Istante osserva che l’Agenzia delle Entrate ha avuto modo di confermare, con il Principio di diritto del 9 aprile 2021, l’estensione, per tutto il periodo transitorio, dell’esclusione da ritenuta ai sensi del citato art. 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/73, per gli interessi e altri proventi assimilati derivanti da un contratto di finanziamento a medio e lungo termine erogato a favore di un’impresa italiana da una banca stabilita nel Regno Unito. In particolare, il Principio di diritto richiamato afferma che l’art. 127 dell’Accordo fa salva, durante il periodo transitorio, l’applicazione al Regno Unito del c.d. “diritto dell’Unione” che include i “principi generali” quali libertà fondamentali sancite dal Trattato di Funzionamento dell’Unione europea (il “TFUE”). Tra queste ultime, rientrano la libertà di stabilimento (ex art. 49), la libera prestazione di servizi (art. 56), la libera circolazione di capitali (art. 63) e il principio di non discriminazione (art. 18).
L’Istante ritiene che tali ultimi principi – su tutti quello della libera circolazione di capitali – siano stati trasposti nel testo del TCA nonostante la loro portata debba essere inquadrata in un diverso contesto normativo. Alla luce di tale assunto, l’Istante ritiene che l’eventuale diniego ad un istituto di credito del Regno Unito, autorizzato ad operare in Italia, dell’esclusione da ritenuta di cui all’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/73 costituirebbe una violazione del TCA e non sarebbe giustificabile ai sensi dell’art. EXC.2 (attualmente indicato come articolo 413 – “Fiscalità” del TCA).
In subordine, qualora la risposta al Primo Quesito sia negativa, l’Istante ritiene non applicabile la ritenuta di cui all’articolo 26, comma 5, del D.P.R. n. 600/73, in quanto un ente creditizio stabilito nel Regno Unito rientrerebbe nella nozione di “investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 1° aprile 1996, n. 239, soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti”.
Al riguardo, l’Istante evidenzia che la modifica apportata dall’art. 6, comma 1, del Decreto Legge 24 gennaio 2015, n. 3 che ha condotto all’attuale formulazione del comma 5-bis dell’art. 26 del D.P.R. n. 600/73 in sostituzione del precedente riferimento agli “organismi di investimento collettivo del risparmio che non fanno ricorso alla leva finanziaria, ancorché privi di soggettività tributaria” confermerebbe l’intenzione del Legislatore di ampliare la platea dei soggetti che possono beneficiare dell’esenzione da ritenuta sino a ricomprendervi non solo le banche UE ma anche le extra UE autorizzate e stabilite in Stati White List.
Risposta dell’Agenzia delle Entrate
L’Agenzia delle Entrate ricorda che, in data 30 gennaio 2020, l’Unione europea ha ratificato l’Accordo di Recesso con il Regno Unito che, dalla mezzanotte del 31 gennaio 2020, è diventato un Paese terzo rispetto all’Unione europea.
Ciò ha segnato l’inizio di un periodo transitorio che si è protratto fino al 31 dicembre 2020 nel quale ha continuato a trovare applicazione nei confronti del Regno Unito il diritto unionale, incluse le libertà fondamentali sancite dal TFUE.
Il TCA è stato concluso con lo scopo di agevolare le relazioni commerciali e i rapporti tra il Regno Unito e l’Unione europea a decorrere dalla fine del periodo transitorio previsto dall’Accordo di Recesso. Detto Accordo è entrato in vigore il 1° gennaio 2021, in via provvisoria, in pendenza di approvazione da parte del Parlamento dell’Unione europea e prevedeva che l’applicazione provvisoria cessasse a fine febbraio, a meno che le Parti non concordassero una data successiva. Su richiesta dell’Unione europea, il 23 febbraio il Consiglio di partenariato UE- Regno Unito ha deciso di prorogare l’applicazione provvisoria al 30 aprile 2021, al fine di concedere un periodo di tempo sufficiente per completare la revisione giuridico-linguistica dell’Accordo UE-UK in tutte le 24 lingue. L’autenticazione delle 24 versioni linguistiche è stata completata il 21 aprile. A seguito della richiesta di approvazione del Consiglio del 26 febbraio 2021, il Parlamento europeo ha approvato la decisione relativa alla conclusione dell’Accordo in esame il 29 aprile 2021. Ne consegue che, allo stato attuale i rapporti tra Unione europea e Regno Unito sono regolati dal TCA.
Nel testo del TCA, sono definite “le basi di ampie relazioni tra le parti, in uno spazio di prosperità e buon vicinato caratterizzato da relazioni strette e pacifiche basate sulla cooperazione, nel rispetto dell’autonomia e della sovranità delle parti” (Parte Prima, Titolo I, Articolo 1 – Finalità). Nello specifico, sono disciplinati: (a) un accordo di libero scambio, che prevede una collaborazione in materia economica, sociale, ambientale e nel settore della pesca; (b) una stretta collaborazione per quanto riguarda la sicurezza dei cittadini; (c) un assetto generale di governance.
L’Agenzia osserva che, nonostante l’Accordo promuova un forte partenariato tra Unione europea e Regno Unito, in nessun caso tale Paese può essere considerato al pari di uno Stato membro, non facendo ormai più parte né del mercato unico né dell’Unione doganale e non essendo più coinvolto negli accordi internazionali dell’Unione. Al riguardo, ritiene che le disposizioni del TCA richiamate dall’Istante siano volte a definire i principi e le regole di cooperazione tra Regno Unito e Unione europea, a seguito della Brexit con riferimento a determinati ambiti, ma che al tempo stesso non possano condurre ad una equiparazione del Regno Unito ad uno Stato membro.
In merito alla portata dell’art. 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/73, l’Agenzia delle Entrate osserva che la nozione di “enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea” beneficiari dell’esclusione dall’applicazione della ritenuta non pone alcun dubbio interpretativo, in quanto essa si riferirebbe espressamente agli entri creditizi stabiliti in Stati membri dell’Unione europea tra cui non rientra più il Regno Unito.
Con riguardo alla nozione di “investitori istituzionali”, l’Agenzia osserva che il comma 5-bis richiamava originariamente gli “organismi di investimento collettivo del risparmio che non fanno ricorso alla leva finanziaria, ancorché privi di soggettività tributaria” ed è stato poi modificato[2] mediante inserimento del riferimento alla categoria degli “investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), del d.lgs. 1° aprile 1996, n. 239, soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti”.
Rispetto alla formulazione originaria, l’ambito di applicazione soggettivo della disposizione è stato ampliato per comprendervi anche taluni investitori non residenti in Paesi UE o aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo senza modificare la prima parte della disposizione per effetto della quale la ritenuta non si applica, tra l’altro, agli “enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea”.
L’Agenzia delle Entrate ritiene che non sia possibile comprendere gli istituti di credito extra UE nell’ambito soggettivo di applicazione della norma. Seguendo i canoni ermeneutici dell’interpretazione delle leggi di cui all’art. 12 delle preleggi al Codice Civile, non è possibile ampliare, in sede interpretativa, la portata della norma in ragione della circostanza che le norme di esenzione in materia tributaria, per effetto della loro natura derogatoria di carattere speciale, sono di stretta interpretazione. Afferma al riguardo che, qualora il legislatore avesse voluto estendere l’esenzione in argomento alle banche extra UE lo avrebbe fatto espressamente, anche con riferimento specifico a tale categoria di enti, negli interventi modificativi che hanno interessato la norma con riferimento ad altre categorie di soggetti.
L’Agenzia delle Entrate osserva, inoltre, che l’applicazione della ritenuta di cui all’articolo 26, comma 5, del D.P.R. n. 600/73 ad un ente creditizio del Regno Unito non violi l’art. EXC.2 – Fiscalità (attualmente Art. 413 “Fiscalità” del TCA) a norma del quale “fatto salvo l’obbligo di non applicare le misure fiscali in una forma che costituisca una discriminazione arbitraria o ingiustificata tra paesi in presenza di condizioni analoghe, o una restrizione dissimulata degli scambi e degli investimenti, nulla nei titoli da I a VII, nel titolo VIII, capo 4, e nei titoli IX, X e XI della presente rubrica, nel presente titolo o nella rubrica sesta dovrà interpretarsi in modo da impedire a una parte di adottare, mantenere in vigore o applicare misure che: (a) sono intese a garantire l’imposizione o la riscossione equa o efficace delle imposte dirette; (b) operano una distinzione tra contribuenti che non si trovano nella stessa situazione, in particolare per quanto riguarda il luogo di residenza o il luogo in cui è investito il loro capitale”.
Considerato che “le misure finalizzate a garantire l’imposizione o la riscossione equa o efficace delle imposte dirette comprendono le misure adottate da una parte secondo il proprio sistema fiscale, le quali: (i) si applicano ai prestatori di servizi non residenti in considerazione del fatto che l’imposta dovuta dai soggetti non residenti viene determinata con riferimento a elementi imponibili aventi la loro fonte o situati nel territorio della parte; o (ii) si applicano ai soggetti non residenti, al fine di garantire l’imposizione o la riscossione delle imposte nel territorio della parte»[3], si deve ritenere che la norma ammetta tutte quelle disposizioni in materia tributaria (tra le quali rientrano a titolo esemplificativo anche le ritenute alla fonte) che operano una distinzione tra residenti e non-residenti, o comunque tra contribuenti che non si trovino in situazioni equiparabili .
Inoltre, ritiene che l’applicazione della disposizione di cui sopra ad un ente creditizio del Regno Unito non costituisca una “arbitraria od ingiustificabile discriminazione”, né costituisca una “restrizione dissimulata” al commercio e agli investimenti, posto che equivale ad accordare lo stesso trattamento fiscale riconosciuto ad oggi a tutte gli altri enti creditizi stabiliti in Paesi extra UE.
Tenuto conto delle considerazioni esposte, l’Agenzia delle Entrate ritiene, in conclusione, che l’esclusione da ritenuta di cui all’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/73 su interessi ed altri proventi (ivi incluse anche le commissioni bancarie) derivanti da finanziamenti a medio lungo termine erogati ad imprese residenti in Italia non sia applicabile a un ente creditizio del Regno Unito, in quanto non stabilito in uno Stato membro dell’Unione europea.
Commento
L’Agenzia delle Entrate afferma che il tenore letterale dell’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/73 non pone alcun dubbio interpretativo rispetto al Primo Quesito. La norma si riferisce espressamente agli enti creditizi stabiliti in Stati membri dell’Unione europea tra i quali, a seguito della Brexit, non rientra più il Regno Unito. Con la conseguenza che l’esenzione non è applicabile agli enti creditizi del Regno Unito in quanto enti non stabiliti in uno Stato membro dell’Unione europea.
Questa interpretazione appare allineata a quella già fornita dalla stessa Agenzia delle Entrate nel sopra richiamato Principio di Diritto n. 6 del 9 aprile 2021 relativo all’applicabilità del regime di esenzione nel periodo transitorio previsto dal 1° febbraio al 31 dicembre 2020 in base all’Accordo di Recesso. Nell’occasione, l’Agenzia aveva confermato l’applicazione dell’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/73 nei confronti degli enti creditizi del Regno Unito per tutto il periodo transitorio, in quanto, in tale periodo, il Regno Unito doveva essere considerato alla stregua di un Paese ancora ricompreso nel territorio dell’Unione europea. Per altro verso, la conferma così fornita sembrava già indicare la non spettanza dell’esenzione una volta terminato il periodo transitorio e, dunque, a partire dal 1° gennaio 2021. In merito alla portata del TCA, l’Agenzia delle Entrate sottolinea che, nonostante tale accordo sia teso a promuovere il partenariato tra Unione europea e Regno Unito, le disposizioni del TCA non dovrebbero condurre ad una equiparazione del Regno Unito ad uno Stato membro. Negare l’applicazione del regime di esenzione a un ente creditizio del Regno Unito non costituisce dunque una “arbitraria od ingiustificabile discriminazione”, né una “restrizione dissimulata” al commercio e agli investimenti, considerato che equivale ad accordare lo stesso trattamento fiscale riconosciuto ad oggi a tutte gli altri enti creditizi stabiliti in Paesi extra UE.
Appare più significativo il chiarimento fornito in relazione al Secondo Quesito in merito alla possibilità di ricondurre gli enti creditizi extra UE alla categoria degli investitori istituzionali costituiti in Stati White List e soggetti a forme di vigilanza nei paesi nei quali sono istituti, in quanto chiarisce la posizione dell’Agenzia delle Entrate in merito a un punto che è stato in passato oggetto di interpretazioni da parte della dottrina e risolto in via di prassi da parte degli operatori.
Vale la pena ricordare che, secondo i chiarimenti nel tempo forniti[4], la nozione di “investitori istituzionali” di cui all’art. 6 del D.Lgs. n. 239/96 comprende “gli enti che, indipendentemente dalla loro veste giuridica e dal trattamento tributario cui sono assoggettati i relativi redditi nel Paese in cui sono costituiti, hanno come oggetto della propria attività l’effettuazione e la gestione di investimenti per conto proprio o di terzi” e, a titolo di esempio “le società di assicurazione, i fondi comuni di investimento, le Sicav, i fondi pensione, le società di gestione del risparmio (…) in quanto assoggettati a forme di vigilanza nei Paesi esteri nei quali sono istituiti” nonché quei soggetti “che pur non essendo soggetti a forme di vigilanza sono in possesso di una specifica competenza ed esperienza in operazioni in strumenti finanziari, espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante dell’ente”.
Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate muove dalla constatazione che l’art. 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/73 è stato nel tempo oggetto di modifiche che ne hanno ampliato l’ambito di applicazione, ma che non hanno riguardato la parte della norma riferita agli “enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea”, il cui dato letterale non pone, di per sé stesso, dubbi interpretativi. Ciò posto, l’Agenzia richiama i canoni ermeneutici di interpretazione della norma sanciti dall’art. 12 delle preleggi del Codice Civile in base al quale “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse), e dalla intenzione del legislatore”. Tale disposizione – accompagnata dal successivo art. 14 in base al quale “le leggi (…) che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati” – ispira un ormai costante orientamento giurisprudenziale per cui le norme agevolative in materia tributaria, quale quella di specie, sono norme di carattere eccezionale che esigono un’esegesi ispirata al “criterio di stretta interpretazione”, con la conseguenza che i benefici in esse contemplati non possono essere oggetto di interpretazione che ne estenda l’ambito di applicazione rigorosamente identificato in base alla definizione normativa. Alla luce di tali considerazioni, l’Agenzia delle Entrate conclude affermando che non è possibile ampliare in via interpretativa l’ambito di applicazione della norma alle banche extra UE.
Nel negare l’applicabilità del regime di esenzione, la risposta fornita dall’Agenzia delle Entrate non riferisce solo a interessi e altri proventi ma richiama – invero in modo molto sintetico – anche le commissioni bancarie, posto che l’applicabilità alle stesse del regime di cui all’art. 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/73 sembra formare oggetto del quesito sottoposto dall’Istante.
Tuttavia, dalla risposta non appare possibile evincere la natura delle commissioni cui si fa riferimento nel caso di specie e l’Agenzia non elabora alcuna considerazione in merito alla questione connessa all’effettiva riconducibilità (e a quali condizioni) delle commissioni bancarie alla categoria dei redditi di capitale di cui all’art. 44, comma 1, lettera h) del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“TUIR”) così come non si esprime in merito all’applicabilità in via generale della ritenuta di cui all’art. 26, comma 5 del D.P.R. n. 600/73 e a quale sia il regime applicabile in ipotesi di soddisfacimento dei requisiti soggettivi previsti dall’art. 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/73.
In conclusione, l’interpretazione fornita in occasione dalla risposta avuto riguardo all’ambito soggettivo di applicazione della norma in esame – per quanto condivisibile – pone in evidenza una situazione di non linearità dell’attuale quadro normativo nel quale gli istituti di credito stabiliti in uno Stato extra UE (come ormai è il Regno Unito) non sono ammessi al regime di esenzione mentre lo sarebbero, ad esempio, gli organismi di investimento collettivo istituiti nel medesimo Stato extra UE che soddisfino le condizioni per rientrare nella definizione di “investitori istituzionali” di cui all’art. 6 del D.Lgs. n. 239/96. Vale peraltro la pena osservare che la linea interpretativa formulata dall’Agenzia delle Entrate condurrebbe a ritenere altresì escluse dal regime di esenzione le imprese di assicurazione extra UE, posto che la fattispecie delle imprese di assicurazione è espressamente contemplata dalla norma con esclusivo riferimento a quelle stabilite nella UE.
Appare difficile identificare una chiara scelta di politica fiscale sottostante a tale differenziazione, che sembrerebbe dunque da attribuire a un mancato coordinamento delle modifiche normative che si sono susseguite nel tempo. Anche per questo motivo e avendo a mente che la finalità della norma è quella di agevolare l’accesso al credito da parte delle imprese italiane, rimarrebbe auspicabile un intervento normativo che estenda il regime di esenzione anche agli enti creditizi (e alle imprese di assicurazione) extra UE stabiliti in Stati White List.
[1] Gli “Stati White List” sono ad oggi individuati dal decreto ministeriale del 4 settembre 1996 e successive modificazioni.
[2] Ad opera dell’art. 6, comma 1, del Decreto Legge del 24 gennaio 2015, n. 3.
[3] Cfr. nota 1 al punto a) relativo al concetto di “imposizione o la riscossione equa o efficace delle imposte dirette” riportata nel TCA.
[4] In particolare, Circolare n. 23/E del 1° marzo 2002 e Circolare n. 20/E del 27 marzo 2003.