Il presente contributo analizza le principali criticità tributarie della crisi d’impresa ed i rimedi previsti dal disegno di legge delega sulla Riforma fiscale approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 marzo 2023.
Differenti regimi di determinazione dei redditi a seconda della natura della procedura, modifica degli obblighi dichiarativi, cedibilità dei crediti fiscali prima della chiusura della procedura, legittimazione processuale dell’impresa debitrice ed estensione della transazione fiscale a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi e dell’insolvenza (di seguito: Codice). Sono queste le più significative modifiche che l’art. 9 del disegno di legge delega sulla riforma fiscale intende apportare al regime tributario degli strumenti di regolazione della crisi. Modifiche che sono del tutto opportune, visto che la disciplina tributaria della crisi è sostanzialmente immutata da molti anni (transazione fiscale a parte), mentre il regime della crisi d’impresa, dopo aver subito rilevanti interventi anche nei precedenti diciotto anni, è stato ampiamente riformato con il Codice.
1. Differenziazione del regime fiscale in dipendenza della natura liquidatoria o di risanamento della procedura
I criteri di determinazione del reddito delle imprese assoggettate a procedura concorsuale e i relativi obblighi dichiarativi vengono più appropriatamente differenziati a seconda che l’impresa debitrice acceda a un istituto liquidatorio ovvero “di risanamento”, considerando liquidatori, ai fini tributari, quelli da cui discende l’estinzione dell’impresa debitrice e di risanamento tutti gli altri, indipendentemente dalla qualificazione degli stessi dettata dal Codice. La vigente disciplina fiscale della crisi d’impresa è fondata sulla distinzione fra il fallimento (ora liquidazione giudiziale), a cui sono dedicate specifiche disposizioni (l’art. 183 del Tuir per le imposte sui redditi e l’art. 74-bis del d.P.R. n. 633/1972 per l’iva), da un lato, e tutte le altre procedure concorsuali, per le quali non è previsto alcun specifico regime, dall’altro lato; si tratta, quindi, di una classificazione che attribuisce rilevanza alla qualificazione formale più che alla natura sostanziale dei vari istituti e agli effetti da essi generati. In particolare, l’art. 183 del Tuir prevede regole di determinazione ad hoc per la determinazione del reddito d’impresa maturato nel periodo compreso tra la data di inizio e la data di chiusura della liquidazione giudiziale e della liquidazione coatta amministrativa, stabilendo che esso, indipendentemente dalla durata della procedura concorsuale e a prescindere dall’eventuale esercizio provvisorio, è costituito dalla differenza tra il “residuo attivo” risultante alla fine della procedura e il patrimonio netto dell’impresa o della società all’inizio del procedimento (anche quest’ultimo determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti delle attività e passività che ne facevano parte). Nessuna disposizione prevede invece regole speciali in ordine alla determinazione del reddito imponibile dell’impresa che abbia avuto accesso alla procedura di concordato preventivo, agli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati ai sensi dell’art. 57, dell’art. 60 o dell’art. 61 del Codice o ai piani di risanamento attestati disciplinati dall’art. 56 del Codice. Ne discende che il reddito d’impresa per tali soggetti continua a essere calcolato secondo le regole ordinarie sancite dagli artt. 83 ss. del Tuir, ovverosia apportando all’utile o alla perdita risultante dal conto economico di ciascun esercizio le variazioni in aumento e in diminuzione conseguenti all’applicazione delle regole stabilite dai successivi articoli.
È vero che il comma 5 dell’art. 86 del Tuir esclude la tassazione delle plusvalenze realizzate nell’ambito di un concordato con cessione dei beni e che il comma 4-ter dell’art. 88 del medesimo Testo unico, sulla base di analoga ratio, esclude la tassazione delle sopravvenienze da esdebitazione distinguendone il trattamento a seconda che queste siano conseguite nel contesto di una procedura “di risanamento” (mediante la quale l’attività d’impresa viene proseguita) oppure mediante una procedura a cui consegua l’estinzione dell’impresa; tali norme, tuttavia, costituiscono più la spia della necessità di una più razionale distinzione fra procedure che la conseguenza di una distinzione già esistente e hanno inoltre natura casistica più che strutturale e concettuale.
Il trattamento fiscale della crisi d’impresa, fondato sulla suddetta suddivisione (fra la liquidazione giudiziale, da un lato, e tutti gli altri istituti, dall’altro) contrasta dunque con il fatto che i presupposti e gli effetti di alcuni di tali strumenti sono comuni alla liquidazione giudiziale e ciò, per ragioni di coerenza, ragionevolezza e parità di trattamento, comporta la necessità che anch’essi siano assoggettati al medesimo regime fiscale previsto per la liquidazione giudiziale. Non si vede perché il reddito dovrebbe essere determinato nel concordato liquidatorio secondo criteri diversi da quelli previsti per la liquidazione giudiziale, posto che ciò che dovrebbe rilevare sul piano tributario è, non tanto la distinzione degli istituti sulla base della loro denominazione (o qualificazione formale), quanto la loro natura sostanziale e la tipologia degli effetti da essi generati. Tali procedure (liquidazione giudiziale e concordato liquidatorio) sono infatti accomunate dal fatto che i redditi realizzati nel loro abito non esprimono, salvo il caso in cui dopo il pagamento integrale delle spese di giustizia e di tutti i debiti residui ancora un attivo che rimane nella disponibilità dell’impresa debitrice, un indice di capacità contributiva (ovverosia una manifestazione di reddito assoggettabile a imposizione); infatti, l’imprenditore non acquisisce il possesso dei redditi prodotti e non prosegue l’attività economica, con la conseguenza che la procedura si chiude – tranne che in presenza di un residuo attivo – senza un incremento del suo patrimonio.
La legge delega stabilisce, opportunamente, che il regime tributario delle procedure concorsuali venga diversamente delineato a seconda che essi abbiano natura liquidatoria o meno, nel solco peraltro già tracciato dal citato art. 88, per quanto attiene al trattamento delle sopravvenienze da esdebitazione, e da alcuni interventi di prassi dell’Agenzia delle Entrate; conseguentemente prevede l’introduzione di un regime di tassazione del reddito delle imprese, comprese quelle minori e le grandi imprese, che fanno ricorso agli istituti disciplinati dal Codice, “distinguendo tra: 1. istituti liquidatori da cui discende l’estinzione dell’impresa debitrice, per i quali il reddito d’impresa si determina sulla base del metodo del residuo attivo conseguito in un periodo unico; 2. istituti di risanamento, per i quali l’estinzione non si verifica, e a cui si applica l’ordinaria disciplina del reddito d’impresa, con conseguente adeguamento degli obblighi e degli adempimenti, anche di carattere dichiarativo, da porre a carico degli organi delle procedure liquidatorie”.
Ne discende che anche nel concordato liquidatorio, come già dispone l’art. 183 del Tuir con riguardo alla liquidazione giudiziale, alla data di effetto della procedura avrà inizio un unico maxi-periodo d’imposta che si concluderà con il completamento della fase esecutiva del concordato, il cui risultato sarà costituito dalla differenza fra il valore fiscalmente riconosciuto dall’eventuale residuo attivo esistente alla data di chiusura di tale periodo e il valore fiscalmente riconosciuto del patrimonio esistente all’inizio della procedura. Correlativamente, dovrà essere presentata, relativamente a detto intero maxi-periodo, una sola dichiarazione dei redditi, e dovrà provvedervi il liquidatore giudiziale. È infatti quest’ultimo che più di altri soggetti dispone di tutte le informazioni necessarie per redigere tale dichiarazione, mentre l’adempimento dichiarativo concernente il periodo d’imposta anteriore e la frazione dell’anno in cui viene aperta la procederà rimarrà di competenza dell’organo amministrativo dell’impresa secondo le regole ordinarie.
2. Segmentazione, ai fini dell’iva, del periodo d’imposta in cui viene aperto il concordato preventivo
L’art. 9 della legge delega prevede inoltre la segmentazione in due parti, ai fini dell’iva, del periodo d’imposta in cui viene aperto il concordato preventivo, di qualunque natura esso sia e dunque non solo se liquidatorio; ciò al fine di consentire una piena applicazione della compensazione fra crediti e debiti anteriori alla procedura prevista dall’art. 155 del Codice, estesa al concordato preventivo dall’art. 96, che non può trovare attuazione in assenza di tale segmentazione.
Viene così superato il mancato coordinamento fra le norme fiscali e quelle dettate dal Codice della crisi, attualmente esistente sulla base della lettera delle disposizioni tributarie, a causa della mancata previsione da parte di queste ultime, con riguardo al concordato preventivo, di disposizioni analoghe a quelle stabilite per la liquidazione giudiziale e dalla liquidazione coatta amministrativa: 1) dall’articolo 74-bis del D.P.R. n. 633/1972, il quale assume ai fini dell’IVA una separazione del periodo d’imposta in corso al momento di efficacia di tali procedure concorsuali in due segmenti: uno che va dall’inizio del periodo d’imposta (1° gennaio) al giorno anteriore a quello di apertura della procedura e un secondo segmento, che inizia in quest’ultima data e si conclude al termine dell’ordinario periodo di imposta (31 dicembre); 2) dall’articolo 8 del D.P.R. n. 322/1998, il quale stabilisce che, entro gli ordinari termini, i curatori o i commissari liquidatori presentano la dichiarazione per le operazioni registrate nell’anno solare in cui è aperta la liquidazione giudiziale ovvero la liquidazione coatta amministrativa e, relativamente alle operazioni registrate nella parte dell’anno solare anteriore alla dichiarazione di liquidazione giudiziale o di liquidazione coatta amministrativa, prevede che venga presentata, entro quattro mesi dalla nomina, apposita dichiarazione al competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate ai fini della eventuale insinuazione al passivo della procedura concorsuale. Tant’è che, con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, viene periodicamente approvato il modello IVA 74 bis, mediante il quale gli organi delle suddette procedure informano l’Amministrazione finanziaria sulla posizione debitoria o creditoria dell’impresa, rilevante ai fini dell’IVA, esistente alla data di apertura della procedura e la dichiarazione annuale è conseguentemente costituita da due moduli: il primo per le operazioni registrate nel segmento dell’anno solare anteriore alla data di apertura della procedura e il secondo per le operazioni registrate nel medesimo anno solare successivamente a tale data.
Il fatto che, a differenza di quanto stabiliscono in ordine alla liquidazione giudiziale e alla liquidazione coatta i citati articoli 74-bis del D.P.R. n. 633/1972 e 8 del D.P.R. n. 322/1998, nessuna analoga disposizione sia stata introdotta dal legislatore relativamente al concordato preventivo, potrebbe indurre a ritenere che, nel contesto di questa diversa procedura, il periodo d’imposta in corso alla data di apertura di tale procedura non debba essere suddiviso nei due segmenti temporali sopra indicati. Tuttavia, il citato art. 155 del Codice, applicabile anche al concordato preventivo in virtù del richiamo contenuto nell’articolo 96 della medesima legge, dispone che i creditori hanno diritto di compensare con i loro debiti verso l’impresa fallita (ovvero verso l’impresa ammessa alla procedura di concordato preventivo) i crediti che essi hanno verso detto soggetto; ciò significa che, nonostante il silenzio della norma, tale compensazione rende comunque necessaria una sostanziale segmentazione del periodo d’imposta in cui il concordato preventivo viene aperto.
In relazione alla fattispecie di cui trattasi l’Agenzia delle Entrate, con propri documenti di prassi, ha affermato da tempo che la compensazione in parola può realizzarsi soltanto se la reciprocità dei rapporti obbligatori è riferibile al medesimo periodo: vale a dire che possono compensarsi solo debiti e crediti entrambi sorti prima della domanda di concordato preventivo. Atteso, infatti, che il soddisfacimento dei crediti anteriori alla pubblicazione della domanda concordataria deve avvenire nell’ambito e secondo le regole della procedura concorsuale e, pertanto, nel pieno rispetto della regola della par condicio creditorum, come ha osservato l’Agenzia, l’eventuale compensazione dei suddetti crediti con debiti sorti successivamente al ricorso per l’ammissione al concordato preventivo comporterebbe una palese violazione della parità di trattamento tra i creditori. Tant’è che – ha affermato l’Agenzia delle Entrate – l’art. 31 del D.L. n. 78 del 2010 (che vieta la compensazione, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, dei crediti relativi alle imposte erariali qualora sussistano importi iscritti a ruolo per un ammontare superiore ad € 1.500,00 per i quali sia scaduto il termine di pagamento, fino a concorrenza del relativo importo) rimane assorbito dall’operatività dell’art. 155 del Codice, ai sensi del quale – come si è già rilevato – i crediti sorti anteriormente alla pubblicazione del ricorso per l’ammissione al concordato preventivo debbono essere utilizzati per estinguere i debiti tributari relativi a periodi di imposta maturati anteriormente alla data di efficacia della procedura concorsuale.
L’Agenzia delle Entrate ritiene quindi già applicabili anche al concordato (liquidatorio come in continuità) le disposizioni espressamente previste solo per la liquidazione giudiziale e per la liquidazione coatta; tuttavia, in assenza di una puntuale previsione legislativa non sono mancate interpretazioni contrastanti con quella fornita dall’Agenzia delle Entrate, che il principio stabilito dalla legge delega intende superare disponendo quanto sopra esposto.
3. Obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa a periodi anteriori all’apertura della liquidazione giudiziale
Il citato art. 9 prevede inoltre l’obbligo di presentazione, da parte del curatore, della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta anteriore a quello in cui viene aperta la liquidazione giudiziale, se i relativi termini non sono ancora scaduti. Lo scopo è quello di evitare i contrasti che in merito a tale adempimento sono emersi anche all’interno della stessa Corte di Cassazione, stabilendo con la dovuta certezza che esso ricade sull’organo giudiziale e non sul contribuente e meglio definendo le responsabilità di tali soggetti.
Secondo l’Amministrazione finanziaria (ris. 2.2.2007, n. 18/E, che ha richiamato la circ. 7.11.1988, n. 5), compete al curatore l’obbligo di redigere le dichiarazioni dei redditi e dei sostituti d’imposta relative all’anno antecedente l’inizio della procedura, ove al momento dell’apertura di quest’ultima i termini di presentazione delle stesse non siano ancora decorsi e tale obbligo sarebbe già desumibile dalle norme contenute nel d.P.R. n. 322/1998, perché il fallito, dopo la dichiarazione di fallimento, non avrebbe più la legittimazione di disporre dei beni, diritti e rapporti compresi nel fallimento.
Tuttavia, con la sentenza 4 maggio 2021, n. 11590, la Corte di Cassazione ha stabilito che resta in capo al fallito l’obbligo di presentare la suddetta dichiarazione dei redditi, mentre relativamente ai periodi successivi è il curatore fallimentare a essere obbligato a presentare la dichiarazione dei redditi per l’intervallo di tempo compreso tra l’inizio del periodo di imposta e la dichiarazione di fallimento; sarebbe dunque irrilevante il fatto che il termine per la presentazione della dichiarazione scada in data successiva alla apertura del fallimento, permanendo egualmente in capo all’imprenditore l’obbligo di presentarla. Per contro, la medesima Corte di Cassazione, con la sentenza 2 marzo 2021, n. 5623, aveva solo due mesi prima affermato che compete al curatore la presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all’anno precedente quello della data di dichiarazione del fallimento, se i relativi termini non sono ancora ispirati a tale data.
Con il principio previsto dal disegno di legge delega si intende porre fine alle incertezze che hanno originato tali contrasti interpretativi, tra l’altro adeguando l’adempimento dichiarativo concernente le imposte sui redditi a quello da tempo già espressamente stabilito relativamente all’iva.
4. Cessione anticipata dei crediti d’imposta
Con un ulteriore principio direttivo la legge delega intende consentire, nelle procedure liquidatorie, la cessione dei crediti d’imposta, formatisi durante la liquidazione giudiziale (e in futuro) il concordato preventivo liquidatorio, anche anteriormente alla chiusura della procedura, cioè ancor prima della presentazione della dichiarazione fiscale da cui tali crediti emergono; ciò al fine di superare le incertezze interpretative insorte al riguardo, che hanno ostacolato il recupero dei crediti fiscali da parte delle procedure, limitando il soddisfacimento dei creditori e ritardando la tempestiva chiusura dei fallimenti.
Giova ricordare a questo proposito la sentenza 4 febbraio 2021, n. 2608, con cui la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata sulla cedibilità, da parte del curatore fallimentare o del commissario liquidatore, del credito d’imposta formatosi nel corso della procedura di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa, in dipendenza delle ritenute fiscali subite dall’impresa sottoposta a procedura.
I depositi bancari eseguiti dagli organi giudiziali in attesa della ripartizione dell’attivo fra creditori producono interessi, sui quali le banche depositarie, a norma dell’art. 26 del D.P.R. n. 600/1973, applicano una ritenuta a titolo di acconto dell’imposta sul reddito. Sulla base delle ordinarie disposizioni, cioè di norme dettate per la generalità delle imprese e non per quelle sottoposte a procedure concorsuali, l’impresa può utilizzare diversamente tali ritenute a seconda della situazione di debito o di credito tributario in cui si viene a trovare alla fine di ogni periodo d’imposta: (i) nel caso in cui il suo risultato reddituale sia positivo e il tributo personale che si rende dovuto ecceda l’importo delle ritenute, quest’ultimo può essere scomputato da quello del debito originato dal reddito imponibile, riducendo l’ammontare delle imposte da versare all’Erario; (ii) nel caso in cui, invece, il suo risultato nel periodo d’imposta sia negativo ovvero, pur essendo positivo, il tributo sul reddito che ne discende sia inferiore all’importo delle ritenute subite, si forma un credito d’imposta pari allo stesso ammontare delle ritenute, nella prima ipotesi, e all’eccedenza delle ritenute rispetto al debito tributario, nella seconda: tale credito, sulla base della disciplina ordinaria recata dall’art. 80 del Tuir, a scelta del contribuente può essere computato in diminuzione dell’imposta relativa al periodo successivo, chiesto a rimborso in sede di dichiarazione dei redditi ovvero compensato con altri debiti fiscali.
Il conflitto che le Sezioni Unite erano state chiamate a comporre nasceva proprio dall’incrocio tra tali norme (ordinarie) e quelle che regolamentano la tassazione delle imprese assoggettate a liquidazione giudiziale e a liquidazione coatta, le quali dispongono – come si è già avuto modo di ricordare – che, a differenza di quanto è previsto per le imprese in bonis e anche per quelle in liquidazione ordinaria, l’intero periodo fallimentare costituisce un unico periodo d’imposta (il cosiddetto “maxi-periodo”), il quale ha inizio con la data di apertura della procedura e si conclude con il provvedimento che ne dispone la chiusura, indipendentemente dalla durata della stessa. Poiché le ritenute subite dalle imprese a titolo di acconto sull’imposta sul reddito danno vita a un credito con la conclusione dell’esercizio in cui vengono effettuate, ne discende che nella liquidazione giudiziale e nella liquidazione coatta esse originano un credito d’imposta, non anno per anno, ma a seguito del completamento dell’intero maxi-periodo concorsuale.
Ciò posto, secondo un indirizzo interpretativo il credito d’imposta sorgerebbe a seguito della conclusione della procedura e della presentazione della relativa dichiarazione dei redditi (da inviare entro nove mesi) mentre secondo altri potrebbe sorgere già nel corso della procedura, grazie alla anticipata presentazione di tale dichiarazione, una volta che tutte le operazioni siano state comunque compiute. Se si accede alla prima tesi, il credito non può essere ripartito fra i creditori, che subiscono così una penalizzazione complessivamente pari all’ammontare del credito, mentre sulla base del secondo indirizzo la cessione del credito a terzi può avvenire nel corso della liquidazione giudiziale (o coatta), nel quale caso il soddisfacimento dei creditori può essere corrispondentemente accresciuto.
Sulla possibilità di presentare la dichiarazione dei redditi anteriormente alla fine della procedura la Corte di Cassazione aveva ritenuto, con la sentenza 1° luglio 2003, n. 10349, che “la dichiarazione relativa al maxi-periodo concorsuale …….., in mancanza di una espressa previsione di legge che lo vieti e in considerazione del fatto che il legislatore prevede il termine ultimo ma non quello iniziale per ottemperarvi, è presentata in modo legittimo ed efficace anche prima della chiusura della procedura”. Tuttavia, la medesima Corte, con le sentenze 18 gennaio 2018, n. 1150 e 7 marzo 2019, n. 6630, ha poi affermato anche che è da ritenersi intempestiva la richiesta di rimborso del credito d’imposta formulata prima della chiusura del maxi-periodo e della presentazione della relativa dichiarazione dei redditi, potendo essa essere esercitata solo successivamente alla conclusione della procedura, dai soci della società estinta, su cui possono poi rivalersi i creditori concorsuali rimasti insoddisfatti.
Entrambe le tesi presentano aspetti critici: la prima perché è difficile assumere che la dichiarazione dei redditi prodotti in un periodo d’imposta (ancorché si tratti di un maxi-periodo) possa essere presentata prima della chiusura del periodo stesso; la seconda perché di fatto finisce per impedire il rimborso delle imposte pagate in eccedenza, generando un’imposizione che non è conforme al principio costituzionale ella capacità contributiva.
Su tale contrasto interpretativo hanno preso posizione con la citata sentenza le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, stabilendo i seguenti principi:
- è pacifico, ai sensi dell’art. 106 l. fall., che il curatore può cedere un credito tributario, anche futuro;
- ai fini della cessione non rileva che il credito ceduto sia stato precedentemente esposto nella dichiarazione dei redditi, non avendo questa natura negoziale o dispositiva, ma costituendo un’esternazione di scienza o di giudizio: ciò che importa è che il credito nasca da un rapporto tributario e che in quanto tale sia qualificabile come credito futuro;
- il credito fiscale costituito da eccedenze d’imposta pagate – anche sotto forma di ritenute – in eccedenza rispetto al debito del maxi-periodo, che venga ceduto dal curatore (o dal commissario liquidatore) anteriormente alla chiusura della procedura, non può dirsi “certo” al momento della sua cessione, se non sono state completate tutte le operazioni che determinano l’importo da assoggettare a imposizione;
- alle cessioni aventi a oggetto crediti nei confronti del Fisco devono essere applicate le disposizioni recate dall’art. 69 del R.D. n. 2240/1923, secondo cui tali cessioni devono risultare da atto pubblico, nonché quelle dell’art. 43-bis del D.P.R. n. 602/1973, a norma del quale le disposizioni del citato art. 69 si applicano anche alle cessioni di crediti chiesti a rimborso nella dichiarazione dei redditi, e quelle dell’art. 1 del D. M. 30 settembre 1997 n. 384, secondo cui, per essere efficace, “l’atto di cessione è notificato all’ufficio delle entrate …. nonché al concessionario della riscossione”;
- i menzionati requisiti formali della cessione non incidono tuttavia sulla validità del contratto di cessione e sul rapporto fra cedente e cessionario, con la conseguenza che, a fronte di una cessione priva di detti requisiti, il successivo atto che invece li osservi “si traduce in una (mera) riproduzione contrattuale che consente al cessionario di far valere il credito acquistato nei confronti del Fisco”.
Alla luce di tali principi si può dunque concludere, contrariamente a quanto era stato al riguardo sostenuto dall’Agenzia delle Entrate, che:
- il credito d’imposta originato dalle ritenute subite a titolo di acconto durante la procedura, che eccedono l’eventuale debito tributario, nasce per effetto delle operazioni compiute e la dichiarazione del maxi-periodo concorsuale che lo espone comporta solo la rilevazione di un credito già sorto;
- la cessione di tale credito a terzi da parte del curatore (o del commissario liquidatore) nel corso della procedura è quindi valida ed efficace tra le parti, ancorché non risponda ai requisiti formali richiesti dalle norme sopra richiamate;
- detta cessione assume efficacia anche nei confronti del Fisco a seguito della stipula, dopo la chiusura della procedura, di un contratto – fra cedente e cessionario – che rispetti i menzionati requisiti formali, la cui osservanza è necessaria per poter far valere la cessione anche verso l’amministrazione finanziaria;
- tale contratto si traduce in una mera riproduzione contrattuale e la sua stipula costituisce un adempimento dovuto dal cedente, funzionale a consentire al cessionario l’esercizio dei diritti acquistati;
- conseguentemente la stipula dell’atto di cessione mediante atto pubblico da parte del curatore (o del commissario liquidatore), dopo la chiusura della procedura, non richiede un’ultrattività dei poteri di tale organo giudiziale, rappresentando essa solo un adempimento che sulla base della legge può essere attuato solo dopo la fine della procedura e la successiva presentazione dei redditi in cui il credito ceduto viene esposto e quindi di un adempimento dovuto;
- per perfezionare sotto ogni profilo la cessione del credito d’imposta, non sussiste pertanto alcuna necessità che la dichiarazione dei redditi relativa al maxi-periodo concorsuale venga presentata anteriormente alla chiusura del maxi-periodo stesso.
Ha quindi ricevuto il pieno avvallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione quella prassi secondo cui il curatore fallimentare (o il commissario liquidatore nella liquidazione coatta) cede il credito d’imposta a terzi prima della conclusione della procedura, al fine di trarne risorse da destinare ai creditori concorsuali, stipulando dopo la chiusura della stessa un atto pubblico di cessione del credito da notificare all’Agenzia delle Entrate e all’agente della riscossione.
Con la riforma fiscale questo l’indirizzo delle Sezioni Unite è destinato a tradursi in norma di legge.
5. Notifica degli atti impositivi e legittimazione processuale dell’impresa debitrice
Con un ulteriore principio direttivo la legge delega prevede l’obbligo di notifica degli atti impositivi, emessi nei confronti di imprese che hanno avuto accesso a uno strumento di regolazione della crisi, nei confronti sia degli organi giudiziali sia delle imprese stesse, attribuendo nelle procedure liquidatorie la legittimazione processuale ai primi, ferma restando quella delle seconde.
La questione della legittimazione processuale dell’impresa assoggettata a una procedura concorsuale è stata oggetto di differenti interpretazioni da parte della stessa Corte di Cassazione, la cui Sezione Tributaria, con l’ordinanza n. 25373, pubblicata il 25 agosto 2022, ha rimesso al Primo Presidente della Suprema Corte una causa avente a oggetto la legittimazione straordinaria del rappresentante legale di una società dichiarata fallita a impugnare gli avvisi di accertamento notificati a quest’ultima, in costanza di fallimento, dall’Agenzia delle Entrate, in merito a periodi d’imposta anteriori all’apertura della procedura, suscettibili di generare quindi crediti aventi natura concorsuale. La rimessione della causa è discesa, oltre che dalla “massima importanza” della questione sollevata, dalla sussistenza di tesi contrastanti circa l’ampiezza della predetta legittimazione passiva. A norma dell’art. 43 della legge fallimentare e, ora, dell’art. 143 del Codice della crisi, infatti, il soggetto fallito è privo della capacità di stare in giudizio nelle controversie concernenti i rapporti patrimoniali compresi nella liquidazione giudiziale, fatte salve alcune eccezioni. Tuttavia, relativamente ai giudizi originati dall’impugnazione di atti impositivi che possono incidere sull’entità dello stato passivo, è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui il debitore è legittimato a impugnare tali atti se gli organi della procedura rimangono inerti dinanzi alla loro notifica. Ciò in considerazione, non solo del fatto che il fallito conserva la natura di soggetto passivo d’imposta nonostante il fallimento, ma soprattutto perché il suo interesse a impugnare gli atti impositivi differisce da quello di cui sono portatori gli organi della procedura. Questi ultimi, infatti, hanno motivo di opporsi in sede giurisdizionale alla pretesa fiscale solo nel caso in cui l’instaurando contenzioso possa incidere sulla ripartizione dell’attivo e dunque non ne hanno alcuno ove l’eventuale incremento del passivo dovuto alla pretesa erariale non influenzi tale ripartizione, a causa dell’incapienza dell’attivo. Il contribuente, invece, vi ha comunque interesse, sia perché ha diritto all’eventuale residuo attivo esistente alla chiusura della procedura, sia per i riflessi sanzionatori che possono discendere dalla definitività degli atti impositivi provocata dalla mancata impugnazione degli stessi.
Secondo un primo orientamento della giurisprudenza il debitore sarebbe in via straordinaria legittimato a impugnare gli atti impositivi in caso di inerzia, intesa come mancata impugnazione, da parte del curatore (Cass. 30/9/2021, n. 16506; 30/4/2014, n. 9434; 9/2/2009, n. 2819), mentre sulla base di un secondo e più recente indirizzo l’inerzia, e dunque la legittimazione passiva del fallito, ricorrerebbe solo in assenza di una valutazione negativa – da parte degli organi giudiziali – circa l’opportunità della causa, e quindi a seguito di un vero e proprio disinteresse, e non semplicemente per effetto della mera mancata impugnazione degli atti impositivi dovuta a una valutazione del caso (Cass. 26/11/2021, n. 36894; 16/11/2021, n. 34529; 19/10/2021, n. 28973).
Con il principio direttivo previsto al n. 4 dell’art. 9 della legge delega si intende assicurare alle imprese debitrici una piena attuazione del diritto di difesa, superando, anche in questo caso, le incertezze interpretative sinora emerse.
6. L’estensione della transazione fiscale a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi
Last but not least, il disegno di legge delega prevede l’estensione – a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi – della transazione fiscale, che attualmente è limitata al concordato e all’accordo di ristrutturazione dei debiti, essendo previsto solo in queste procedure un procedimento di omologazione.
Com’è noto, di tale estensione si discute da tempo, ma il 16 febbraio scorso il CdM ne ha bocciato l’introduzione nella composizione negoziata, il che potrebbe indurre a ritenere che sussistono, dunque, delle ragioni che la impediscono. È realmente così? Quali sono i motivi per cui l’estensione di tale istituto, dopo essere stata prevista nella bozza di decreto presentata al CdM, non ha trovato spazio nel provvedimento approvato da quest’ultimo, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale?
Il primo motivo della bocciatura è da rinvenire nella considerazione che, in assenza di un controllo dell’Autorità giudiziaria, le ragioni erariali non verrebbero adeguatamente tutelate. Poiché un giudizio di omologazione non è previsto nella composizione negoziata della crisi, la transazione fiscale non potrebbe dunque trovarvi spazio. Non si tratta, a ben vedere, di una ragione insuperabile. Infatti, la disciplina della composizione negoziata ha previsto sin dalla sua introduzione che il tribunale può sia autorizzare atti particolarmente significativi, quali sono quelli concernenti la contrazione di finanziamenti prededucibili e la cessione dell’azienda (articolo 22 del Codice), sia provvedere in merito alle misure protettive e cautelari richiestegli dal debitore (articolo 19). La natura dell’istituto non impedisce quindi di per sé un intervento dell’Autorità giudiziaria che, assicurando una maggior tutela del credito erariale e l’assenza di pregiudizio per l’intero ceto creditorio, abbia a oggetto un accordo transattivo relativo al trattamento dei crediti fiscali, compresi quelli inerenti ai tributi, e dei crediti contributivi. E ciò è esattamente quanto prevedeva la bozza del citato decreto-legge, la quale stabiliva che l’imprenditore può dar corso con l’Amministrazione finanziaria e gli enti Previdenziali a un accordo transattivo con l’autorizzazione del tribunale, raccogliendo la proposta di accordo in un processo verbale sottoscritto dalle parti, dal giudice e dal cancelliere, dopo che il giudice ne ha valutato la convenienza rispetto alla liquidazione giudiziale e ha verificato l’assenza di pregiudizio per gli altri creditori.
Un secondo ostacolo all’introduzione della transazione fiscale nella composizione negoziata è stato rinvenuto, da chi vi si oppone, dal timore che essa, consentendo la falcidia dei debiti fiscali, provocherebbe una riduzione delle entrate tributarie. Anche questa ragione pare tutt’altro che insuperabile, poiché la conseguenza più probabile e realistica della mancata estensione della transazione non è rappresentata dal pagamento integrale dei debiti fiscali da parte delle imprese in crisi, il che avrebbe del miracoloso, ma dal ricorso, di queste ultime, a uno strumento alternativo nel cui contesto la falcidia dei debiti fiscali è consentita.
Un terzo ostacolo è costituito dalla necessità che l’Amministrazione finanziaria disponga di informazioni e valutazioni che le consentano di esprimersi sulla convenienza della proposta di transazione fiscale, le quali, in considerazione del loro scopo, non possono che provenire da un soggetto indipendente, come accade nell’accordo di ristrutturazione dei debiti e nel concordato preventivo, ove tale funzione è assolta dall’attestatore. Si tratta di un’esigenza reale, ma anche questo ostacolo è agevolmente superabile, atteso che, per quanto attiene al piano attestato, è sufficiente ampliare l’oggetto dell’attestazione includendovi anche l’espressione di un giudizio di convenienza della proposta di transazione fiscale, mentre, per quanto concerne la composizione negoziata della crisi, è sufficiente prevedere, come già stabiliva la bozza di decreto legge 24 febbraio 2023, che la transazione debba essere autorizzata dal Tribunale, il quale può a tal fine avvalersi dell’attività dell’esperto ed eventualmente anche di un consulente tecnico.
Un quarto ostacolo è stato infine ravvisato nella natura stessa della composizione negoziata, alla quale dovrebbero accedere solo le imprese che si trovano in una situazione di precrisi o di crisi leggera, cioè di imprese il cui risanamento, in considerazione della lievità della crisi in cui versano, non richiede falcidie o dilazioni di pagamento dei debiti fiscali maggiori di quelle che l’articolo 25-bis del Codice già prevede. Quest’ultima obiezione è forse quella più oggettiva, ma nasce da un equivoco, che concerne il presupposto della composizione negoziata della crisi, il quale è individuato dall’articolo 12 del Codice in una situazione “di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario” che rende “probabile la crisi o l’insolvenza”, a patto che risulti “ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa”. Infatti, se alla composizione negoziata potessero accedere solo le imprese che non si trovano ancora in una situazione di crisi vera e propria, anche i limitati benefici previsti dal citato articolo 25-bis potrebbero essere sufficienti ai fini del risanamento; tuttavia, il fatto è che, sulla base dell’orientamento generale, vi hanno accesso anche i soggetti che si trovano in un reale stato di crisi, talvolta costituito persino da una situazione d’insolvenza (purché risanabile), nel qual caso è difficile che le misure di cui all’articolo 25-bis bastino.
Pare potersi affermare quindi che non sussistono reali ostacoli giuridici, logici o anche solo di opportunità all’estensione della transazione fiscale alla composizione negoziata della crisi ed evidentemente di ciò il disegno di legge delega ha evidentemente preso atto.
7. Altre previsioni concernenti la transazione fiscale
Il disegno di legge delega prevede anche l’estensione della omologazione forzosa in caso di mancata adesione dei creditori pubblici, ove la proposta sia per essi più conveniente della liquidazione giudiziale, tranne che nell’ambito del piano attestato disciplinato dall’art. 56 del Codice della crisi, essendo estraneo a tale contesto l’intervento dell’Autorità giudiziaria da cui l’omologazione forzosa deve essere disposta, e nell’ambito della composizione negoziata, attesa la natura della stessa.
Con maggior osservanza dei principi costituzionali rispetto alle disposizioni vigenti, inoltre, nell’accordo di ristrutturazione dei debiti tale forma di omologazione potrà essere disposta indipendentemente dal superamento delle soglie percentuali di adesione dei creditori (del 60 o del 30 per cento) stabilite dagli articoli 57 e 60 del Codice e dall’entità del credito fiscale, sia in valore assoluto sia rispetto alla complessiva esposizione debitoria dell’impresa che richiede la transazione, nonché dall’adesione di altri creditori alla ristrutturazione dei debiti.
Con queste ulteriori disposizioni la legge delega intende superare i contrasti interpretativi emersi con riguardo alle fattispecie testé citate, che sono i seguenti.
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È noto che i presupposti del cram down fiscale previsti dal comma 2-bis dell’art. 63 del Codice, con riguardo alla transazione fiscale attuata nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, sono due: 1) la convenienza per l’Erario del trattamento proposta di transazione rispetto all’alternativa liquidatoria; 2) il carattere determinante della mancanza di adesione da parte dell’Agenzia delle Entrate ai fini del raggiungimento delle soglie del 60 o del 30 per cento dell’intera esposizione debitoria, richiesto dagli articoli 57 e 60 del Codice ai fini dell’efficacia dell’accordo di ristrutturazione.
Tesi contrastanti sono state espresse in dottrina e giurisprudenza circa questo secondo presupposto, perché, a seconda di come la norma viene interpretata, si può giungere alla paradossale conclusione per cui il cram down fiscale potrebbe essere disposto dal tribunale competente quando il consenso degli altri creditori è minore della maggioranza richiesta, ma non quando il consenso degli altri creditori è maggiore. Così come è stato osservato che il termine “determinante” potrebbe essere inteso nel significato di “condizionante”, nel senso che l’adesione del Fisco potrebbe considerarsi determinante quando risulti essenziale per la fattibilità giuridica ed economica dell’intero piano di risanamento, in quanto solo lo stralcio dei crediti tributari di entità significativa (altrimenti da soddisfare necessariamente entro centoventi giorni dall’omologazione) potrebbe liberare le risorse necessarie per dare allo stesso concreta attuazione. Secondo questo indirizzo interpretativo, dunque, per ragioni logico-sistematiche il potere sostitutivo del tribunale andrebbe esercitato anche quando la posizione del creditore erariale sia seppur non di maggioranza, comunque idonea a condizionare la misura della soddisfazione degli altri creditori. Inoltre, è stata prospettata la possibilità di interpretare le due condizioni previste per il cram down fiscale come tra loro alternative, sicché, una volta appurata dal tribunale la convenienza della proposta, il trattamento ivi previsto sarebbe imposto al Fisco sia quando il consenso dell’Amministrazione finanziaria risulti decisivo, sia quando la maggioranza richiesta sia raggiunta indipendentemente dal consenso dell’Agenzia delle Entrate. In base a questa tesi, in caso di mancata adesione del Fisco sarebbe dunque possibile imporre un determinato trattamento dei crediti erariali (in quanto palesemente conveniente rispetto alla liquidazione) per il solo fatto che l’accordo di ristrutturazione è stato già concluso con altri creditori che rappresentino la maggioranza richiesta, risultando a tal fine non decisiva l’adesione da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Queste considerazioni sono del tutto logiche e mettono bene in luce le contraddizioni dell’interpretazione letterale delle disposizioni di cui trattasi. Sembrano però scontrarsi con la lettera della norma, sia perché il carattere “determinante” dell’adesione è legato al raggiungimento delle percentuali richieste (e non alla concreta fattibilità del piano, che dovrebbe essere stata di per sé già oggetto di attestazione da parte del professionista indipendente), sia perché in senso opposto depongono tanto la lettera della norma (in considerazione dell’utilizzo della congiunzione “e”), quanto le precisazioni presenti nella relazione illustrativa, ove si afferma che la possibilità di omologare gli accordi di ristrutturazione presuppone che “l’adesione è decisiva ai fini del raggiungimento delle percentuali di legge”.
Un’ulteriore chiave di lettura delle disposizioni di cui trattasi, che supera il citato dato letterale, è stata peraltro recentemente fornita con la sentenza n. 3/22 (depositata il 10 gennaio 2023) dal Tribunale di Brindisi, secondo il quale la norma di cui trattasi, in considerazione della imperfezione della tecnica di formulazione utilizzata dal legislatore, deve essere oggetto di una interpretazione costituzionalmente orientata, poiché il ricorso alla congiunzione “e” non sarebbe sufficiente, di per sé, per radicare l’obbligo di un accertamento sotto entrambi i suddetti profili (convenienza e peso determinante dell’adesione), difettando una qualunque locuzione che renda ineludibile la necessità di tale operazione esegetica del tipo: “al contempo”; “contestualmente”. In assenza di tale presupposto, deve, invece, ritenersi – secondo il tribunale pugliese – che quelle enucleate dal legislatore siano, invece, due ipotesi distinte appartenenti ad uno schema normativo c.d. per elencazione, laddove le ipotesi menzionate hanno carattere tassativo e non esemplificativo, con conseguente impossibilità di un suo ampliamento in sede interpretativa. Sarebbe del resto irragionevole considerare cumulativi i due requisiti, poiché in tal modo si incorrerebbe nella conseguenza – aberrante logicamente – per cui, pur in presenza di una sostanziale maggiore convenienza della proposta per l’ente pubblico, sarebbero omologabili solo le fattispecie in cui vi siano meno creditori favorevoli, con conseguente essenzialità del consenso dell’ente pubblico dissenziente o silente, e non, invece, quelle in cui ricorrano maggiori soglie (quantitative) di consenso, con conseguente carattere non determinante del voto favorevole dell’ente pubblico. E il principio di ragionevolezza è uno dei canoni ermeneutici di cui l’art. 3 Cost. impone indirettamente il ricorso in sede di esegesi delle leggi ordinarie di cui, a fronte di plurime norme da essa traibili, deve sperimentarsi necessariamente la possibilità di una interpretazione costituzionalmente conforme.
Aderendo nella sostanza a questo indirizzo, il disegno di legge delega è destinato a considerare sufficiente, ai fini del cram down disciplinato dal comma 2-bis dell’art. 63 del Codice, la sola convenienza (per l’Erario) della proposta di transazione fiscale.
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Un ulteriore contrasto giurisprudenziale concernente l’omologazione forzosa della transazione fiscale sta emergendo con riguardo alla situazione in cui il soddisfacimento dei crediti tributari, pur essendo nominalmente più conveniente per l’Erario della liquidazione giudiziale, è sostanzialmente irrisorio (inferiore al 5 per cento) e l’accordo di ristrutturazione dei debiti ha a oggetto essenzialmente solo tali crediti.
Infatti, alcuni Tribunali (si vedano: Trib. Salerno, decr. 23 gennaio 2023, e Trib. Lecce, decr. 217 ottobre 2022) hanno rigettato la richiesta di cram down fiscale formulata da imprese che, nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti, avevano presentato proposte di transazione fiscale, non approvate dal Fisco, che prevedevano il soddisfacimento nella misura, rispettivamente, del 3% e dell’1,79% dei crediti erariali, i quali rappresentavano, rispettivamente, il 97% e il 58% dell’intero debito dell’impresa richiedente. A dire il vero, tali decreti erano fondati anche su altri motivi, quali l’inaffidabilità dell’impianto contabile e la mancanza di certezza della convenienza della transazione fiscale proposta, in un caso, e la rilevazione di un errato confronto con l’alternativa liquidatoria, nell’altro, il che era di per sé sufficiente in entrambe le circostanze per giustificare il diniego del cram down; non manca, tuttavia, in essi un accenno all’insussistenza di un accordo che preveda l’adesione di un solo creditore e un soddisfacimento irrisorio.
Altri Tribunali (ad esempio, Trib. Milano, decr. 31 luglio 2021, Trib. Roma, decr. 27 luglio 2022, Trieste, decr. 15 luglio 2022) hanno invece omologato, anche mediante cram down, accordi di ristrutturazione dei debiti costituiti esclusivamente da transazioni fiscali e/o previdenziali, aventi a oggetto crediti corrispondenti a percentuali molto elevate dell’intera esposizione debitoria, di cui è stato inoltre previsto in qualche caso un soddisfacimento assai contenuto, ancorché conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.
La lettera e la ratio delle norme che disciplinano la transazione fiscale pare rispettata da questo secondo indirizzo più che dal primo.
Quanto all’entità del soddisfacimento, infatti, l’art. 63 del Codice della crisi stabilisce che la transazione può essere approvata dal Tribunale quando è, per l’Erario, più conveniente della liquidazione giudiziale, ma non prevede un soddisfacimento minimo dei crediti tributari. Non vi è dubbio che un pagamento irrisorio di tali crediti può essere irrilevante per le casse dello Stato, ma, in assenza di una norma che ne stabilisca una misura minima di soddisfacimento, al momento pare difficile escludere la ricorrenza del presupposto del cram down se l’alternativa liquidatoria produce per il Fisco un risultato comunque peggiore di quello propostogli; inoltre, la stessa continuità aziendale, ove prevista, costituisce di per sé un fattore di convenienza per l’Erario, poiché può consentire la creazione di nuova ricchezza e l’insorgenza di future imposizioni, evitando il sostenimento di quegli oneri sociali che normalmente vengono generati dalla cessazione di un’attività produttiva.
Quanto all’ampiezza del perimetro delle adesioni all’accordo, occorre considerare che la transazione fiscale è stata introdotta nell’ordinamento allo scopo di consentire all’Amministrazione finanziaria di realizzare il miglior soddisfacimento dei crediti tributari di cui è titolare nei confronti di imprese che versano in uno stato di crisi, anche attraverso la concessione di falcidie e dilazioni di pagamento, ove siano strumentali rispetto a tale risultato. Pertanto, non vi è motivo di escluderne l’attuabilità ove i crediti erariali rappresentino una percentuale elevata dei debiti complessivi, perché significherebbe impedire il miglior soddisfacimento di tali crediti proprio nei casi in cui questi sono maggiori; inoltre, poiché scopo degli accordi di cui trattasi è anche quello di favorire la prosecuzione dell’attività grazie al risanamento dell’impresa debitrice, ha senso richiedere che l’adesione dei creditori riguardi crediti per un valore superiore a un certo ammontare, in quanto ciò è rilevante ai fini del risanamento, ma non ne ha imporre un numero minimo di aderenti. Del resto, il legislatore, che pure ha previsto, ai fini dell’efficacia degli accordi, una soglia minima circa l’importo delle adesioni, nulla di simile ha stabilito con riguardo al numero dei creditori.
Pur potendosi giungere già ora in via interpretativa alla conclusione testé esposta, grazie alla legge anche questo aspetto potrà essere disciplinato con la necessaria chiarezza, evitando ulteriori contrasti.
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La legge delega prevede, infine, l’inclusione nella transazione fiscale anche dei tributi locali, che allo stato ne sono esclusi, atteso che essa ha oggetto solo i tributi erariali, in quanto amministrati dall’Agenzia delle Entrate o dall’Agenzia delle Dogane, e i tributi diversi da quelli erariali che, pur essendo di spettanza di altri enti (come comuni e regioni), sono amministrati da tali agenzie fiscali ex lege oppure sulla base di una convenzione stipulata con il soggetto attivo del tributo ai sensi dell’art. 57 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (ma normalmente i tributi locali non sono infatti amministrati dall’Agenzia delle Entrate né dall’Agenzia delle Dogane) .
Ciò non significa, tuttavia, che i debiti relativi a tali tributi non possano essere oggetto di ristrutturazione, come ha da tempo affermato la Corte dei Conti – Sezione regionale di controllo per la Toscana, con la deliberazione n. 4/2021/ PAR del 15 giugno 2021, emessa in risposta a un quesito con cui il comune di Livorno chiedeva se fosse legittima l’adesione ex art. 182-bis L. fall. a un accordo di ristrutturazione dei debiti che prevedeva il pagamento parziale dell’IMU e delle relative sanzioni, ancorché in misura comunque superiore a quella che sarebbe derivata dalla liquidazione dell’impresa.
In proposito tale sezione della Corte dei Conti, da un lato, ha stabilito che, “in considerazione della chiarezza del dato letterale della norma, nel campo di applicazione dell’art. 182 ter non possono rientrare ulteriori situazioni creditorie di spettanza degli enti locali (ossia quelli che non risultino amministrati dalle agenzie fiscali)”; dall’altro ha però riconosciuto come, “al di fuori della transazione fiscale, i crediti (non solo fiscali) riferiti agli enti locali possano comunque essere oggetto di accordo ‘transattivo’ (con riduzione dell’ammontare del debito, dilazione di pagamento, ecc.), così come previsto per tutti gli altri crediti nell’ambito del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione. Proprio quest’ultimo, pertanto, potrà essere lo strumento a cui l’imprenditore può ricorrere per attenuare la pressione dei tributi e dei crediti degli enti locali, nei modi previsti dall’art. 182 bis. Ciò in conformità all’obiettivo del sistema normativo in esame, che è quello di evitare all’imprenditore in crisi il dissesto irreversibile dell’impresa consentendogli di ridurre in termini percentuali i crediti fiscali (e non), diversi da quelli oggetto di transazione”.
Per altro verso la sezione toscana della Corte dei Conti ha altresì evidenziato che, se le norme in commento dovessero essere interpretate nel senso di negare la possibilità di aderire a un siffatto accordo e di imporre il pagamento integrale di tali crediti, si perverrebbe all’assurdo risultato per cui l’ordinamento giuridico garantirebbe ai tributi locali un trattamento migliore rispetto ai crediti erariali, sebbene i primi siano normalmente assistiti da un grado di privilegio inferiore.
Per tutte queste ragioni la sezione toscana della Corte dei Conti ha quindi testualmente rappresentato “come l’art. 182 bis possa trovare applicazione ai crediti, non solo tributari, di spettanza degli enti locali, qualora non possano essere oggetto di transazione fiscale ai sensi dell’art. 182 ter”.
Le ragioni sopra esposte mantengono la propria validità anche a seguito dell’entrata in vigore del Codice, vista – relativamente a questo profilo – la totale assenza di soluzione di continuità sul punto tra la legge fallimentare e il Codice, rimarcata in generale anche dalle Sezioni Unite nell’ordinanza n. 8504/2021.
Una tale interpretazione, inoltre, è perfettamente in linea con il principio di buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione stabilito dall’art. 97 Cost., consentendo agli enti locali di esercitare la propria discrezionalità in maniera “controllata” o comunque “vincolata” secondo il canone della convenienza economica, attraverso l’accettazione del miglior trattamento offerto rispetto a quello che deriverebbe, in alternativa, dalla liquidazione.
Ciononostante, alcuni enti locali (nel silenzio della legge) continuano a non condividerla nel timore di violare l’asserito principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, rifiutando così di aderire ad accordi di ristrutturazione dei debiti che pur riservano ai tributi locali un trattamento migliore di quello che spetterebbe in caso di liquidazione giudiziale.
Con la legge delega potrà essere finalmente esteso ai crediti afferenti i tributi locali non amministrati dalle agenzie fiscali l’ambito oggettivo della transazione fiscale, prevedendone anche la possibilità di omologazione forzosa, che si rivelerà certamente utile, considerato l’approccio che gli enti locali hanno sino a oggi mostrato relativamente alla ristrutturazione dei crediti di cui sono titolari, indipendentemente dalla convenienza delle proposte loro formulate.