Le azioni promosse dalla curatela per la dichiarazione d’inefficacia di atti di disposizione patrimoniale, compiuti dal fallito, non mirano ad ottenere il sovvertimento, sul piano della validità, degli effetti traslativi degli atti compiuti e, dunque, il ripristino in capo alla massa dei creditori esattamente del medesimo titolo già disposto dal fallito; essendo bensì finalizzate alla reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori, mediante la assoggettabilità ad esecuzione del medesimo bene che ne sia stato oggetto.
Con il successo della domanda, dunque, il fallito non ridiventa titolare in senso dominicale dell’identico bene oggetto dell’atto dichiarato inefficace, bensì accade che sia l’organo concorsuale a poterne disporre esecutivamente o, se ciò sia impossibile, a conseguire il ripristino dell’equilibrio patrimoniale alterato dall’atto, in una misura equivalente alla consistenza che esso aveva nei termini di valore depauperativi accertati.
La sentenza che accoglie la domanda revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica ex post una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti – nei confronti della massa fallimentare - atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto.
La situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento (né nascente all’atto della dichiarazione dello stesso) e indipendentemente dall’esercizio dell’azione giudiziale, ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all’esercizio dell’azione revocatoria.
L’azione revocatoria, in ognuna delle sue versioni e comunque anche nel contesto concorsuale, va diretta contro i soggetti che hanno partecipato al depauperamento patrimoniale del debitore, provocandolo; essendo ad essi riconducibile la predetta responsabilità di reintegrazione.
Ove, tuttavia, l’atto dispositivo dichiarato inefficace abbia determinato la sostituzione soggettiva in un rapporto plurilaterale, la sorte del contraente ceduto resta tendenzialmente estranea al rapporto tra cedente e cessionario. Il consenso prestato dal contraente ceduto, infatti, limitandosi a rendere possibile (ai sensi dell’art.1406 c.c.) la citata variazione, non trasforma ex se tale parte in coautrice dell’atto di cessione, né dunque essa, al di fuori di una specifica prova compartecipativa, è destinataria di un’azione che sia volta a riconfigurare quali depauperativi del patrimonio del cedente gli atti da questo compiuti verso il primo cessionario e da questi verso il secondo.
Allorché l’assoggettabilità all’esecuzione diviene impossibile perchè il bene è stato alienato a terzi, la reintegrazione per equivalente pecuniario rappresenta il naturale sostitutivo, e la domanda di condanna al pagamento del “tantundem” deve ritenersi implicitamente ricompresa nell’azione revocatoria, spettando al giudice disporre, in funzione delle risultanze processuali, la restituzione del bene, ovvero, qualora quest’ultimo non sia più nella disponibilità del convenuto, pronunciare la condanna al pagamento dell’equivalente monetario.
Esercitate con successo le azioni revocatorie degli atti di cessione di una posizione contrattuale già facente capo al fallito, nessuna facoltà ex art. 72 I.f. appare esercitabile dal curatore in relazione alla posizione contrattuale originaria, non ripristinabile in sé, nemmeno potendo dirsi che essa fosse pendente al momento della dichiarazione di fallimento; né, comunque, essa può essere oggettivamente ripristinata, proprio perché già esaurita.