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Pubblico, privato e collettivo: la transizione ecologica tra società e comunità

26 Aprile 2022

Tamara Favaro, Ricercatore di Diritto dell’Economia, Università di Pisa

Di cosa si parla in questo articolo

L’autrice inquadra le nuove “Comunità Energetiche locali”, introdotte su impulso del legislatore europeo dai d.lgs. 199 e 210 del 2021. Viene in particolare esaminata la loro natura giuridica, e i risultati interpretativi vengono confrontati con quelli relativi alle cc.dd. cooperative elettriche, già presenti nel nostro ordinamento, evidenziando le differenze tra tali categorie di enti. Nel quadro di una tendenza volta a superare la tradizionale dicotomia tra pubblico e privato, per accogliere forme innovative di partenariato nell’interesse comune a promuovere efficacemente la transizione ecologica, le Comunità Energetiche vengono valorizzate come strumento di potenziale attuazione dei principi contenuti nell’art. 43 della Costituzione.

The author frames the “Local Energy Communities (Comunità energetiche locali)” introduced by European legislator on the basis of Legislative Decrees no. 199 and 210 of 2021. In particular their juridical nature is examined and the interpretative results are confronted with those related to the so called electrical cooperatives (cooperative elettriche), already present in internal legal system, with a specific focus on the differences between these categories of entities. In the framework aimed to overcome the traditional dichotomy between private and public, in order to embrace innovative forms of partnership in the common interest for promoting an efficient ecological transition, Local Energy Communities are enhanced as a tool of a potential implementation of principles set out in article 43 of Constitution.


Sommario[*]: 1. A chi spetta governare la transizione? – 2. Pubblico, privato e collettivo. – 3. (Nuove) Comunità energetiche locali versus cooperative elettriche. – 4. Transizione ecologica e innovazione sociale: l’art. 43 Cost. tra «inattuazione» e recuperata centralità.

 

1. A chi spetta governare la transizione?

La letteratura sociologica[1] ha ormai da tempo evidenziato le necessità di riconcepire le problematiche ambientali in un’ottica sistemica: non a caso, si fa riferimento al concetto di “ecosistema”, che da oggetto e modalità di organizzazione dell’ambiente diventa anzitutto suo parametro di analisi.

Nella prospettiva del giurista, questo vuol dire innanzitutto esaminare le molteplici modalità di intervento nell’economia e sull’ambiente, riconducendole ad un punto di equilibrio; ma vuol dire, ancor prima, immaginare il diritto stesso come un organismo vivente.

Tale considerazione assume particolare rilevanza nel contesto della c.d. “transizione ecologica”, laddove l’attuale struttura di potere accentrato sembra opporsi alla realizzazione di quelle trasformazioni in chiave ambientale che richiedono invece un «decentramento del potere a favore di piccole comunità in armonia con le leggi dell’ecologia»[2]. Detto altrimenti, le tradizionali forme di intervento pubblico non paiono di per sé sufficienti a traguardare i fini sottesi alla transizione ecologica che, per sua intrinseca natura, impone la valorizzazione della dimensione locale.

Necessario contraltare ad una possibile degenerazione dirigistica della programmazione[3] appare allora la valorizzazione dell’autonomia delle Comunità locali, ivi ricomprendendovi i movimenti spontanei della società civile.

La transizione ecologica impone infatti una «creazione collettiva di valore pubblico»[4], ove «per “pubblico” non si intende che il governo sia l’unico attore a creare valore, ma piuttosto che il valore venga creato collettivamente da diversi attori e per la Comunità nel suo insieme, nell’interesse pubblico»[5].

Si afferma pertanto la necessità di rinvenire nuovi modelli flessibili, atti a ravvicinare le forme tipiche dell’intervento statale alle più recenti manifestazioni di innovazione sociale.

È in questa prospettiva che si giustifica il presente lavoro, che ha per oggetto l’analisi dei rapporti tra Società e Comunità a partire dalle c.d. “Comunità energetiche locali” recentemente introdotte nel nostro ordinamento[6] su recepimento di due direttive europee[7]. L’obiettivo principale di queste Comunità è infatti quello di fornire benefici ambientali, economici o sociali alle aree locali in cui esse operano, piuttosto che profitti finanziari. Si tratta di Comunità che, tra le proprie finalità, oltre all’ovvio scopo di produrre e condividere energia hanno quelle di contrastare i fenomeni di povertà energetica[8], potendo promuovere anche interventi integrati di domotica e di efficienza energetica, nonché offrire servizi di ricarica dei veicoli elettrici o servizi ancillari e di flessibilità ai propri membri[9]. È allora evidente che i fini perseguiti sono in parte coincidenti con quelli che tradizionalmente connotano l’attività posta in essere dall’amministrazione locale.

Nell’investigare il ruolo nell’economia esercitato da queste Comunità, il vero interrogativo che pertanto si pone è se il rapporto che le lega alle tradizionali forme di intervento pubblico possa effettivamente originare un’innovativa «creazione collettiva di valore pubblico», costituente una sorta di «accoppiamento strutturale»[10], o se invece esso rischi di celare una dicotomica ed insanabile contrapposizione tra Comunità – intesa come organismo vivente, connotato da relazioni tra individui fondate su vincoli di spontanea reciprocità e un baricentro identitario, dovuto ad esempio ai rapporti di vicinato – e Società, percepita quale aggregato e prodotto meccanico che si basa su rapporti di scambio contrattuale spinti unicamente da dinamiche di convenienza[11].

Se è infatti chiaro il fine, politico, che il legislatore intende perseguire incentivando queste nuove forme di Comunità, assai meno evidente è invece il mezzo, giuridico, idoneo a realizzarlo. Le Comunità locali, seppur emblema della decentralizzazione, appaiono quasi imposte dal diritto europeo e poi recepite in una normativa nazionale che perlopiù si limita a replicare le indicazioni già contenute nelle direttive.

Ci sembra allora che le Comunità energetiche locali costituiscano un esempio recente e concreto di «diritto eventuale»[12]: vale a dire un diritto che «disegna il mondo che vorrebbe»[13], ma che sostanzialmente si fonde con la politica, e che potrebbe anche non esserci[14]: mira a incentivare la trasformazione, ma poi non indica i mezzi per conseguirla concretamente.

L’obiettivo del presente contributo è quindi quello di tracciare una possibile via all’incentivazione delle Comunità energetiche locali partendo dall’analisi di alcune forme di interrelazione tra Società e Comunità previste dal nostro ordinamento, al fine di far convergere i due sistemi nell’ottica della transizione ecologica.

2. Pubblico, privato e collettivo

 Il rapporto sussistente tra Società e Comunità evidenzia sempre più la tendenza al superamento della «netta e inappagante alternativa ricostruttiva tra pubblico e privato»[15] attraverso la ricerca di forme di innovazione sociale, fondate sul principio di sussidiarietà orizzontale.

Tra i vari esempi di interrelazione tra Comunità e Società riconosciute nel nostro ordinamento possono richiamarsi le c.d. «cooperative di comunità», recentemente introdotte in molte legislazioni regionali[16] al fine di realizzare nuove sinergie tra cittadini, imprese, associazioni e istituzioni. Create «per rendere un servizio pieno all’intera comunità»[17] esse sono infatti una chiara manifestazione di tale tendenza, che si concretizza malgrado la perdurante assenza di una cornice legislativa nazionale volta a definirne l’inquadramento giuridico[18]. A tal proposito si evidenzia che in alcuni casi alle c.d. «cooperative di comunità» viene riservata una regolamentazione specifica, mentre in altri ci si limita a far rinvio alla più generica disciplina della cooperazione in generale o tuttalpiù della cooperazione sociale[19].

In particolare, pur perseguendo fini di sviluppo socio-economico e territoriale in parte sovrapponibili a quelli perseguiti dall’ente amministrativo, in queste cooperative appare evidente la forte componente relazionale e identitaria poc’anzi richiamata. Basti ricordare a tal proposito la legge regionale pugliese[20], che riconosce come cooperative di comunità le imprese che svolgono la propria attività «valorizzando le competenze della popolazione residente, delle tradizioni culturali e delle risorse territoriali, perseguendo lo scopo di soddisfare i bisogni della comunità locale, migliorandone la qualità, sociale ed economica, della vita attraverso lo sviluppo di attività economiche eco-sostenibili finalizzate alla produzione di beni e servizi, al recupero di beni ambientali e monumentali, alla creazione di offerta di lavoro e alla generazione, in loco, di capitale “sociale”»[21].

Con riferimento ai rapporti che vengono a crearsi tra cooperative di comunità ed enti locali che insistono in un determinato territorio, vale la pena evidenziare come alcune delle normative regionali prevedano espressamente la possibile partecipazione degli enti locali alle cooperative di comunità in qualità di soci[22], mentre altre si limitano a creare occasioni di raccordo tra l’azione delle due entità[23] e altre ancora impediscono esplicitamente all’ente locale di prendere parte alla compagine sociale[24]. Inoltre, alcune di queste leggi regionali riconoscono expressis verbis ad associazioni e fondazioni senza scopo di lucro[25], nonché ad organizzazioni del Terzo Settore radicate nel territorio[26], la possibilità di essere socie nelle imprese cooperative di comunità.

Proprio la sostanziale omologazione di queste forme di cooperazione agli Enti di Terzo Settore (ETS)[27], avvenuta nel silenzio della normativa nazionale, ha portato recentemente la Corte Costituzionale[28] a pronunciarsi sulla natura dei rapporti tra ETS e amministrazioni pubbliche, individuata nell’attuazione del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale di cui all’ultimo comma dell’art. 118 Cost. Questo principio, sebbene ovviamente non si esaurisca nel Terzo Settore, vede la propria espressa attuazione nell’art. 55 del d.lgs. n. 117/2017, che instaura tra i soggetti pubblici e gli ETS un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato: come riconosciuto dalla Corte, la «co-programmazione», la «co-progettazione» e il «partenariato» si configurano come fasi di un procedimento complesso che risulta espressione di un rapporto di tipo collaborativo tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su di un rapporto sinallagmatico. Infatti, il modello così configurato, anziché basarsi sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dal soggetto pubblico a quella privato, si impernia sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione – in comune – di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva: questi sono volti alla coesione e protezione sociale secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico, posto che gli ETS costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà.

Nel caso di specie, dunque, il rapporto che si viene a creare tra Comunità e Società (guidata dalla pubblica amministrazione) è di indubbia complementarietà: pubblico e privato sociale si fondono insieme per promuovere la crescita e lo sviluppo socio-economico del territorio su cui insistono, attraverso l’offerta di beni e servizi di interesse generale[29].

A tal proposito, un’ulteriore, recente intervento normativo che pare rilevante ai nostri fini è dato dalla l. n. 168/2017[30], in materia di domini collettivi[31]. In essa infatti il legislatore ha previsto in via ordinaria un regime di amministrazione attraverso associazioni di diritto privato con autonomia statutaria, cui si collega, in via residuale e sussidiaria, l’affidamento ai Comuni con amministrazione separata: in particolare, essi hanno l’obbligo di destinare tutti i proventi della gestione al miglioramento dei beni collettivi amministrati[32]. Pertanto, a differenza del caso precedente, qui si ravvisa un rapporto di “sussidiarietà integrativa” tra l’ente locale e il modello associativo.

Significativo appare anche il richiamo agli articoli 2, 9, 42, secondo comma, e 43 della Costituzione operato dalla legge[33]: mentre l’ancoraggio all’art. 9 esprime la funzionalizzazione degli enti collettivi alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, il rimando all’art. 2 vale a fondarne la natura di enti solidaristici per definizione[34]. D’altro canto, se è vero che attraverso il rinvio all’art. 42, comma 2, della Costituzione il legislatore riconosce la natura privatistica del “demanio civico”, il richiamo all’art. 43 pare invece funzionale ad affermare «un più coraggioso e stabile riconoscimento dei pubblici poteri (con una pluralità di strumenti) al ruolo e alle potenzialità del “privato comunitario” nella gestione dei servizi pubblici»[35].

Da ultimo, ma non certo per rilevanza, devono essere richiamate le recenti leggi regionali volte a promuovere le Comunità energetiche[36], emanate precedentemente all’approvazione dei decreti legislativi già richiamati supra[37].

Tali interventi normativi appaiono assai significativi, in quanto manifestano il tentativo di un recupero, da parte delle Regioni, della propria funzione normativa in materia di energia, che – sebbene riconosciuta dalla Carta Costituzionale – appare di fatto depotenziata dai limiti imposti dalla competenza nazionale ed europea[38].

Per quanto qui rileva, queste leggi regionali presentano importanti elementi di comunanza, che consistono anzitutto nella natura giuridica attribuita alle suddette Comunità: si tratta infatti di «enti senza finalità di lucro, cui possono partecipare soggetti pubblici e privati[39], costituiti al fine di promuovere il processo di decarbonizzazione del sistema economico e territoriale, e di agevolare la produzione, lo scambio e il consumo di energie generate principalmente da fonti rinnovabili, nonché forme di miglioramento dell’efficienza energetica e di riduzione dei consumi energetici»[40].

In effetti, sotto un profilo funzionale le Comunità energetiche operano a favore di cittadini insediati in un territorio ben definito, tendenzialmente (se non esclusivamente) coincidente con quello comunale. Inoltre, la base sociale e alcuni dei fini conseguiti – si pensi alla valorizzazione della partecipazione dei cittadini e, più in generale, della dimensione locale nella produzione e del consumo di energia rinnovabile, o al contrasto della povertà energetica – anche in questo caso si sovrappongono alle finalità istituzionali degli enti pubblici locali che esercitano la sovranità su quel territorio, per cui appare necessario un coordinamento con il governo amministrativo locale, soprattutto nei Comuni di minori dimensioni. Del resto, proprio nelle piccole realtà il connubio tra enti locali e Comunità energetiche sembra idoneo a produrre i più significativi risultati in termini di sviluppo socio-economico e ambientale.

Tali Comunità rappresentano dunque un innovativo modello di collaborazione tra pubblico-privato, che è volto alla ricerca di soluzioni eco-compatibili e alla costruzione di sistemi sostenibili di produzione energetica a livello locale attraverso «l’impiego equilibrato dei beni comuni e collettivi del territorio di riferimento»[41]. Esse paiono pertanto costituire un nuovo luogo di amministrazione condivisa, in cui i cittadini collaborano con la pubblica amministrazione locale nel perseguimento dello sviluppo socio-economico ed ambientale del territorio. In effetti, partecipando all’interno della Comunità, il «cliente attivo»[42] non solo prende parte al mercato energetico, ma esercita la propria sovranità di cittadino, «co-producendo»[43], insieme all’ente municipale, nuovi servizi pubblici, a beneficio dell’intera collettività.

 3. (Nuove) comunità energetiche locali versus cooperative elettriche

 Alcuni recenti interventi europei e nazionali in materia di energia[44] hanno introdotto nel nostro ordinamento due diverse tipologie di Comunità energetica. In particolare, mentre la direttiva (UE) 2018/2001, volta alla promozione delle energie rinnovabili, ha previsto la costituzione delle c.d. Comunità di Energia Rinnovabile (CER)[45], la direttiva (UE) 2019/944 (atta a fissare norme comuni per il mercato interno) fa invece riferimento alle c.d. Comunità Energetiche dei Cittadini (CEC)[46].

Rinviando ad altra sede l’analisi delle differenze che sussistono tra i due tipi di Comunità[47] nonché tra queste e l’istituto dell’autoconsumo collettivo[48], ci preme qui focalizzare l’attenzione unicamente sui profili di principale innovazione che differenziano le neo-introdotte Comunità rispetto alle cooperative elettriche già disciplinate dal nostro ordinamento.

Ciò posto, i tre aspetti che qui si intende mettere in rilievo concernono rispettivamente: il tipo di interesse perseguito; la possibilità, prevista dal d.lgs. n. 210/2021[49] e non imposta dalla direttiva (UE) 2019/944, di conferire alla c.d. CEC anche la gestione, in sub-concessione, della rete elettrica; infine, la natura giuridica che può essere attribuita alle nuove Comunità, pure con riferimento al ruolo rivestito dall’ente locale.

Per condurre la suddetta comparazione, giova anzitutto ricordare che, ad oggi, il c.d. “TICOOP”[50] disciplina le cooperative energetiche differenziando quelle storiche[51] – che possono avere una propria rete distributiva – dalle c.d. “nuove cooperative”, vale a dire quelle costituite dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 79/1999[52], cui è invece preclusa la possibilità di disporre della rete di distribuzione, essendo la stessa soggetta ad un regime di riserva. In entrambi i casi, la natura giuridica prevista in via legislativa è quella della cooperativa[53].

Si noti in particolare che le cooperative storiche sono state costituite anteriormente alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e sono dunque ben precedenti rispetto alla tipologia di Comunità di cui qui si discute. Fine primario della loro istituzione era quello di offrire il servizio elettrico nei casi in cui, a causa di vicende specifiche quali ad esempio la peculiare collocazione geografica, tale servizio non veniva offerto né dall’ente pubblico né da imprese lucrative. Queste cooperative, tradizionalmente concentrate nell’arco alpino, operavano tendenzialmente in regime di monopolio, prevedendo la concessione di benefici ai propri soci. Proprio con riferimento a quest’ultimo aspetto, attenta dottrina[54] ha recentemente evidenziato come siffatti modelli comunitari perseguissero in realtà un interesse meramente collettivo e non propriamente pubblico o generale, come viene invece sovente definito: si tratterebbe infatti di un interesse meramente esponenziale dei bisogni dei soci del consorzio/cooperativa, non rappresentando necessariamente i bisogni della collettività dei cittadini che insistono su un determinato territorio.

Se ciò è vero, possiamo già evidenziare una prima differenziazione rispetto alle Comunità locali di nuova istituzione: come anticipato, la nuova tipologia di Comunità mira infatti a «fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai suoi azionisti o membri o alle aree locali in cui opera[55], piuttosto che profitti finanziari». Detto altrimenti, non si tratta qui di cooperative create per supplire alla mancanza del servizio di distribuzione dell’elettricità nelle aree remote e rurali; le nuove Comunità rappresentano invece un nuovo punto di incontro tra società civile ed ente amministrativo locale, in un’ottica non solo complementare – anziché sostitutiva – rispetto agli operatori tradizionali, ma anche al fine di fornire servizi innovativi. In effetti, come anticipato supra, § 1, oltre alle attività tradizionali di generazione, eventuale distribuzione e fornitura dell’energia, si prevede espressamente la possibilità che tali Comunità offrano ulteriori servizi ancillari, quali ad esempio i servizi di ricarica per veicoli elettrici. Inoltre, tra i loro obiettivi vi è quello di aumentare l’efficienza energetica delle famiglie e di contribuire a combattere la povertà energetica mediante la riduzione dei consumi e delle tariffe di fornitura[56]. È allora evidente che le nuove Comunità mirano anzitutto a realizzare un fine di interesse generale, in contrapposizione a quell’interesse meramente collettivo spesso conseguito dalle più tradizionali cooperative energetiche: ciò si evince anche dalla possibile presenza del soggetto pubblico tra i membri della Comunità.

Quanto al secondo profilo, si è già evidenziato che il TICOOP preclude la possibilità alle c.d. nuove cooperative di disporre della rete di distribuzione, essendo la stessa soggetta ad un regime di riserva. Ci sembra allora che l’art. 7, comma 14, del d.lgs. 199/2021 introduca una significativa innovazione[57] nel prevedere la possibile «gestione della rete di distribuzione da parte della comunità, previa autorizzazione del Ministero della transizione ecologica» mediante la stipula di una «convenzione di sub-concessione tra l’impresa di distribuzione concessionaria della rete impiegata dalla comunità e la comunità stessa». Si prevede inoltre che «le reti di distribuzione gestite dalle comunità energetiche dei cittadini sono considerate reti pubbliche di distribuzione con obbligo di connessione dei terzi, indipendentemente dalla proprietà della rete». Vengono così imposti degli obblighi di servizio pubblico in capo alla Comunità che, «in qualità di sub-concessionario della rete elettrica utilizzata, è tenuta all’osservanza degli stessi obblighi e delle stesse condizioni previsti dalla legge per il soggetto concessionario».

Ci sembra che tale innovazione sia dotata di particolare rilevanza anche in una prospettiva de iure condendo, considerato che, tra pochi anni, prenderà avvio una stagione di nuove gare per le concessioni ex art. 9, comma 2, del d.lgs. n. 79/99[58]. Ci si chiede allora se, in quell’occasione di riallocazione delle concessioni, non sia forse il caso di prevedere un esplicito favor normativo alla gestione delle reti di distribuzione da parte delle Comunità energetiche locali, considerate le finalità di interesse generale perseguite dalle stesse senza fini di lucro.

Proprio quest’ultima caratteristica – ovvero, l’assenza della finalità di lucro, che connota per definizione le nuove Comunità – ci permette di richiamare il terzo profilo della nostra indagine, vale a dire quello attinente alla natura giuridica che possono assumere le nuove Comunità.

Si è già anticipato che la forma associativa attualmente concessa dal c.d. TICOOP è esclusivamente quella della cooperativa. Al contrario, l’art. 14, comma 6, lett. d) del d.lgs. 210/2021 prevede espressamente che la «comunità energetica  dei cittadini è un soggetto di diritto privato che può assumere qualsiasi forma giuridica, fermo restando che il suo atto costitutivo deve individuare quale scopo principale il perseguimento, a favore dei membri o  dei  soci  o  del territorio in cui opera, di benefici ambientali, economici o  sociali a livello di comunità, non potendo costituire i profitti  finanziari lo scopo principale della comunità». Al contempo, l’art. 31, comma 1, lett. b) del d.lgs. 199/2021 prevede che la comunità di energia rinnovabile «è un soggetto di diritto autonomo e l’esercizio dei poteri di controllo fa capo esclusivamente a persone fisiche, PMI, enti territoriali e autorità locali, ivi incluse le amministrazioni comunali, gli enti di ricerca e formazione, gli enti religiosi, quelli del terzo settore e di protezione ambientale nonché le amministrazioni locali (…)».

Come chiarito dall’ARERA in una recente delibera[59], le nuove Comunità possono allora assumere anche la forma giuridica dell’Ente del Terzo Settore: essa pare anzi la natura giuridica preferibile, alla luce delle considerazioni espresse supra, § 2. Ci sembra tuttavia opportuno evidenziare che, sebbene nella norma da ultimo richiamata sia espressamente prevista la possibilità che il controllo sia assunto dalle autorità locali, comprese le amministrazioni comunali, qualora la Comunità avesse la natura giuridica di impresa sociale si dovrebbe applicare l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 112/2017, ai sensi del quale «le amministrazioni pubbliche (…) non possono esercitare attività di direzione e coordinamento o detenere, in qualsiasi forma, anche analoga, congiunta o indiretta, il controllo di un’impresa sociale ai sensi dell’art. 2359 c.c.».

4. Transizione ecologica e innovazione sociale: l’art. 43 cost. tra «inattuazione» e recuperata centralità

 La precedente trattazione ha permesso di evidenziare come la tradizionale contrapposizione non solo tra “pubblico” e “privato” (v. supra, § 2) ma anche tra “Comunità” e “Società” (v. supra, § 1) debba oggi tener conto del nuovo spazio riconosciuto alla collettività, nonché della possibilità di dar vita a forme innovative di partenariato pubblico-privato-società civile.

In questo contesto, ci sembra che lo stesso art. 43 Cost., recentemente tacciato di trovarsi al crocevia tra «inattuazione» e «inattualità»[60], possa finalmente ricevere una nuova, effettiva valorizzazione, e ciò per almeno tre ordini di ragioni.

In primo luogo, ci pare possibile immaginare una terza opzione rispetto alla tradizionale gestione pubblica o privata di un servizio pubblico, e in particolare di quello elettrico. Abbiamo infatti evidenziato che la forma giuridica delle nuove Comunità destinata ad assumere natura privilegiata è quella dell’Ente del Terzo Settore, che si contrappone al tradizionale modello della cooperativa elettrica. Al contempo, pur trattandosi di un soggetto di diritto privato, è espressamente contemplata la possibilità che di esso faccia parte l’autorità locale, compresa l’amministrazione comunale – sebbene, come abbiamo evidenziato, a causa del necessario coordinamento da operarsi con la disciplina generale riteniamo sia da escludere che l’ente locale possa assumerne il controllo.

Questo ci porta a concludere che la nuova Comunità non solo rientri a pieno titolo nel concetto di «comunità di lavoratori o di utenti» espressamente richiamato dall’art. 43 Cost., ma anzi ne incarni la più profonda essenza.

A tal proposito, vale la pena ricordare come sulla nozione di «comunità di lavoratori o di utenti» in dottrina notoriamente si contrappongano due diverse tesi, entrambe autorevolmente sostenute: a chi ritiene fuori dubbio che esse «sono, e non possono non essere, se non le cooperative»[61], si contrappone chi nega fermamente che nel concetto di Comunità di cui all’art. 43 possa rientrare la società cooperativa[62], proprio perché, per il loro carattere di società private, esse appaiono inabilitate al perseguimento di quei «fini di utilità generale» che le comunità di lavoratori o di utenti sono chiamate a svolgere ai sensi dell’art. 43 Cost[63]. Pertanto, «le comunità devono essere enti, sia pur privati, di interesse pubblico, in quanto l’attuazione delle finalità dell’art. 3 sembra dover implicare, nella disciplina di tale ente privato di interesse pubblico, elementi caratteristici che lo avvicinano assai, in pratica, a un vero e proprio ente pubblico»[64].

In effetti, a favore di quest’ultima tesi può richiamarsi anche l’eccezione, formulata già in sede di Assemblea Costituente[65], secondo cui «qui si tratta di comunità, di associazioni, cioè, in sostanza, di qualche cosa che non è ancora un ente pubblico ed ha caratteri che lo possono anche per lo meno rendere simile agli enti pubblici», tant’è che si era anche proposto di «formulare un altro articolo relativo alle altre due possibilità prospettate con l’articolo primo: proprietà cooperativa e proprietà della collettività; e stabilire i motivi per cui si passa a queste altre forme, motivi di utilità collettiva, motivi di giustizia sociale»[66].

Ecco allora che, se è vero che la legittimazione del riconoscimento costituzionale delle cooperative quali comunità di lavoratori o utenti ex art. 43 Cost. trovava giustificazione nella legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica che aveva esonerato dalla sua applicazione gli «enti cooperativi a carattere mutualistico»[67], ci sembra che proprio l’attuale riconoscimento normativo delle nuove Comunità energetiche permetta, e anzi imponga, di attribuire un innovativo significato al richiamo alle “comunità di lavoratori o utenti”, nel senso di preferire queste nuove forme di relazione pubblico-privato-società civile.

Da qui si dipana allora la seconda considerazione. Proprio per la strumentalità delle nuove Comunità ai fini di interesse generale, ci pare che l’art. 43 possa essere oggi finalmente attuato anche con riferimento al favor verso la proprietà collettiva che lo contraddistingue rispetto all’art. 42 Cost[68]. Ricollegandoci alle considerazioni formulate nel § precedente, ci sembra allora che vada valorizzata la possibilità di attribuire forme di gestione diretta del servizio di utilità generale di distribuzione dell’energia elettrica alle Comunità energetiche, prevedendo per l’appunto una riserva in tal senso.

Infine, e più in generale, ci sembra che questa innovazione sociale nella gestione dei servizi pubblici possa anche offrire una “terza via” rispetto alle tradizionali nozioni – soggettiva ed oggettiva – di servizio pubblico, che potremmo chiamare “soggettivo-collettiva”.

È infatti noto che, pur essendo attualmente prevalente la c.d. «nozione oggettiva» di servizio pubblico, viene attualmente sostenuta in dottrina anche la nozione «soggettiva»[69], volta a valorizzare il ruolo pro-attivo del soggetto pubblico nell’assunzione di un’attività come servizio essenziale. Il caso qui analizzato rende evidente come pubblico, privato e società civile possano effettivamente collaborare, riorientando l’economia attraverso i concetti di bene comune e di valore «al fine di produrre una società più inclusiva e sostenibile»[70]: pare così possibile rendere un servizio non solo per il pubblico, ma anche attraverso il pubblico, sotto la sapiente guida dell’ente locale.

In conclusione, se la necessità di innovare il diritto per sostenere le istanze sottese alla transizione ecologica ha recentemente portato a modificare gli artt. 9 e 41 della Costituzione, le recenti innovazioni in materia di Comunità energetica locale dovrebbero permettere di valorizzare l’effettiva attualizzazione dell’art. 43 Cost., per troppo tempo rimasto lettera morta.

 

[*] Il presente contributo è destinato a M. Passalacqua (a cura di), Diritti e mercati nella transizione ecologica e digitale.

[1] N. Luhmann, Soziale Systeme: Grundriss einer allgemeinen Theorie, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1984, (trad.it.) Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Bologna, il Mulino, 1990.

[2] Come evidenziato da F. Capra, U. Mattei, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Sansepolcro, Aboca, 2017, p. 233.

[3] A. Moliterni, La sfida ambientale e il ruolo dei pubblici poteri in campo economico, in Riv. quad. dir. amb., fasc. 2, 2020, spec. pp. 64 ss.

[4] M. Mazzucato, Missione economia. Una guida per cambiare il capitalismo, Roma-Bari, Laterza, 2021, con particolare riferimento a pp. 102 ss. della versione digitale.

[5] Ibidem. In particolare, secondo l’A., «sono riorientando la nostra economia – mettendo i concetti di bene comune e di valore pubblico al centro della produzione, della distribuzione e del consumo – potremo plasmare e co-creare l’economia al fine di produrre una società più inclusiva e sostenibile».

[6] Si fa riferimento al d.lgs. n. 199/2021, recante “Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”, e al d.lgs. n. 210/2021, che attua la direttiva UE 2019/944, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 giugno 2019, relativa a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica e che modifica la direttiva 2012/27/UE, nonché recante disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento UE 943/2019 sul mercato interno dell’energia elettrica e del regolamento UE 941/2019 sulla preparazione ai rischi nel settore dell’energia elettrica e che abroga la direttiva 2005/89/CE.

[7] V. le direttive richiamate nella nota precedente.

[8] V. Considerando n. 67 della Direttiva (UE) 2018/2001.

[9] V. art. 31, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 199/2021.

[10] Il riferimento è nuovamente a N. Luhmann, Soziale Systeme: Grundriss einer allgemeinen Theorie, op.cit.

[11] Si fa qui richiamo a F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, 1878, (trad.it.) Comunità e società, Roma-Bari, Laterza, 2011.

[12] M. Passalacqua, Green Deal e transizione digitale verso un diritto eventuale, in Id. (a cura di), Diritti e mercati nella transizione ecologica e digitale, op.cit.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] W. Giulietti, Norme in materia di domini collettivi ed assetti organizzativi, in Il diritto dell’economia, fasc. 3, 2018, p. 1044.

[16] Ci risulta che, ad oggi, siano 12 le Regioni che hanno regolamentato le c.d. “cooperative di comunità”. Si tratta delle seguenti regioni: Puglia (2014), Emilia-Romagna (2014), Lombardia (2015), Liguria (2015), Abruzzo (2015), Basilicata (2015), Sardegna (2018), Sicilia (2018), Toscana (2019), Umbria (2019), Campania (2020) e, da ultimo, Lazio (2021).

[17] Cfr. Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione 174/2020/VSG.

[18] Si osservi infatti che nel corso dell’attuale legislatura è stata presentata alla Camera la proposta di legge n. 288 del 23 marzo 2018, che sostanzialmente riproduce la proposta di legge n. 4558 già avanzata nel corso della XVII legislatura, recante norme in tema di disciplina delle cooperative di comunità. Inoltre, il 13 dicembre 2019 è stato presentato al Senato il disegno di legge n. 1650, volto a introdurre “Disposizioni in materia di imprese sociali di comunità”.

[19] Per un approfondimento sul punto, si rinvia a G. Capo, Le cooperative di comunità, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 4, 2021, pp. 616 ss.

[20] L.R. Puglia 20 maggio 2014, n. 23, “Disciplina delle Cooperative di comunità”.

[21] V. art. 2.

[22] Si tratta in particolare della L.R. Basilicata 20 marzo 2015, n. 12, “Promozione e sviluppo della cooperazione” (art. 12, comma 4); della L.R. Liguria 7 aprile 2015, n. 14, “Azioni regionali a sostegno delle cooperative di comunità” (art. 3); della L.R. Puglia 20 maggio 2014, n. 23, “Disciplina delle Cooperative di comunità” (art. 3); della L.R. Sardegna 2 agosto 2018, n. 35, “Azioni generali a sostegno delle cooperative di comunità” (art. 4); della  L.R. Lazio 3 marzo 2021, n. 1, “Disposizioni in materia di cooperative di comunità” (art. 3). Si osservi inoltre che alcune di queste leggi prevedono anche che una determinata percentuale di soci appartenga alla popolazione residente nella comunità di riferimento. Particolarmente emblematico in tal senso è l’art. 4 della legge regionale pugliese, laddove si statuisce, al comma 3, che «La cooperativa di comunità deve avere un numero di soci (…) che rispetto al totale della popolazione residente nella comunità di riferimento risultante dall’ultimo censimento ufficiale deve rappresentare: a. il 10 per cento della popolazione per le circoscrizioni e i comuni con popolazione fino a 2 mila 500 abitanti; b. il 7 per cento della popolazione per le circoscrizioni e i comuni con popolazione fino a 5 mila abitanti; c. il 3 per cento della popolazione per le circoscrizioni e i comuni con popolazione oltre i 5 mila abitanti». Ai sensi terzo comma, «Nel caso in cui il numero dei soci scenda al di sotto dei parametri di cui al comma 2 esso deve essere integrato entro un anno, pena la cancellazione dall’albo di cui all’articolo 5».

[23] Si fa riferimento in particolare alla L.R. Campania 2 marzo 2020, n. 1, “Disposizioni in materia di cooperative di comunità”, come modificata dalla L.R. 24 giugno 2020, n. 12, “Modifiche alla Legge Regionale 2 marzo 2020, n. 1 (Disposizioni in materia di cooperative di comunità)”; L.R. Emilia 17 luglio 2014, n. 214, “Norme per la promozione e lo sviluppo della cooperazione sociale. Abrogazione della Legge Regionale 4 febbraio 1994, n. 7, ‘Norme per la promozione e lo sviluppo della cooperazione sociale, attuazione della Legge 8 novembre 1991, n. 381’”; L.R. Lombardia 6 novembre 2015, n. 36, “Nuove norme per la cooperazione in Lombardia. Abrogazione della legge regionale 18 novembre 2003, n. 21”; L.R. Toscana 14 novembre 2019, n. 67, “Cooperazione di comunità. Modifiche alla L.R. 73/2005”; L.R. Umbria 11 aprile 2019, n. 2, “Disciplina delle cooperative di comunità”; L.R. Sicilia 27 dicembre 2018, n. 25, “Norme per la promozione, il sostegno e lo sviluppo delle cooperative di comunità nel territorio siciliano”.

[24] Il riferimento è alla L.R. Abruzzo 8 ottobre 2015, n. 25, “Disciplina delle Cooperative di Comunità”, che all’art. 3, comma 4, così statuisce: «Non possono assumere la qualifica di soci gli enti locali in cui opera la Cooperativa di Comunità».

[25] In particolare, si tratta delle leggi regionali di Puglia, Basilicata e Abruzzo.

[26] Tale previsione è espressamente contenuta nelle leggi regionali della Sardegna, della Toscana e della Liguria.

[27] Come noto, il c.d. Terzo Settore è stato oggetto della riforma realizzata nel 2017 con l’approvazione del “Codice del Terzo settore” (d.lgs. n. 117/2017, come integrato e modificato dal d.lgs. n. 105/2018). Per un approfondimento in dottrina, v. in particolare E. Rossi, Valore e ruolo del terzo settore nel welfare in evoluzione, in M. Pellegrini (a cura di), Corso di diritto pubblico dell’economia, Padova, Cedam, 2016, pp. 273-292; F. Taglietti, Terzo settore tra Stato e mercato nelle economie post-industriali: alcuni elementi di valutazione, in Il Politico, vol. LXI, fasc. 3, 1996, pp. 463-484.

[28] Corte Cost., sent. 20 maggio 2020, n. 131, avente per oggetto la legge regionale abruzzese. Per un commento in dottrina, si veda E. Rossi, Il fondamento del Terzo settore è nella Costituzione. Prime osservazioni sulla sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, in Forum di Quaderni Costituzionali, fasc. 3, 2020. V. anche F.V. della Croce, Cooperative di comunità: la legislazione regionale vigente e la prospettiva di una normativa generale, in Osservatorio Costituzionale, fasc. 4, 2021, pp. 98-128.

[29] Per una più dettagliata analisi della funzione di interesse generale perseguita dalle c.d. cooperative di comunità, si rinvia in particolare a J. Sforzi, C. Borzaga, Imprese di comunità e riconoscimento giuridico: è davvero necessaria una nuova legge?, in Impresa sociale, fasc. 3, 2019,  pp. 17-30; P.A. Mori, J. Sforzi (a cura di), Imprese di comunità. Innovazione istituzionale, partecipazione e sviluppo locale, Bologna, il Mulino, 2018. Sul tema, cfr. anche F. Bandini, R. Medei, C. Travaglini, Territorio e Persone come risorse: le Cooperative di Comunità, in Impresa sociale, 2015; L. Mastronardi, L. Romagnoli (a cura di), Metodologie, percorsi operativi e strumenti per lo sviluppo delle cooperative di comunità nelle aree interne italiane, Firenze, Firenze University Press, 2020; C. Burini, J. Sforzi, Imprese di comunità e beni comuni. Un fenomeno in evoluzione, Euricse Research Report n. 018/20.

[30] Per un approfondimento in dottrina, si v. in particolare G. Pagliari, “Prime note” sulla l. 20 novembre 2017, n. 168 (“norme in materia di domini collettivi”), in Il diritto dell’economia, fasc. 1, 2019, pp. 11-41; G. Spoto, Alcune considerazioni sugli enti di gestione dei domini collettivi, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, fasc. 3, 2021, pp. 97 ss.

[31] La letteratura in materia è assai copiosa. Si rinvia in particolare a V. Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, Cedam, 1983; P. Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, Giuffrè, 1977, nel 2017 pubblicato in ristampa anastatica da Giuffrè.

[32] Si veda, a tal proposito, l’art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 168/2017, secondo cui «I beni di proprietà collettiva e i beni gravati da diritti di uso civico sono amministrati dagli enti esponenziali delle collettività titolari. In mancanza di tali enti i predetti beni sono gestiti dai comuni con amministrazione separata […]».

[33] V. art. 1, comma 1, l. n. 168/2017.

[34] Sul punto, v. G. Pagliari, “Prime note” sulla l. 20 novembre 2017, n. 168 (“norme in materia di domini collettivi”), cit.

[35] Così si esprimono A. Moliterni, S. Pellizzari, La Costituzione «dimenticata» la riserva di attività economiche alle comunità di lavoratori o di utenti, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, fasc.1, 2021, pp. 243 ss.

[36] Si fa riferimento in particolare alla L.R. Piemonte 3 agosto 2018, n. 12, “Promozione dell’istituzione delle Comunità Energetiche”; L.R. Puglia 9 agosto 2019, n. 45, “Promozione dell’istituzione delle comunità energetiche” (a tal proposito, si veda anche la deliberazione della Giunta regionale del 7 agosto 2020, n. 1346, contenente le Linee Guida attuative); L.R. Calabria 10 novembre 2020, n. 25, “Promozione dell’istituzione delle comunità energetiche da fonti rinnovabili”; L.R. Campania 29 dicembre 2020, n. 38, “Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione finanziario per il triennio 2021-2023 della Regione Campania – Legge di stabilità regionale per il 2021”, che all’art. 20 disciplina gli “Indirizzi regionali per la costituzione delle Comunità energetiche in Campania”; L.R. Lazio 27 febbraio 2020, n. 1, recante “Misure per lo sviluppo economico, attrattività degli investimenti e semplificazione”, che all’art. 10 prevede la costituzione di comunità energetiche senza fini di lucro per superare l’uso del petrolio e dei suoi derivati e «favorire la produzione, lo scambio e l’autoconsumo di energia prodotta principalmente da fonti rinnovabili, sperimentare e promuovere nuove forme di efficienza energetica e riduzione dei consumi energetici nonché promuovere l’educazione e la consapevolezza energetica dei cittadini»; L.R. Liguria 6 luglio 2020, n. 13, dedicata alla “Promozione dell’istituzione delle comunità energetiche”; L.R. Marche, 11 giugno 2021, n. 10, recante “Interventi regionali di promozione e sostegno dell’istituzione dei gruppi di autoconsumo collettivo da fonti rinnovabili e delle comunità energetiche rinnovabili”. Si consideri inoltre che, al tempo in cui si scrive, la Sardegna, l’Emilia Romagna, la Lombardia e il Veneto hanno presentato delle proposte legislative in materia.

[37] V. in particolare nota 6.

[38] Per un approfondimento in dottrina si rinvia a F. Donati, Il riparto delle competenze tra Stato e regioni in materia di energia, in E. Bruti Liberati, F. Donati (a cura di), Il nuovo diritto dell’energia tra regolazione e concorrenza, Torino, Giappichelli, 2007; B. Caravita, “Taking Constitution seriously”. Federalismo e energia nel nuovo Titolo V della Costituzione, in www.federalismi.it; A. Colavecchio, Il nuovo (?) riparto di competenze Stato-Regioni nella materia “energia”, in D. Florenzano, S. Manica (a cura di), Il governo dell’energia tra Stato e regioni, Trento, Università degli Studi di Trento, 2009; S. Cassese, L’energia elettrica nella legge costituzionale n. 3/2001, in www.federalismi.it; J. Di Gesù, Il riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di energia dal primo regionalismo alla clausola di asimmetria, in Italian Papers of Federalism, fasc. 2, 2020, pp. 1-18.

[39] Il corsivo è di chi scrive.

[40] L.R. Puglia 9 agosto 2019, n. 45, art. 1, comma 1.

[41] Ivi, art. 2, comma 1.

[42] Il cliente attivo viene definito dall’art. 3, comma 2 del d.lgs. 210/2021 (di attuazione della Direttiva UE 2019/944, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 giugno 2019, relativa a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica) come un «un cliente finale ovvero un gruppo di clienti finali ubicati in un edificio o condominio che agiscono collettivamente, che, all’interno dei propri locali, svolgono almeno una delle seguenti funzioni: produzione di energia elettrica per il proprio consumo, accumulo o   vendita di energia elettrica autoprodotta, partecipazione a meccanismi di efficienza energetica o di flessibilità, eventualmente per mezzo di un soggetto aggregatore».

[43] Il richiamo d’obbligo è a E. Ostrom, Crossing the great divide: Coproduction, synergy, and development, in World Development, fasc. 6, 1996, pp. 1073-1087. Tra gli scritti più recenti in materia, cfr. in particolare S. Profeti, V. Tarditi, Le pratiche collaborative per la co-produzione di beni e servizi: quale ruolo per gli Enti locali?, in Istituzioni del Federalismo, fasc. 4, 2019, pp. 861-890.

[44] V. supra nota 6.

[45] Disciplinate all’art. 22, dir. (UE) 2018/2001. La CER viene definita come «un soggetto giuridico: a) che, conformemente al diritto nazionale applicabile, si basa sulla partecipazione aperta e volontaria, è autonomo ed è effettivamente controllato da azionisti o membri che sono situati nelle vicinanze degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili che appartengono e sono sviluppati dal soggetto giuridico in questione; b) i cui azionisti o membri sono persone fisiche, PMI o autorità locali, comprese le amministrazioni comunali; c) il cui obiettivo principale è fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai suoi azionisti o membri o alle aree locali in cui opera, piuttosto che profitti finanziari».

[46] Disciplinate all’art. 16, dir. (UE) 2019/944. La CEC viene definita come un «soggetto giuridico che: a) è fondato sulla partecipazione volontaria e aperta ed è effettivamente controllato da membri o soci che sono persone fisiche, autorità locali, comprese le amministrazioni comunali, o piccole imprese; b) ha lo scopo principale di offrire ai suoi membri o soci o al territorio in cui opera benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità, anziché generare profitti finanziari; e c) può partecipare alla generazione, anche da fonti rinnovabili, alla distribuzione, alla fornitura, al consumo, all’aggregazione, allo stoccaggio dell’energia, ai servizi di efficienza energetica, o a servizi di ricarica per veicoli elettrici o fornire altri servizi energetici ai suoi membri o soci».

[47] Sia concesso il rinvio a T. Favaro, Regolare la «transizione energetica»: Stato, Mercato, Innovazione, Padova, Cedam, 2020, cap. IV.

[48] Vale a dire «autoconsumatori di energia rinnovabile che agiscono collettivamente», che vengono definiti dalla dir. (UE) 2018/2001 come «un gruppo di almeno due autoconsumatori di energia rinnovabile che agiscono collettivamente (…) e si trovano nello stesso edificio o condominio».

[49] V. supra nota 6.

[50] Vale a dire il Testo integrato delle disposizioni per l’erogazione dei servizi di trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica. Si fa riferimento in particolare all’allegato A alla delibera AEEGSI n. 46/2012/R/EEL del 16 febbraio 2012, integrato e modificato dalle delibere 578/2013/R/eel e 96/2018/R/eel. Per un approfondimento in dottrina di tale atto normativo, v. E. Cusa, La cooperazione energetica tra tutela dei consumatori ed economia sociale di mercato, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 4, 2015, pp. 663-684.

[51] Ovvero le società cooperative di produzione e distribuzione dell’energia elettrica di cui all’art. 4, comma 8, della l. n. 1643/1962, già esistenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 79/1999, e i consorzi o le società consortili costituiti per la produzione di energia elettrica da fonti energetiche rinnovabili e per gli usi di fornitura autorizzati nei siti industriali anteriormente al primo aprile 1999.

[52] Volto all’“Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica”.

[53] Si tenga infatti presente che la disciplina delle cooperative storiche è applicata anche ai consorzi storici, vale a dire alle imprese di produzione di energia elettrica, in forma di consorzio o di società consortile, autorizzati tra il 1991 (ai sensi dell’art. 22 l. 9 gennaio 1991, n. 9) e il 1º aprile 1999], i quali, al pari delle cooperative storiche, possono oggi disporre di una propria rete di distribuzione. Sul punto, v. E. Cusa, La cooperazione energetica tra tutela dei consumatori ed economia sociale di mercato, cit., p. 679.

[54] F. Caporale, I servizi idrici. Dimensione economica e rilevanza sociale, Milano, Giuffrè, 2017, p. 387.

[55] Corsivo aggiunto. Come già rilevato in T. Favaro, Regolare la «transizione energetica»: Stato, Mercato, Innovazione, op.cit., p. 135, «Ci sembra infatti che l’utilizzo della congiunzione disgiuntiva, che scinde i benefici degli azionisti o membri della comunità dalle aree locali in cui la stessa opera, stia ad enfatizzare la possibilità di perseguire, attraverso lo strumento della Comunità energetica, finalità pure in contrasto rispetto all’interesse dei soci, ma superiori perché poste a beneficio dell’intera area locale di riferimento, che può travalicare anche i confini amministrativi».

[56] Per un approfondimento in materia di povertà energetica e efficienza energetica si rinvia in particolare a L. Ammannati, Una nuova governance per la transizione energetica dell’Unione europea. Soluzioni ambigue in un contesto conflittuale, in L. Ammannati (a cura di), La Transizione Energetica, Torino, Giappichelli, 2018; Id., Governing the Energy market between universal access to Energy and sustainable development, in Federalismi, fasc. 14, 2016.

[57] Che, come anticipato, non era imposta dalla direttiva (UE) 944/2021, la quale all’art. 16, comma 4, si limitava a prevedere che «Gli Stati membri possono decidere di concedere alle comunità energetiche dei cittadini il diritto di gestire la rete di distribuzione nella loro zona di gestione e di istituire le pertinenti procedure (…). Qualora tale diritto venga concesso, gli Stati membri provvedono affinché le comunità energetiche dei cittadini: a) abbiano il diritto di concludere un accordo per il funzionamento della rete della comunità con il pertinente gestore del sistema di distribuzione o gestore del sistema di trasmissione a cui è collegata la loro rete; b) siano soggette ad adeguati oneri di rete nei punti di collegamento tra la loro rete e la rete di distribuzione al di fuori della stessa comunità energetica dei cittadini e che tali oneri di rete tengano conto contabilizzino separatamente dell’energia elettrica immessa nella rete di distribuzione e di quella consumata dalla rete di distribuzione al di fuori della comunità energetica dei cittadini (…); c) non discriminino o arrechino danno ai clienti che restano connessi al sistema di distribuzione».

[58] Ai sensi del quale «(…) sono stabiliti le modalità, le condizioni e i criteri, ivi inclusa la remunerazione degli investimenti realizzati dal precedente concessionario, per le nuove concessioni da rilasciare alla scadenza del 31 dicembre 2030, previa delimitazione dell’ambito, comunque non inferiore al territorio comunale e non superiore a un quarto di tutti i clienti finali. Detto servizio è affidato sulla base di gare da indire, nel rispetto della normativa nazionale e comunitaria in materia di appalti pubblici, non oltre il quinquennio precedente la medesima scadenza».

[59] Si fa riferimento alla delibera n. 318/2020/R/eel, ove si prevede che «la forma giuridica prescelta potrebbe essere quella degli enti del terzo settore, così come definiti dall’articolo 4 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, con iscrizione al registro unico nazionale del terzo settore di cui all’articolo 22 del medesimo decreto legislativo, ovvero quella delle cooperative a mutualità prevalente o cooperative non a mutualità prevalente, cooperative benefit, consorzi, partenariati, organizzazioni senza scopo di lucro, purché tali entità rispettino i requisiti di cui al decreto-legge 162/19 e alla direttiva 2018/2001».

[60] A. Moliterni, S. Pellizzari, La Costituzione «dimenticata» la riserva di attività economiche alle comunità di lavoratori o di utenti, cit.

[61] G. Minervini, La cooperazione e lo Stato, in Riv. Dir. Civ., 1969, I, p. 621.

[62] V. in particolare M.S. Giannini, Diritto Pubblico dell’Economia, Bologna, il Mulino, 1977, p. 135, ove l’A. osserva che «Quanto ai soggetti riservatari la norma contempla le tre figure di collettivizzazioni: statizzazioni, nazionalizzazioni e socializzazioni; queste ultime abbastanza esattamente indicate come comunità di lavoratori o di utenti. Avvertiamo che nel nostro ordinamento non esiste alcuna socializzazione in senso proprio, le cooperative di produzione essendo cosa diversa».

[63] Cfr. F. Galgano, Rapporti economici, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, tomo II, Art. 41-44, Bologna, Zanichelli, 1982, p. 199.

[64] S. Cattaneo, Comunità di lavoratori e di utenti, in Enc. dir., VIII, ad vocem, Milano, Giuffrè, 1961, p. 349.

[65] Si vedano in particolare i lavori della seduta del 13 maggio 1947, disponibili al link: https://www.nascitacostituzione.it/02p1/03t3/043/index.htm?art043-023.htm&2. L’eccezione cui qui si fa riferimento è stata formulata dall’On. Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione.

[66] Seduta antimeridiana del 27 settembre 1946, osservazione dell’On. Fanfani.

[67] V. F. Galgano, Rapporti economici, cit., p. 200.

[68] Anche perché, come osserva F. Galgano, Rapporti economici, cit., p. 195, «(…) esprime anzitutto la valutazione che (…) la gestione privata (…) dei servizi pubblici essenziali ostacola(no) la gestione dei servizi pubblici essenziali».

[69] V. ex multis E. Scotti, Il pubblico servizio, Padova, Cedam, 2003; v. inoltre R. Villata, S. Valaguzza, I pubblici servizi, Torino, Giappichelli, 2021, pp. 5 ss., per una ricca ricostruzione bibliografica della nozione oggettiva e soggettiva di servizio pubblico.

[70] V. supra, nota 5.

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