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Editoriali

Tempi duri anche per le banche centrali

26 Gennaio 2023

Mario Comana

Professore Ordinario di Economia degli intermediari finanziari, Università LUISS Guido Carli di Roma

Di cosa si parla in questo articolo
BCE

I tempi sono duri anche per le banche centrali: è diventato difficile fare utili perfino per loro che la moneta la stampano (in senso figurato, ormai). L’aumento dei tassi di interesse, che genera benefici per gli altri intermediari finanziari, sta causando più di un problema agli istituti di emissione che pure quei tassi li fissano, o almeno li guidano. Uno studio di Pictet[1] riferisce che la Banque Nationale de Belgique, ha annunciato 9 miliardi di perdite per i prossimi 5 anni; la Reserve Bank of Australia ha dichiarato 25 miliardi di dollari di perdite e oggi ha un capitale netto negativo per 12 miliardi. Perfino la Banca centrale svizzera ha subito 125 miliardi di dollari di perdite sulle riserve valutarie. Se una banca commerciale perde il suo capitale o se anche solo scende al di sotto dei limiti imposti dalla vigilanza, scattano i ben noti meccanismi di bail-in o di bail-out, secondo i casi. È un problema se le banche centrali operano con capitale netto negativo?

Ma incominciamo spiegando come siamo arrivati qui. Tutti sappiamo che negli anni recenti, con vario ritmo dal 2008 alla fine del 2021, le banche centrali di tutto il mondo hanno inondato di liquidità i propri sistemi economici di riferimento, portando i tassi di interesse a zero e poi in territorio negativo. Poiché anche loro sono soggette alle regole del pareggio di bilancio codificate nel XV Secolo da Fra’ Luca Pacioli, inventore della partita doppia, per emettere passività con funzione monetaria le banche centrali devono acquistare attività finanziarie. Ironia della sorte, per effetto delle loro stesse politiche monetarie espansive, i titoli a reddito fisso sul mercato avevano prezzi altissimi e rendimenti bassissimi, nulli o negativi. La Bce si è riempita di Bund tedeschi a lungo termine senza rendimento o addirittura che comportano un costo per il detentore.  I Btp decennali acquistati nell’ambito del PEPP, il programma di quantitaive easing deciso per contrastare gli effetti della pandemia, rendevano in media lo 0,97%. Tutto andava bene finché il tasso di riferimento sui depositi delle banche era anch’esso negativo: la banca centrale riceveva un compenso a fronte della liquidità versata dalle banche ordinarie e la impiegava, pagando uno sconto, in titoli di stato dei governi dell’area euro. Poi nella riunione del Consiglio Direttivo di luglio 2022 la Bce ha iniziato la politica di aumento dei tassi ufficiali portando gradualmente il tasso riconosciuto ai depositi delle banche all’attuale 2%. A quel punto il meccanismo si è rotto perché il rendimento del portafoglio titoli non è aumentato e il margine di interesse è andato in rosso. E lo resterà molto a lungo. Lo stesso è accaduto a tante banche centrali in giro per il mondo, visto che le politiche monetarie sono state ampiamente allineate fra di loro.

Ma questo è un problema o solo un fatto contabile senza conseguenze pratiche? Fra i teorici circola l’idea che una banca centrale possa tranquillamente operare anche senza capitale. Almeno temporaneamente. Già, ma quanto temporaneamente? Se guardiamo il tema del punto di vista della politica monetaria in effetti non si vedono conseguenze: la banca centrale può continuare a gestire la quantità di moneta nel sistema aggiustando la dimensione del suo bilancio (aumentando o diminuendo la moneta in circolazione e modificando parallelamente la quantità dei suoi attivi). Non si dimentichi però che per comprimere la dimensione del suo bilancio la banca centrale deve vendere dei titoli che si sono deprezzati e quindi rischia di consolidare perdite che, laddove li tenesse in portafoglio, sarebbero rimaste allo stato potenziale.

Sulla stabilità della moneta ci sono conseguenze? Anche qui la risposta è negativa, almeno temporaneamente. La moneta legale circola in regime forzoso, non rappresentativo né fiduciario e infatti non è possibile presentarsi agli sportelli della banca centrale per chiedere la conversione dei biglietti. Al di là di questo, la moneta è accettata e utilizzata negli scambi più su base convenzionale che in vista della concreta possibilità di conversione in altre attività. In virtù di questo divieto di escussione della banca centrale, l’eventuale incapacità di conversione integrale della moneta – perché questo è il concreto effetto del capitale netto negativo – è irrilevante. Nessuno potrà mai chiedere l’insolvenza della banca centrale: non i cittadini che usano la moneta, tantomeno lo stato in cui quella banca centrale è incorporata. Anzi: l’accettazione su base convenzionale della moneta è rafforzata dalla garanzia implicita dello stato che, alla bisogna, potrebbe intervenire a ricapitalizzare la banca centrale. Dunque, tutti tranquilli, almeno temporaneamente. Ma nel lungo periodo qualche rischio c’è[2].

Pensiamo alla banca centrale di un paese periferico, con economia fragile e conti con l’estero in disavanzo. Se gli operatori interni possono rimanere indifferenti alla capitalizzazione della banca centrale, diverso è per gli operatori stranieri, i quali diffideranno sempre di più della tenuta di quella divisa e, progressivamente, la abbandoneranno. Questo si traduce in una svalutazione progressiva che, come noto, determina poi un effetto inflazionistico all’interno e può innescare il ripudio della moneta anche all’interno del Paese. Questo non avviene per decreto ma per diffusione dei comportamenti concreti, come il ricorso ad altri mezzi di pagamento, tipicamente altre valute ritenute “forti” come il dollaro, anche per le transazioni interne: quello che si chiama dollarizzazione dell’economia. Abbiamo già assistito a fenomeni di questo tipo in passato in giro per il mondo, specialmente in Sud America. Gi stati reagiscono di solito imponendo divieti alla conversione della valuta locali in dollari o nelle altre valute ma ogni barriera che si innalza non fa altro che deprimere la reputazione, e quindi il valore, della valuta locale e così acuisce il fenomeno. A quel punto la vecchia divisa viene annullata e sostituita con una nuova, con valore inferiore, così che riducendo il totale del passivo a parità di attivo, si crei di nuovo capitale netto positivo. Il tutto con in mezzo iperinflazione, disoccupazione alle stelle, distruzione dei risparmi delle famiglie e del capitale delle imprese, disordini sociali eccetera. Non esattamente una passeggiata di salute. Nel terzo millennio il rifiuto della moneta legale potrebbe avvenire anche perché gli operatori si rivolgono a cripto-asset come strumento di regolamento degli scambi ma, data l’attuale fase infelice che stanno conoscendo le valute alternative, la cosa appare poco probabile.

La variabile chiave per garantire la tenuta della moneta nazionale anche con l’azzeramento del capitale della banca centrale è dunque la presenza di uno stato che possa credibilmente effettuare interventi di ricapitalizzazione. Questo lascia intravvedere una mutua fra debito governativo e banca centrale. Quando il collocamento dei titoli del debito pubblico conosce qualche difficoltà, la banca centrale lo puntella con una politica monetaria accomodante o con acquisti diretti. Essa avverte i mercati che è pronta a creare tutta la liquidità che serve per consentire il buon esito delle emissioni: “whatever it takes”. Quando la banca centrale appare debole, è lo stato a offrire un implicito back up lasciando immaginare la possibilità di ricapitalizzazioni. O, ancora, lo stato potrebbe riacquistare i titoli a basso rendimento detenuti dalla banca centrale e sostituirli con altri con tassi più altri. Si tratta comunque di una forma di sussidio atta ripristinare il valore positivo del capitale netto. Come abbiamo visto, se però lo stato in cui è incorporata la banca centrale è fragile, allora il rischio di ripudio della divisa è concreto.

Venendo alla Bce, dobbiamo domandarci come funziona il meccanismo di sussidio reciproco nel caso, unico al mondo[3], di una banca centrale che serve 20 stati sovrani diversi. I meccanismi di decisione collettivi sono notoriamente molto complessi e i tempi non brevi. Non dimentichiamo che non sarebbe una decisione assunta dall’Unione europea ma appunto solo dai 20 governi che hanno adottato l’euro. Gli acquisti di titoli nell’ambito dei ripetuti programmi di quantitative easing sono avvenuti su base proporzionale rispetto alla dimensione dei paesi aderenti e quindi anche un intervento di questo tipo non potrebbe che essere proporzionale. Ciò richiederebbe il consenso di tutti gli attori coinvolti sui tempi, le modalità e l’entità dell’intervento. È importante ricordare che la BCE è un sistema di banche centrali e quindi l’intervento dovrebbe passare attraverso la ricapitalizzazione delle singole banche centrali nazionali che a loro volta conferirebbero le risorse alla Bce. Le probabilità di un consenso unanime in tempi rapidi su un piano di questo tipo sono davvero esigue. Come, a onor del vero, al momento è remota la probabilità che vi si debba ricorrere.

C’è un ultimo punto: il rischio del corto circuito fra il sostengo della banca centrale al debito pubblico del paese di riferimento e il sostegno del governo alla banca centrale in termini di ricapitalizzazione. L’uno fa da puntello all’altro e viceversa. Ma cosa accede ai paesi ad alto debito, la cui sostenibilità riposa sulla garanzia, tacita ma creduta, di supporto della banca centrale? Se la credibilità della banca centrale, scossa dal suo capitale netto negativo, non può appoggiarsi su uno stato fiscalmente forte perché già troppo indebitato, i due pilastri non riescono a sostenersi a vicenda: due zoppi non fanno uno che cammina bene.

Il tema è per ora più teorico che concreto ma è interessante affrontarlo in chiave accademica. Così da predisporre uno schema teorico di approccio da applicare in caso di bisogno. Meglio essere pronti, chissà mai.

 

[1] Ducrozet F., Costerg T., Gharbi N., “Do central banks’ losses matter?”, https://www.pictet.com/it/it/insights/do-central-banks–losses-matter-, December 2022

[2] Si veda l’interessante e articolata analisi di Bolt W., Frost J., Shin H. S., Wierts P., “The Bank of Amsterdam and the limits of fiat money”, BIS Working Papers, https://www.bis.org/publ/work1065.htm, 2023.

[3] L’unicità dell’euro come moneta di più Paesi sovrani potrebbe venir meno perché in questi giorni è stata annunciata l’approvazione di un protocollo di intesa fra Argentina e Brasile per la creazione del Sur come divisa comune ai due stati sudamericani.

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