In ordine alla natura dei versamenti dei soci alla società, la Corte di Cassazione ha costantemente affermato: “L’erogazione di somme, che a vario titolo i soci effettuano alle società da loro partecipate, può avvenire a titolo di mutuo oppure di apporto del socio al patrimonio della società. La qualificazione, nell’uno o nell’altro senso, dipende dall’esame della volontà negoziale delle parti, dovendo trarsi la relativa prova, di cui è onerato il socio attore in restituzione, non tanto dalla denominazione dell’erogazione contenuta nelle scritture contabili della società, quanto dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi” (Cass., n. 25585 del 2014).
Con la pronuncia n. 7755 del 2021, il Tribunale di Milano – ripercorrendo la recente giurisprudenza di legittimità in materia – ha confermato alcune importanti regole sull’individuazione della natura giuridica dei versamenti dei soci in società di capitali.
In particolare, i giudici di merito hanno statuito (rectius ricordato) che la natura del versamento e il conseguente obbligo (o non obbligo) di restituzione che ne discende si desumono dall’analisi della volontà negoziale delle parti; detta volontà dovendosi provare tramite la ricostruzione (i) del modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, (ii) delle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e (iii) degli interessi che vi sono sottesi, non bastando, quale prova, la denominazione dell’erogazione contenuta nelle scritture contabili della società.
Come anticipato, tale orientamento era già stato espresso dalla Suprema Corte, secondo cui “L’erogazione di somme, che a vario titolo i soci effettuano alle società da loro partecipate, può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento destinato ad essere iscritto non tra i debiti, ma a confluire in apposita riserva “in conto capitale”, o altre simili denominazioni, il quale dunque non dà luogo ad un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione, ed è più simile al capitale di rischio che a quello di credito, connotandosi proprio per la postergazione della sua restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali e per la posizione del socio quale “residual claimant”. La qualificazione, nell’uno o nell’altro senso, dipende dall’esame della volontà negoziale delle parti, dovendo trarsi la relativa prova, di cui è onerato il socio attore in restituzione, non tanto dalla denominazione dell’erogazione contenuta nelle scritture contabili della società, quanto dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi”(Cass., n. 2758 del 2012 e, conforme, Cass., n. 25585 del 2014).
Nel caso in esame, un socio di minoranza di s.p.a. aveva convenuto in giudizio la Società, impugnando la delibera con cui l’assemblea ordinaria aveva approvato la patrimonializzazione di una somma corrispondente all’apporto versato dallo stesso socio di minoranza, in periodo immediatamente successivo la costituzione della Società, e iscritta in bilancio alla voce “soci c/finanziamento”.
Il socio di minoranza aveva più volte, nel corso dell’esercizio precedente, richiesto il rimborso della somma dallo stesso versata, ma la Società, ritenendo che il versamento de quo fosse stato effettuato in conto capitale, aveva negato la possibilità di configurare il rapporto come mutuo, rigettato la richiesta di restituzione e, conseguentemente, deciso di deliberare sulla patrimonializzazione dell’apporto mediante collocazione tra le “Altre Riserve” di patrimonio netto (che ne impedisce, invero, la distribuzione ai soci).
I giudici di primo grado (in conformità, peraltro, con quanto già statuito in sede cautelare) hanno accertato e dichiarato la nullità della deliberazione con cui veniva disposta detta patrimonializzazione, sulla base di plurimi elementi di prova, diretti e indiziari, documentali e testimoniali, che hanno indotto, univocamente, a ritenere i versamenti contestati quali finanziamenti concessi dai soci a titolo di mutuo (e non quali versamenti atipici in conto capitale).
In primo luogo, i finanziamenti erano sempre stati appostati in bilancio quali “debiti verso soci esigibili oltre 12 mesi” e indicati come tali, con precisazioni, nella nota integrativa.
Inoltre – a riprova di quanto assunto da parte attrice, secondo cui, poco dopo la costituzione della società, i soci avevano sovvenuto alle esigenze sociali effettuando versamenti per la metà in conto capitale e per l’altra metà a titolo di finanziamento soci con obbligo di restituzione – la società aveva deliberato di utilizzare una parte dei finanziamenti per un aumento gratuito di capitale sociale. Significativo, invece, che la restante parte dei finanziamenti – versata a titolo di mutuo – non era stata successivamente utilizzata per un ulteriore aumento di capitale, eseguito a titolo oneroso mediante apposite sottoscrizioni dei soci.
Le risultanze probatorie hanno, in definitiva, confermato che l’assemblea aveva disposto, senza il consenso dei titolari, dei crediti che i soci vantavano verso la stessa, in violazione del disposto degli artt. 1325 n. 1 e 1418 c.c., e, di fatto, cancellato unilateralmente il debito verso i soci, lucrando una indebita patrimonializzazione per pari importo.
La delibera è stata, dunque, dichiarata nulla ex art. 2379, comma 1, c.c. per avere la stessa oggetto illecito o giuridicamente impossibile perché in violazione dell’art. 1372, comma 1, c.c.
Inoltre, il Tribunale, nel rigettare, inter alia, l’eccezione di inesigibilità del credito perché postergato ex art. 2467 c.c., sollevata dalla Società, ha colto l’occasione per precisare che il finanziamento può essere qualificato come postergato solo laddove, tanto nel periodo in cui esso sia stato effettuato quanto in quello in cui viene chiesta la restituzione, la Società versi in situazione di crisi qualificata, cioè di probabile insolvenza.
Sul punto, viene richiamata, da ultimo, Cass., n. 12994 del 2019, secondo cui: “In tema di finanziamento dei soci in favore della società, la postergazione disposta dall’art. 2467 c.c. opera già durante la vita della società e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento sino a quando non sia superata la situazione di difficoltà economico-finanziaria prevista dalla norma; ne consegue che la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della indicata situazione, ove esistente al momento della concessione del finanziamento, ed a quello della richiesta di rimborso, che è compito dell’organo gestorio riscontrare mediante la previa adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, in grado di rilevare la situazione di crisi”.