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Approfondimenti

Rimesse bancarie ed azione revocatoria nel diritto fallimentare

10 Giugno 2011

Avv. Giulio Polati

Di cosa si parla in questo articolo

Come noto, il Decreto Legge 14 marzo 2005 n. 35, convertito con Legge 14 maggio 2005 n. 80, ha sensibilmente modificato l’istituto dell’azione revocatoria fallimentare.

La nuova disciplina, applicabile alle procedure concorsualidichiarate dopo l’entrata in vigore del decreto stesso, ha fortemente ridimensionato, in materia di rimesse bancarie in conto corrente, l’ambito della fattispecie.

Ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. b), L.F., l’azione revocatoria delle rimesse bancarie è ora subordinataalla consistente e durevole riduzione dell’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca.

Il requisito stabilito dalla norma ha ottenuto l’ineludibile effetto della drastica diminuzione delle domandeproposte nei confronti degli Istituti di credito e ha comportatouna maggioreimportanza dell’analisi e ricostruzione del concreto svolgimento del rapporto banca-cliente.

Tuttavia, la novità di maggior rilievo della novella consiste forse nell’adozione di un tetto massimo dell’importo revocabile.

L’art. 70, comma 3, L.F. stabilisce infatti l’obbligo della banca di restituire “una somma pari alla differenza tra l'ammontare raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato di insolvenza, e l'ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso”.

Il legislatore della riforma, fissando un tetto massimo, ha posto fine all’annosa contrapposizione giurisprudenziale sulle modalità di calcolo dell'importo da sottoporre a revocatoria, così come sul tipo di rimesse da prendere in considerazione (solutorie o di ripristino), accogliendo,di fatto, la teoriagiurisprudenziale minoritaria del c.d. “massimo scoperto”(cfr.: Corte d'Appello di Firenze 28 gennaio 2004;in seguito Tribunale di Napoli, 15 dicembre 2005, inIl Fallimento, 4/2006; Tribunale Napoli, 6 febbraio 2006, inIl Fallimento, 6/2006; Corte d'Appello di Firenze, 8 marzo 2005).

Secondo la teoria del “massimo scoperto”, la revoca può riguardare solamente l'importo per il quale la banca è effettivamente e realmente rientrata del suo credito. Detto importo è rappresentato dalla differenza tra il credito massimo erogato ed il credito residuo che risulta in essere al momento della dichiarazione di fallimento, con la conseguente necessità di fare riferimento all’effettivo rientro conseguito dalla banca.

Come già detto, la suddetta tesi non ha incontrato in passato il favore della giurisprudenza maggioritaria, che ha sempre sostenuto la revocabilitàdella sommatoria delle rimesse effettuate sul conto corrente, senza altro limite che l'ammontare dell'affidamento.

In altri termini, sono stati ritenuti revocabili tutti i versamenti e gli accrediti effettuati nel “periodo sospetto” sul conto corrente del fallito, che non fosse assistito da apertura di credito.

Il legislatore della riforma sembra averaffrontato, e risolto, anche il contrasto formatosi sulla natura delle rimesse da sottoporre a revocatoria.

Nel sistema previgente si è consolidato un orientamento giurisprudenziale che distingueva tra l’effetto solutorio della rimessa, in quanto incidente su un saldo scoperto, e per ciò stesso costituente debito liquido ed esigibile, e l’effetto di ripristino della disponibilità di conto corrente assistito da apertura di credito, escludendosi nella seconda ipotesi la riduzione, cioè l’atto estintivo, di un credito esigibile (orientamento inaugurato con la notissima sentenza Cass., 18 ottobre 1982, n. 5413, inGiur. comm., 1983, II, 179).

Tuttavia, anche a seguito dell’entrata in vigore delDecreto Legge 14 marzo 2005 n. 35,taluna giurisprudenza (cfr. Trib. Milano 27.03.2008, in Il civilista, 2008, 7-8, 98 nota Scarpa)ha continuato a riconoscere perdurante efficacia alla suddetta distinzione, ritenendo che,ai fini dell’applicazione dell’art. 67, comma 3, lettera b) L.F., non si possa prescindere dalla situazione di scopertura o semplice passività del conto, poiché la seconda, a fronte dell'obbligo della banca di tenere a disposizione del cliente la somma di denaro prevista nel contratto di apertura di credito, è insuscettibile di registrare pagamenti con effetto solutorio di un credito esigibile.

Secondo l’opinione della maggior parte degli autori, che fanno leva sull’esplicita previsione normativa della “riduzione consistente e durevole dell'esposizione debitoria”, prevale invece una visione ex post del fenomeno per cui ciò che conta è il mancato riutilizzo della provvista entro un certo termine. Solamente quest’ultima circostanza, infatti, assegna natura solutoria all’accredito, indipendentemente dal distinguo fra saldo debitore inerente un conto scoperto o saldo debitore di conto solo passivo (cfr. Ariano e Quagliotti, An e quantum della novissima revocatoria delle rimesse bancarie, in Fall., 2008, 384; Bonfatti e Censoni, La riforma della disciplina della revocatoria fallimentare, del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, Padova, 2006, 108 ss.; Guglielmucci,La nuova normativa sulla revocatoria delle rimesse in conto corrente, in Dir. fall., 2005, 807 ss.; FabianiLa revocatoria fallimentare bonsai delle rimesse in conto corrente, in Foro it., 2005, I, 3297 ss.; Tarzia, Le esenzioni, vecchie e nuove, dall'azione revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fall., 2005, 841).

Secondo la suddetta tesi,ampiamente condivisa in dottrina, l'intento del legislatore è stato quello di escludere dall'ambito di applicazione dell'istituto della revocatoria quelle operazioni che, per il loro peso, non paiono idonee a depauperare il patrimonio del fallito in maniera significativa.

Il fenomeno diventa tuttavia meno chiaro quando dalla dimensione quantitativa si passa a quella temporale in forza del secondo requisito richiesto dall'art. 67, comma 3, lett. b) per l'inoperatività dell'esenzione, non sussistendo alcun criterio legislativo che individui le rimesse che, per essere revocabili, hanno ridotto l'esposizione anche in maniera durevole.

Uno degli argomenti più dibattuti a seguito dell'entrata in vigore della riforma fallimentare, riguarda l’efficacia del nuovo combinato disposto dell’art. 67, comma 3, lett. b) L.F. ed art. 70, comma3, L.F., rispetto ai fallimentiprecedentemente dichiarati.

In molti giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore della riforma fallimentare, la banca convenuta in revocatoria si è difesa invocando l’applicazione delle nuove disposizioni, in quanto destinate ad interpretare e chiarire la disciplina preesistente.

In particolare, secondo la banca i presupposti circa la revocabilità delle rimesse bancarie in conto corrente dovrebbero essere rimeditati alla luce della novella, ritenendosi che la stessa non abbia carattere innovativo, bensì semplicemente interpretativo della previgente disciplina.

La Corte di Cassazione ha rigettato l’ipotesi di un’applicazione interpretativa della nuova norma, riconoscendo invece la natura innovativa, e non di interpretazione autentica,dell’art. 70, comma 3, L.F., ed escludendo conseguentemente l’efficacia retroattiva della norma medesima (cfr.: ex plurimisCass. Civ., 07.10.2010 n. 20834, in Guida al diritto 2010, 48, 40; Cass. Civ., 03.09.2010 n. 19043, in Red. Giust. civ., Mass. 2010, 9).

La tesi della Suprema Corte è stata invece criticata da vari autori che, pur rilevando l’inesistenza nella novella di una disposizione transitoria ad hoc, hanno argomentato come in ragione della precisazione contenuta nella Relazione Ministeriale al Decreto Legge 14 marzo 2005 n. 35,secondo cui la riforma della revocatoria fallimentare è destinata, tra l'altro, ad eliminare incertezze applicative e contrasti giurisprudenziali, discenderebbe la funzione chiaramente ermeneutica della nuova disciplina.

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