Il presente contributo analizza, alla luce di un recente interpello non pubblicato dall’Agenzia delle Entrate, il tema della determinazione della base per l’agevolazione ACE nel caso in cui vengano convertiti in riserve di patrimonio netto crediti che i soci hanno acquisito da terzi ad un prezzo inferiore al valore nominale.
Premessa
In un recente interpello (non pubblico), l’Agenzia delle Entrate ha affrontato una delicata tematica relativa alla base ACE in caso di rinuncia ad un credito acquistato a sconto.
In particolare, l’istanza di interpello aveva ad oggetto un credito sorto a seguito di un finanziamento bancario, poi ceduto – nell’ambito di un’operazione di ristrutturazione del debito – al fondo di investimenti che nel frattempo aveva acquistato la partecipazione totalitaria nella società finanziata.
In questo contesto, la rilevanza della posizione qui commentata sta nella circostanza che il credito, rinunciato per capitalizzare la società, è stato acquistato dal nuovo socio ad un prezzo inferiore al valore nominale.
In sostanza, la questione sottoposta all’attenzione dell’Agenzia delle Entrate è se – ai fini ACE – rilevi (i) il valore nominale del credito e quindi il corrispondente valore contabile della posta di patrimonio netto formata a seguito della rinuncia del predetto credito da parte del nuovo socio ovvero (ii) il minor valore fiscalmente riconosciuto del credito, pari al prezzo corrisposto dal nuovo socio pe l’acquisto del credito stesso.
La risposta dell’Agenzia ha innanzitutto valorizzato la ratio sottesa all’ACE.
La ratio dell’ACE
Al riguardo, la finalità della norma appare chiara sin dalla lettura dell’art. 1 del DL 201/2011, in base al quale l’ACE è stata introdotta “[i]n considerazione della esigenza di rilanciare lo sviluppo economico del Paese e fornire un aiuto alla crescita mediante una riduzione della imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio, nonché per ridurre lo squilibrio del trattamento fiscale tra imprese che si finanziano con debito ed imprese che si finanziano con capitale proprio, e rafforzare, quindi, la struttura patrimoniale delle imprese e del sistema produttivo italiano” (enfasi aggiunta).
In sintesi, il regime ACE è finalizzato ad incentivare la patrimonializzazione delle società.
Così, già nella relazione di accompagnamento al primo decreto attuativo ACE (decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 14 marzo 2012, successivamente sostituito con il DM 3 agosto 2017), era stato chiarito che “[l]’obiettivo perseguito con l’ACE, tenendo conto delle esigenze di rafforzamento dell’apparato produttivo del sistema Paese, è quello di incentivare la capitalizzazione delle imprese mediante una riduzione della imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio” (passaggio ripreso anche dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate 23 maggio 2014, n. 12/E; enfasi aggiunta).
Questo spirito è stato confermato anche nella relazione illustrativa al DM 3 agosto 2017, che ribadisce come “[l]’obiettivo primario perseguito con l’ACE […] resta sempre quello di incentivare la capitalizzazione delle imprese mediante una riduzione della imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio” (cfr. relazione illustrativa al DM 3 agosto 2017).
In questo stesso senso, più recentemente l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che “[l]’articolo 1 del decreto-legge n. 201 del 2011 ha introdotto l’ACE, incentivo fiscale volto al rafforzamento della struttura patrimoniale delle imprese attraverso una perequazione del trattamento tributario riservato alle imprese che si finanziano con capitale di rischio rispetto a quelle che ricorrono al capitale di debito” (cfr. Risposta 552 del 7 novembre 2022).
In questo quadro, in coerenza con la ratio della norma, l’art. 5 del DM ACE considera tra le variazioni in aumento del capitale proprio – oltre ai conferimenti in denaro versati dai soci – “la rinuncia incondizionata dei soci al diritto alla restituzione dei crediti verso la società nonché la compensazione dei crediti in sede di sottoscrizione di aumenti del capitale”.
In sostanza, la norma riconosce espressamente che rappresentano variazioni in aumento del capitale proprio, ai fini ACE, anche gli incrementi del patrimonio netto determinati dalla rinuncia del socio al diritto alla restituzione dei crediti ovvero dalla compensazione dei crediti in sede di sottoscrizione degli aumenti di capitale.
Su queste basi, ad esempio, è stata qualificata come variazione in aumento del capitale ai fini ACE la conversione in una posta del patrimonio netto, con l’acquisizione della qualifica di socio, (i) di un prestito obbligazionario, in linea con quanto previsto dall’art. 5, comma 5 Decreto ACE (cfr. relazione di accompagnamento del DM ACE) o (ii) di strumenti finanziari partecipativi (cfr. Risposta 552/2022).
Ciò detto, confermata la rilevanza ai fini ACE della patrimonializzazione derivante dalla rinuncia dei soci ai propri crediti da finanziamento, si tratta di verificare come opera questo principio nel caso in cui il credito sia ceduto al socio da terzi, ad un valore inferiore al nominale (con una divergenza, quindi, tra valore nominale e valore fiscalmente riconosciuto del credito).
L’irrilevanza ai fini ACE del valore fiscale del credito
Nell’interpello qui in commento l’Agenzia ha innanzitutto ricordato che non è un ostacolo ai fini ACE la circostanza che il finanziamento originario sia stato erogato da soggetti terzi, che hanno poi ceduto il credito al socio della società (come già emerso dai chiarimenti resi con la Risposta n. 333 del 2022).
Infatti, ciò che rileva, secondo l’Agenzia, è che (A) al momento della conversione del credito in una posta di patrimonio netto il soggetto che attua l’operazione di rinuncia “possiede la qualifica di socio” e (B) a seguito della rinuncia le somme devono considerarsi acquisite a titolo definitivo nel patrimonio della società “capitalizzata” (cfr. Risposta dell’Agenzia delle Entrate 200 del 20 aprile 2022).
Sul punto, l’aspetto che era rimasto privo di chiarimenti ufficiali (per quanto consta) si riferiva alla circostanza che il valore fiscalmente riconosciuto del credito fosse inferiore al valore nominale del credito stesso e quindi alla posta di patrimonio netto derivante dalla rinuncia al credito.
Al riguardo, a livello sistematico, va osservato che – come chiarito nella relazione di accompagnamento al DM ACE – le modalità di calcolo dell’agevolazione ACE sono basate sulla “visione giuridico-formale dei fatti aziendali” e non sulla rilevanza fiscale delle stesse operazioni, salvo deviazioni specifiche, espressamente previste dalla norma, come ad esempio l’art. 5, comma 8, DM ACE, in base al quale non assumono rilevanza ai fini della determinazione della variazione in aumento ACE “le riserve formate con utili derivanti da plusvalenze iscritte per effetto di conferimenti d’azienda o di rami d’azienda”.
In sostanza, salvo specifiche eccezioni espressamente disciplinate, nel “sistema ACE” rileva esclusivamente il patrimonio netto contabile come indice della capitalizzazione delle società.
Non è un caso, infatti, che – in base all’art. 4 del DM ACE – il capitale proprio inziale di riferimento (al 31 dicembre 2010) per determinare il rafforzamento patrimoniale che beneficia dell’ACE è il patrimonio netto “risultante dal relativo bilancio” e, quindi, nella sua configurazione contabile.
In base allo stesso criterio, in relazione al primo decreto ACE, è stato chiarito che vanno considerate come variazioni in aumento ai fini ACE anche “le riserve in sospensione d’imposta di cui all’art. 42, comma 2-quater, del decreto legge n. 78/2010 (reti d’impresa)”, a nulla rilevando “che l’accantonamento a riserva degli utili sia finalizzato all’ottenimento di un regime di sospensione ai fini delle imposte sui redditi” (cfr. relazione di accompagnamento al DM 14 marzo 2012; enfasi aggiunta).
In questo stesso senso – con riferimento ad una istanza di interpello relativa alla rilevanza ai fini ACE di una riserva da rivalutazione – l’Agenzia delle Entrate ha più recentemente chiarito che “il dato rilevante ai fini dell’ACE è il patrimonio netto civilistico” (cfr. Risposta n. 889/2021; enfasi aggiunta).
Su queste basi, nell’interpello qui in commento, l’Agenzia ha avallato la posizione prospettata dalla società contribuente, chiarendo che la rinuncia dei soci al diritto alla restituzione di un credito finanziario trasforma il valore contabile del debito della società in una ‘posta’ di patrimonio netto, comportando un incremento ACE pari al valore di incremento del patrimonio netto stesso, a nulla rilevando la circostanza che il credito sia stato acquistato dal socio ad un prezzo inferiore al valore del debito, poi convertito in capitale.