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A Clash of Courts: l’Alta Corte di Londra aggrava le incertezze sui derivati degli enti locali

10 Novembre 2021

Pietro Gatto, Avvocato e Solicitor

Di cosa si parla in questo articolo

[*] A poco più di un anno dalla nota sentenza delle Sezioni Unite sul tormentato tema dei derivati sottoscritti dagli enti locali [1], la Financial List dell’Alta Corte di Londra interviene con una decisione di netta chiusura rispetto ai principi di diritto enunciati in tale decisione. La recentissima sentenza che qui sinteticamente si illustra, emessa nel giudizio “pilota” tra la filiale londinese di Deutsche Bank e il Comune di Busto Arsizio, avrà un peso importante sul futuro contenzioso a Londra tra banche ed enti locali e non mancherà di innescare vivaci dibattiti anche in Italia.

Cattolica e il suo accoglimento

Chiamate a risolvere un conflitto giurisprudenziale in una materia ritenuta della massima importanza per la finanza locale, le Sezioni Unite hanno, in sintesi, statuito quanto segue:

  • I contratti derivati non sarebbero di per sé stipulabili dalla Pubblica Amministrazione, essendo la loro natura aleatoria incompatibile con la certezza degli impegni di spesa richiesta dai principi costituzionali di finanza pubblica come ricavabili commi 4 e 6 dell’art. 119 Cost.. Per tale ragione, e premesso il divieto assoluto di stipula di derivati speculativi, le norme ordinarie che fino al 2013 consentivano agli enti locali la loro stipula devono essere interpretate restrittivamente;
  • Per effetto di tale interpretazione restrittiva, la stipula di contratti di copertura (hedging) era consentita a condizione che ogni aspetto di aleatorietà del rapporto fosse preventivamente determinabile e misurabile dall’ente locale. Da questo punto di vista, le Sezioni Unite individuano nel c.d. mark to market, negli scenari probabilistici e nella indicazione di eventuali costi occulti i requisiti dell’oggetto del contratto necessari per consentire all’ente locale la verifica di compatibilità tra il derivato e la certezza degli impegni di spesa richiesta dalle citate regole costituzionali di finanza pubblica;
  • Quanto all’organo chiamato all’autorizzazione alla conclusione del derivato, esso deve individuarsi, ai sensi dell’art. 42 comma 2 lett. i) del TUEL e a pena di nullità di ogni atto amministrativo di autorizzazione emanato da organo diverso, nel Consiglio Comunale; ciò sia nei casi in cui il derivato preveda un pagamento upfront, sia quando, anche senza upfront, abbia lo scopo di ristrutturare la componente debitoria dell’ente modificandola significativamente. Posto che sia l’upfront, sia le operazioni di ristrutturazione dei debiti mediante derivati sono da considerarsi forme di indebitamento (effettive nel primo caso; potenziali, e dunque con valutazione da effettuarsi caso per caso, nel secondo), è il Consiglio ad avere competenza alla stipula di tali contratti, proprio poiché, ai sensi della citata disposizione del TUEL, essi comportano spese che impegnano i bilanci dell’ente per gli esercizi successivi.

In aggiunta ai principi di diritto appena menzionati, le Sezioni Unite hanno svolto una preliminare disamina del fenomeno dei derivati nella sua dimensione civilistica, giungendo alla conclusione – in evidente accoglimento della teoria, di derivazione dottrinaria, del derivato come “scommessa razionale” [2] – secondo cui i citati requisiti del mark to market, degli scenari probabilistici e dell’indicazione dei costi occulti costituiscono elementi essenziali per la valutazione della liceità del contratto sotto il profilo della sussistenza della sua causa in concreto.

Questa caratterizzazione “bifronte” di Cattolica ne ha consentito l’applicazione (che è stata immediata e fino ad oggi sostanzialmente costante) nelle successive decisioni sia di merito che di legittimità, sia in relazione a derivati sottoscritti da enti locali che da parti private [3].

Più variegato, invece, il suo accoglimento in dottrina, peraltro con una necessaria precisazione. Nonostante i principi di diritto enunciati in Cattolica si riferiscano esclusivamente alla materia dei derivati nel contesto della finanza locale, il dibattito che ne è scaturito ha riguardato i suoi soli aspetti civilistici. Essa è stata invece – salvo isolate eccezioni [4] – pressoché ignorata dalla dottrina amministrativistica e contabile, con il risultato che, ad oggi, la decisione sconta un deficit di analisi su questioni a monte – in particolare, quella della capacità a contrattare dell’ente locale – che sono nevralgiche nei giudizi sui derivati sottoposti per scelta delle parti alla legge inglese e, di fatto, alla giurisdizione esclusiva delle Corti commerciali londinesi. Ciò perché in tale ambito sostanziale le nullità contrattuali invocabili ai sensi del codice civile italiano non hanno né spazio, né corrispondenze; mentre può risultare essenziale l’indagine sull’estensione dei poteri contrattuali dell’ente locale, in quanto, ai sensi della stessa legge sostanziale inglese, la mancanza di capacità a contrattare (lack of capacity) determina l’impossibilità di stipulare validamente qualunque contratto, a qualunque legge sostanziale le parti abbiano voluto sottoporlo (compresa, dunque, quella inglese).

Questa precisazione era necessaria per porre nel giusto contesto la decisione dell’Alta Corte in commento. Nella sentenza di cui ci si occupa il giudice inglese non era chiamato a valutare le conclusioni di Cattolica relative all’apprezzamento della liceità causale del contratto; bensì, quei passaggi della decisione (ad esempio, gli enunciati “sicuri limiti” cui era sottoposto il “potere contrattuale” degli enti locali [5]; il “divieto” di concludere contratti speculativi [6]; la “possibilità” di concludere “utilmente ed efficacemente” contratti di copertura soltanto al ricorrere di determinate condizioni [7]; la “competenza” a deliberare sui contratti [8]) dai quali potesse eventualmente ricavarsi l’assenza della legittimazione contrattuale dell’ente locale, e dunque la nullità del contratto “inglese”.

Il framework internazionalprivatistico della decisione

Nelle dispute cross-border è essenziale determinare a monte la “cassetta degli attrezzi” internazionalprivatistica da utilizzarsi nella decisione. Da questo punto di vista, l’Alta Corte – correttamente – individua nel diritto italiano la legge applicabile alle questioni concernenti la capacity dell’ente locale; il che, a conferma delle considerazioni svolte poc’anzi, giustifica l’affermazione in sentenza per cui, nonostante la diversa legge sostanziale applicabile, nel giudizio sulla validità dei contratti sotto esame il diritto italiano gioca un ruolo preponderante (§84).

Quanto all’approccio interpretativo al diritto straniero, occorre premettere che, a differenza che in quello italiano, nel processo civile inglese l’accertamento della legge straniera è trattato come una questione di fatto e soggetto alla piena espansione del principio dispositivo [9]. Norme (anche costituzionali), giurisprudenza e dottrina straniere fanno ingresso nel processo solo se e in quanto dedotte (pleaded) dalle parti nei propri atti difensivi (Statements of case) e analizzate nelle consulenze tecniche di parte (Expert Reports). Quanto alla loro valutazione giudiziale, come si afferma in sentenza non è consentito al giudice interpretare autonomamente le norme straniere (§105); nell’indagine sul diritto straniero, il giudice deve farsi guidare dai consulenti tecnici (Experts) delle parti, scegliendo, in caso di divergenze, la prospettazione più convincente. Nei fatti, tale scelta avviene sulla base dell’esito della cross examination degli Experts: un momento processuale a spiccata componente adversary che, per analiticità e, non raramente, asprezza, non ha corrispondenze alle nostre latitudini processuali.

Già in questa parte preliminare della decisione, peraltro, è possibile rinvenire la giustificazione logico-giuridica del “trattamento” che Cattolica riceverà nel prosieguo. A tale riguardo, bisogna premettere che la questione della capacity degli enti locali italiani in materia di derivati era stata portata all’attenzione dell’Alta Corte già prima di Cattolica [10] e proprio sulla base delle conclusioni della sentenza di appello da cui Cattolica è scaturita, e la cui correttezza questa ha infine validato [11]. In quella sede, l’incapacità a contrattare dell’ente locale era stata esclusa dal giudice poiché “il compito della Corte è quello di valutare le consulenze tecniche di diritto italiano e di predire la probabile decisione della più alta Corte nel rilevante settore di diritto italiano” [12]; ciò premesso, le conclusioni di tale sentenza di appello, giudicate “vaghe e incerte”, erano state rigettate dall’Alta Corte in quanto “non accuratamente rappresentative del diritto italiano” [13].

Conscio dell’esistenza di un precedente (di fatto vincolante) [14] sulla medesima questione, ed altresì che Cattolica è proprio la “decisione della più alta Corte” che prima mancava, il giudice inglese si premura di precisare, ribadendo un precedente del 1918 [15], che rientra comunque nei suoi poteri la verifica, sulla base delle prove tecniche assunte nel giudizio, della correttezza nel merito delle sentenze straniere rispetto al diritto sostanziale di riferimento; altrimenti, si sostiene, si giungerebbe alla conseguenza – non consentita nel sistema legale interno – di elevare decisioni straniere a precedente vincolante per quelle domestiche. Ciò vale anche se la sentenza straniera sia stata emessa dal consesso giudiziario più alto di quel Paese e, a maggior ragione, se provenga da un sistema di civil law, dove il precedente giudiziario non è fonte di diritto e, pertanto, non vincola le decisioni delle autorità giudiziarie di grado inferiore (§107-108).

È evidente che con queste premesse l’Alta Corte si riserva sostanzialmente “mani libere” nella interpretazione di Cattolica, che, in più, viene definita “in fin dei conti, una decisione su un caso specifico” (§155). Una precisazione fattualmente discutibile e certamente banalizzante, resa nonostante fossero ben chiari al giudice inglese sia la precipua funzione delle Sezioni Unite nell’ordinamento italiano, sia lo stesso scopo del suo intervento in materia [16].

L’interpretazione dell’art. 119 Cost. e i derivati speculativi

Fatte queste premesse, il primo punto di dissenso rispetto a Cattolica si manifesta sull’interpretazione dell’art. 119 Cost., i cui commi 4 e 6, letti in combinato disposto, sono stati posti dalle Sezioni Unite, sulla scorta dell’insegnamento della Corte Costituzionale [17], alla base della conclusione per cui esiste un vincolo costituzionale di equilibrio finanziario che renderebbe i contratti derivati, di per sé, non stipulabili dalla pubblica amministrazione [18]. Opposta, invece, la lettura del giudice inglese, secondo cui sia elementi letterali (assenza nella norma costituzionale di limiti espressi all’uso dei derivati), sia indizi provenienti da norme ordinarie (le quali, regolamentando i derivati, implicitamente li autorizza(va)no), depongono decisamente per l’assenza di limiti in tal senso (§186).

In questo passaggio della decisione l’interprete italiano non potrà non scorgere da un lato la innata refrattarietà del giudice inglese all’utilizzo di criteri interpretativi diversi da quello letterale, anche quando oggetto dell’analisi sono norme di portata necessariamente generale come quelle costituzionali [19]; dall’altro, una difettosa comprensione dei meccanismi di interazione tra norme costituzionali e ordinarie, che, come è noto, impedisce di interpretare le prime alla luce delle seconde. Ad ogni modo, il corollario che l’Alta Corte deduce è che l’art. 119 Cost. consente agli enti locali la stipula di qualsiasi tipo di derivati, anche speculativi (§195), e dunque non pone alcun limite alla capacità a contrattare degli enti locali al riguardo. Per il giudice inglese, pertanto, sia le Sezioni Unite, sia, a monte, la Corte Costituzionale, interpretano male le norme della propria carta costituzionale.

Tuttavia, si concede che “la Suprema Corte ha parlato sul punto”, per cui, sia pure “dubitante”, si accetta che per il diritto sostanziale italiano sussiste il divieto esplicito in capo agli enti locali di stipulare contratti speculativi, dunque la loro incapacità a contrattare (§278-280).

I derivati di copertura

Risolta, non senza le segnalate perplessità, la parte relativa ai derivati speculativi, l’Alta Corte passa poi ad analizzare la sorte dei contratti di copertura dal punto di vista della capacità a contrattare.

Qui il giudice inglese si confronta con alcuni passaggi apparentemente complessi di Cattolica: quelli, cioè, che confluiscono nel principio di diritto per cui gli enti locali potevano “utilmente ed efficacemente procedere” alla stipula derivati di copertura a condizione che l’oggetto contrattuale fosse misurabile/determinabile dall’ente mediante il compiuto apprezzamento del mark to market, degli scenari probabilistici e dei costi occulti [20].

La complessità di tali passaggi è, come detto, più apparente che reale, se solo si considera la già segnalata natura “bifronte” della decisione, nella quale, cioè, convivono sia aspetti privatistici che pubblicistici, e che in questa parte della decisione le Sezioni Unite armonizzano tra di loro producendo una soluzione indubbiamente brillante: vale a dire, che il mark to market, gli scenari probabilistici e i costi occulti, requisiti per valutare la liceità del contratto sotto il suo profilo causale, assumono, nel contesto delle regole di finanza pubblica e dei contratti stipulati dagli enti locali, il ruolo di necessari misuratori dell’alea consentita dal vincolo costituzionale dell’equilibrio finanziario. Nel ragionamento delle Sezioni Unite, derivati speculativi e derivati di copertura non misurabili sotto il profilo dell’alea sono due facce della stessa medaglia, in quanto entrambi frustrano le stesse regole costituzionali di finanza pubblica; per cui,  se non vi è capacità a contrattare per i primi, ugualmente deve dirsi per i secondi: simul stabunt, simul cadent. Il principio di diritto enunciato da Cattolica, del resto, è chiarissimo al riguardo.

La Corte inglese conclude, invece, per la rilevanza meramente civilistica di questa parte della decisione delle Sezioni Unite: in sostanza, essa afferma che nei derivati di copertura stipulati dagli enti locali l’assenza dei suddetti criteri di misurabilità (mark to market, scenari probabilistici, costi occulti) impatta sulla liceità dell’oggetto contrattuale, non sulla capacità a contrattare nell’ente. Con la conseguenza che essi potranno al massimo essere dichiarati nulli se sottoposti al diritto sostanziale italiano, non se a quello inglese.

La Corte inglese giunge a tale erronea conclusione mediante una operazione di selettivo e a tratti causidico sminuzzamento del dato letterale di Cattolica, che finisce per privilegiare alcuni indizi “privatistici” rinvenibili nel ragionamento di contorno a scapito della chiara lettera “pubblicistica” del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite. E infatti, la conclusione adottata “tiene” logicamente solo e nella misura in cui si elimini mentalmente il principio di diritto. Tecniche interpretative al limite del sezionamento entomologico sono state preferite al ben più valido ed efficace strumento logico dell’entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem (ben noto alle latitudini geografiche della Corte), con il risultato di un evidente travisamento del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite.

Dunque, secondo l’Alta Corte ogni derivato sottoposto alla legge inglese che non sia stato accompagnato in sede di stipula dall’indicazione del mark to market e dei costi occulti, nonché da scenari probabilistici circa la sua futura performance, è perfettamente valido, oltre che per il diritto inglese, anche per quello italiano sotto il profilo della capacità a contrattare dell’ente locale. Ma anche se così non fosse, precisa la Corte, nessuna “hard and fast rule” può desumersi in Cattolica al riguardo: in realtà, la presenza dei tre requisiti rileva ai soli fini della valutazione del rispetto degli obblighi informativi dell’acquirente del derivato, con valutazione da effettuarsi caso per caso e dunque rifuggendo da automatismi che risulterebbero “sorprendentemente formalistici, inefficienti e impraticabili” (§268). Qui si consuma un altro strappo rispetto a Cattolica, nonostante il giudice si premuri di minimizzarlo con uno scaltro ricorso alla diplomazia giudiziaria. Il fatto è che la conclusione cui giunge il giudice inglese non rispecchia affatto ciò che le Sezioni Unite “hanno realmente detto” (§267), ma qualcosa di ben diverso, sia sotto il profilo della natura della violazione, che le Sezioni Unite qualificano ben più sostanziosamente come nullità per illiceità dell’oggetto contrattuale e non, come al contrario ritiene il giudice inglese, come mera violazione di obblighi informativi; sia per ciò che riguarda la necessaria presenza dei tre citati requisiti [21].

Soprattutto, la conclusione della Corte inglese si presta a una obiezione insuperabile: se i derivati, anche quelli di copertura, costituiscono una forte disarmonia nell’ambito delle regole di contabilità pubblica, poteva un ente locale sottrarsi al loro rispetto (cioè, in definitiva, al rispetto di norme costituzionali) semplicemente sottoponendo il derivato ad una legge sostanziale straniera, essendo questa l’obiettiva conseguenza della scelta interpretativa operata dall’Alta Corte? E potevano davvero le Sezioni Unite intendere e consentire ciò nel momento in cui hanno vergato il principio di diritto in questione? A queste domande, tuttavia, l’Alta Corte non si cura di rispondere.

L’autorizzazione consiliare

Sul tema dell’organo chiamato a deliberare i contratti [22] si consumano ulteriori, evidenti deviazioni rispetto a Cattolica; qui, però, l’azzimato e molto british lavorio diplomatico della Corte per tentare di negarli si fa più difficoltoso, risultando alla fine poco riuscito.

L’Alta Corte afferma che la conclusione in Cattolica per cui quelle operazioni con swap che comportino una significativa modificazione del livello di indebitamento dell’ente, anche se regolate senza upfront, necessitano di autorizzazione da parte dell’organo consiliare, comporta che le valutazioni sulla validità degli atti autorizzativi siano effettuate caso per caso alla luce delle specifiche circostanze. In sé, la conclusione del giudice inglese non si discosta troppo dal dictum di Cattolica.

Più a monte e nei fatti, tuttavia, l’Alta Corte rigetta quell’approccio sostanzialista al concetto di indebitamento che invece costituisce il perno del ragionamento delle Sezioni Unite. Il principale merito di Cattolica sul punto è stato quello di svelare, nel contesto della finanza locale, “di che lacrime grondi e di che sangue” il fenomeno dei derivati: e cioè che, al di là delle plurime etichette affibbiate alle singole operazioni, quasi sempre declinate nell’inglese iniziatico della lingua bancaria e finanziaria internazionale, la natura proteiforme dei derivati consentiva agli enti locali, a corto di finanze e ingabbiati nelle strettoie del Patto di Stabilità, di contrarre mutui sotto mentite spoglie. Da questo punto di vista, si farebbe offesa ai fatti se non si riconoscesse che per gli enti locali la componente hedging, cioè di copertura dall’oscillazione dei tassi di interesse, rappresentava il motivo meno importante (quanto meno, non quello prevalente) della loro stipula: per rendersene conto, del resto, basta guardare al modo in cui la maggior parte delle operazioni sono state in concreto strutturate.

Questo approccio sostanzialista e saldamente ancorato alla realtà, che rifugge dalla definizione valida per tutte le stagioni (e dunque contenutisticamente vuota, ancorché legittimata da alcune circolari ministeriali del tempo) [23] del derivato come “strumento di gestione del debito” (debt management), non è estraneo alla giurisprudenza inglese. Tutt’altro: basti pensare alla notissima decisione della House of Lords nel caso Hammersmith [24], sulla quale si tornerà in seguito, che in uno dei suoi passaggi più incisivi afferma che “sebbene l’espressione ‘gestione del debito’ sia comoda, in realtà gli swap lasciano il debito totalmente privo di gestione” [25]. Ed è questo approccio che ha fatto dire alle Sezioni Unite che, se è indubitabile che uno swap può in concreto consistere in un mutuo [26], allora esso ben può ritenersi una spesa che impegni i bilanci successivi dell’ente, con la necessaria conseguenza che la sua approvazione deve essere deliberata dal Consiglio Comunale ai sensi dell’art. 42 comma 2 lett. i) del TUEL, anche per ragioni di tutela delle minoranze presenti in tale organo.

L’Alta Corte, invece, accoglie l’opposta visione formalistica del derivato come mero “strumento di gestione del debito”; e lo fa, non senza una certa astuzia, celando la scelta nelle pieghe dell’analisi delle specifiche circostanze del caso. Il lettore accorto non potrà tuttavia non notare alcuni passaggi indicativi dell’opzione di fondo realmente prescelta: come quando la Corte, riferendosi al Cash Flow Swap oggetto del giudizio, afferma che “per quanto riguarda la questione se maggiori somme dovessero essere pagate, la risposta è che sulla base delle coeve proiezioni le somme da pagare sarebbero dovute essere significativamente inferiori; ma naturalmente, per come si sono verificati i fatti, gli esborsi sono stati maggiori” (§338), senza dedurre da tale mutamento di scenario alcuna conseguenza; oppure quando, subito dopo, valorizza “l’effetto economico voluto” dell’operazione, che era meramente quello di rimodulare il profilo di ammortamento (§340); per cui è sufficiente un determinato effetto voluto a caratterizzare l’operazione come “neutra” sotto il profilo dell’indebitamento, indipendentemente dalle maggiori somme che effettivamente l’ente locale ha sborsato: il Cash Flow Swap, conclude la Corte leggendo i fatti alla luce delle etichette, “non ha comportato per Busto nuovo indebitamento o l’assunzione di nuove spese” (§341), nonostante i bilanci dell’ente dicano esattamente il contrario.

Questa ben precisa scelta, diametralmente opposta a quella di Cattolica, ha l’ulteriore conseguenza di frustrare la funzione nomofilattica delle Sezioni Unite nell’ordinamento interno. Come si è già accennato [27], l’Alta Corte era ben conscia del fatto che Cattolica costituisce l’approdo di un percorso interpretativo costellato di decisioni contrastanti, fra le quali una isolata decisione del Consiglio di Stato che, partendo proprio da un approccio formalistico allo strumento, aveva concluso, esattamente come fa la Corte inglese, per la competenza della Giunta, non del Consiglio [28]. Su tale contrasto giurisprudenziale l’Alta Corte, facendo ricorso all’espediente retorico della excusatio non petita, si sente in dovere di precisare che, a suo avviso, il contrasto tra Cattolica e la citata decisione del Consiglio di Stato è più apparente che reale (§330), con il che ritenendo di poter conciliare l’inconciliabile: e cioè, il rispetto formale che occorre tributare, in applicazione del principio di comity, alla più alta Corte di uno Stato sovrano e amico, da un lato, con l’accoglimento di una opzione interpretativa che la stessa Corte straniera aveva rigettato in sede di risoluzione di un conflitto su questioni giuridiche della massima importanza per il suo diritto interno, dall’altro.

Per l’Alta Corte, dunque, la delibera del Consiglio Comunale non era necessaria alla luce delle circostanze del caso e, si desume dalla motivazione, in tutti quei casi in cui l’effetto voluto del derivato non sia quello di contrarre nuovo indebitamento; peraltro, si aggiunge, anche se si dovesse ritenere la delibera del Consiglio necessaria, essa può agevolmente essere individuata in quelle delibere consiliari di mero indirizzo che, nella meccanica delle operazioni di swap stipulati dagli enti locali, di solito precedevano la stessa fase della presentazione delle offerte da parte degli intermediari finanziari (§364).

La conclusione della Corte inglese sul punto è davvero difficile da accettare, se non altro perché si scontra con le più basilari nozioni del diritto amministrativo italiano. È di poco o nullo aiuto invocare a sua giustificazione, come fa il giudice inglese, la ritenuta (e delineata in modo alquanto semplicistico) suddivisione dei compiti tra Consiglio e Giunta, con il Consiglio deputato alla fissazione delle policies generali dell’ente e la Giunta alla loro implementazione mediante il ricorso a una ragionevole misura di discrezionalità amministrativa [29]. Qui, piuttosto, rilevano gli elementi essenziali dell’atto amministrativo, tra i quali vi sono il destinatario, l’oggetto e la dichiarazione di volontà. Ciò pedantemente premesso, può una delibera consiliare che si limiti a impegnare l’ente a valutare, in via del tutto generale, il ricorso allo strumento dei derivati, ed emanata prima della stessa ricezione delle offerte e della individuazione dell’intermediario finanziario con cui concludere l’operazione (e si tace sull’assenza dei termini specifici della stessa) valere come atto amministrativo di autorizzazione alla stipula? Sul punto, l’Alta Corte si dice convinta che difficilmente un tribunale italiano seguirebbe l’opposta soluzione (§360), ma è smentita per tabulas da ciò che avvenne nel giudizio di Cattolica, in cui già in sede di appello l’argomento della equiparabilità della delibera di indirizzo a quella autorizzativa fu rigettato proprio per le ragioni sopra segnalate [30].

Vi è da dire, peraltro, che la strada di una declaratoria di invalidità dei derivati regolati dalla legge inglese alla luce della necessità della delibera consiliare sarebbe stata preclusa in ogni caso.

Nel caso in cui la delibera del Consiglio sia ritenuta necessaria, e manchi, l’Alta Corte ritiene che detta mancanza non configuri una situazione di incapacità a contrattare dell’ente. Presa isolatamente, tale conclusione non è incoerente con il generale trattamento che le violazioni delle regole di competenza interna all’ente ricevono nel sistema positivo italiano, che infatti, come è noto, sono sanzionate con la mera annullabilità dell’atto amministrativo.

Cattolica, peraltro, ha sancito la nullità degli atti autorizzativi deliberati da organi diversi dal Consiglio: una soluzione, questa, che in quanto innovativa avrebbe meritato un passaggio esplicativo, che però manca. Ed è in questa mancanza che si incunea la Corte inglese, la quale, sia pure nelle forme di un obiter dictum, conclude per la mera annullabilità dell’atto autorizzativo non assunto dal Consiglio (§370): un ulteriore colpo assestato a Cattolica, nonché la pietra tombale su qualsiasi argomentazione che, facendo analogicamente perno sul trattamento sanzionatorio degli atti autorizzativi di spese prive di copertura [31], voglia costruttivamente interpretare la nullità enunciata dalle Sezioni Unite come una specie di difetto di attribuzione.

La ratifica

Ed è a questo punto che l’Alta Corte cala la definitiva scure della ratifica. Non sussistendo questioni di capacity, ma piuttosto di authority (questioni, cioè, relative al supposto cattivo utilizzo dei poteri da parte di organi interni all’ente, da risolversi secondo le regole sulla rappresentanza), esse devono essere risolte, sulla scorta delle norme di diritto internazionale privato applicabili alla fattispecie, sulla base della law of agency inglese. Secondo l’Alta Corte, quand’anche i contratti fossero ritenuti invalidi perché non autorizzati inizialmente dal Consiglio Comunale, essi devono ritenersi comunque ratificati dal Consiglio alla luce di comportamenti concludenti quale il riconoscimento della loro esistenza nei successivi bilanci, il loro costante adempimento in corso di rapporto e la mancata adozione da parte dell’ente di provvedimenti amministrativi di annullamento in autotutela delle delibere di autorizzazione assunte come invalide (§384). Una soluzione impraticabile per il diritto sostanziale italiano, sia civile che amministrativo, ma ben possibile, a detta della Corte, per il (molto più permissivo al riguardo) diritto sostanziale inglese.

Il contenzioso sui derivati degli enti locali davanti alla Corti inglesi: uno sguardo d’insieme

Nel 1992, con la decisione nel caso Hammersmith, la House of Lords dichiarò nulli per mancanza di capacity i derivati stipulati dagli enti locali britannici. Tutt’altra sorte, salvo rarissime eccezioni [32], hanno invece scontato i derivati dei vari enti locali stranieri (non solo italiani) che, dopo la crisi finanziaria del 2008 e il tracollo dei tassi di interesse che ne è conseguito, hanno inutilmente chiesto alle Corti inglesi lo stesso tipo di decisione, nel tentativo di liberarsi di strumenti che, costruiti sulla opposta aspettativa di un rialzo dei tassi di interesse, impattano pesantemente, e continueranno a farlo per molti anni a venire, sulle già sofferenti finanze degli enti locali. A questo punto, maliziosamente si potrebbe suggerire che nelle Corti inglesi la lack of capacity si applica per gli enti locali domestici e si interpreta per quelli stranieri. Sennonché, si tratterebbe di osservazione alquanto qualunquistica, essendo la realtà, come sempre, più complessa.

Il diritto sostanziale inglese è il diritto scelto per le transazioni internazionali nei settori del banking and finance, assicurativo e dello shipping. L’indubitabile prestigio globale di cui gode non è necessariamente dato dalla sua maggiore razionalità rispetto ad altri diritti nazionali, bensì dalla sua stabilità; e tale stabilità dipende non solo e non tanto dall’applicazione a livello processuale della dottrina del precedente vincolante, ma anche e soprattutto dal fatto che, a differenza dei sistemi di civil law, esso relega le interferenze giudiziali nel regolamento contrattuale a ipotesi del tutto residuali, esaltando così la libertà delle parti e l’indisturbato fluire dei traffici commerciali.

Nei menzionati settori, poi, questa caratteristica è oltremodo rafforzata tramite l’adozione di contratti altamente standardizzati (si pensi all’ISDA Master Agreement, che costituisce il framework contrattuale di elezione per i contratti derivati), frutto dell’elaborazione (anche interpretativa) da parte delle associazioni rappresentative dei player del settore industriale di riferimento e volontariamente applicati nelle transazioni tra gli associati. Si tratta, nei fatti, di un diritto sovranazionale “ospitato” dal diritto sostanziale inglese per via delle caratteristiche di stabilità, e di flessibilità, a questo connaturate. Grazie a tutto ciò, l’altrettanto prestigioso settore dei servizi legali della City di Londra attrae eccellenze professionali da tutto il mondo e prospera con fatturati astronomici, in costante crescita.

Di questo assetto le Corti inglesi sono le religiose custodi. La peculiare estrazione professionale dei giudici delle Corti commerciali, i quali, salvo pochissime eccezioni, sono tutti ex Barrister provenienti dalle più rinomate Chambers del Miglio Quadrato, esclude all’origine quella conflittualità tra ceto giudiziario e ceto forense che spesso si osserva nei sistemi giudiziari continentali. Ne deriva una omogeneità culturale (che, a scanso di equivoci, non impatta sull’integrità, che è invece di esempio per qualsiasi giurisdizione) che agevola, oltre alla stabilità del diritto sostanziale, la prevedibilità delle decisioni, fondamentale in un mondo globalizzato che ha più che mai bisogno di certezza nel regolamento di interessi transnazionali diversi e spesso confliggenti.

La dottrina britannica, che meritoriamente non ha timore di contaminare l’analisi giuridica con le osservazioni provenienti dalle altre scienze sociali, raffigura le Corti inglesi come un efficace strumento nazionale di tutela degli asset strategici del Paese (banca e finanza, assicurativo, shipping, indipendentemente dalla provenienza geografica dei singoli soggetti economici) [33]. A tale riguardo, studi condotti da ricercatori di università britanniche di prestigio mondiale paiono dimostrare, sulla base di estese ricerche sul materiale giurisprudenziale delle Corti commerciali, che le decisioni su questioni nevralgiche quali la legge sostanziale applicabile ai contratti differiscono notevolmente a seconda del coinvolgimento o meno delle industrie strategiche nei relativi giudizi, privilegiando nel primo caso scelte interpretative che, affermando anche in casi dubbi  l’applicazione del diritto sostanziale inglese, mantengono il pieno controllo della sua evoluzione giurisprudenziale e ne perpetuano la supremazia nel regolamento dei traffici commerciali globali [34].

Tornando per un attimo alla decisione in commento, effettivamente alcuni suoi passaggi risultano comprensibili soltanto prendendo per buone le riflessioni della dottrina britannica. Ad esempio, nel dare conto della decisione nel caso Hammersmith, l’Alta Corte si premura di ricordare che tale decisione “non fu presa bene dalla comunità bancaria”, e poi cita a supporto il passaggio di un coevo rapporto della Banca d’Inghilterra che, esprimendosi in termini critici su Hazell, faceva presente che “se i mercati di questo Paese vorranno continuare a prosperare e a innovare come hanno fatto in passato, è essenziale che i suoi partecipanti siano il quanto più possibile certi che la validità di quello che stanno facendo sarà confermata dalla legge” (§94). Il lettore continentale si chiederà, a questo punto, perché il giudice inglese abbia ritenuto di valorizzare nel contesto della decisione l’accoglimento critico di Hazell nella comunità bancaria e non quello, si presuppone opposto, che essa ricevette tra gli enti locali, e tra i cittadini di quelle comunità, che di quella sentenza si giovarono. Forse perché, per dirla alla Calamandrei, nella scelta del tema vi è già la confessione di una preferenza?

La verità è che la sentenza nel caso Hammersmith è stata vissuta come un vero proprio shock nel sistema legale inglese e mai digerita fino in fondo. Da quel momento in poi, nei giudizi sui derivati stipulati da enti stranieri le Corti inglesi hanno potentemente serrato i ranghi giurisprudenziali. Le concessioni alle difese basate sull’ultra vires sono state rarissime, nel tentativo – perfettamente riuscito – di isolare e neutralizzare un agente patogeno esterno (e dunque non controllabile, in quanto regolato dalla legge del place of incorporation dell’ente), vissuto, esattamente come ai tempi di Hazell, come un elemento che attenta alla stabilità dei contratti, alla prevedibilità delle decisioni e – almeno a seguire il ragionamento della dottrina d’oltremanica – alla supremazia globale del diritto sostanziale inglese. Le opzioni interpretative utilizzate allo scopo variano da caso a caso, anche a seconda del diritto straniero applicabile alle questioni di capacity di volta in volta affrontate, ma sono tutte espressione di “sovranismo giudiziario” paradossalmente applicato a un diritto sostanziale che si propone di essere di respiro globale. Di sicuro, il peculiare meccanismo processuale dell’accertamento del diritto straniero, che si traduce in un vero e proprio “subappalto” alle parti processuali di una così delicata questione, in un ambito nel quale il principio dispositivo puro pare mal conciliarsi con le esigenze internazionalpubblicistiche della leale cooperazione tra Stati in materia giudiziaria, ha svolto una formidabile funzione di supporto.

Conclusioni

Si preannunciano scenari incerti per gli enti locali italiani con derivati sottoposti alla legge inglese, stretti tra le sollecitazioni delle sezioni regionali della Corte dei Conti in sede di controllo, che iniziano a chiedere conto delle iniziative processuali che si intendono intraprendere alla luce di Cattolica, e la preoccupazione per gli alti costi che il contenzioso davanti alle Corti inglesi comporta. A ciò si aggiungono le indicazioni provenienti dalla decisione in commento, il primo test sulla tenuta di Cattolica con riguardo ai contratti regolati dalla legge inglese: come si è visto, il suo impianto complessivo non ha trovato accoglimento. E per quanto tutte le sue conclusioni siano formalmente riproponibili nei successivi giudizi, per via della già segnalata natura di questione di fatto dell’accertamento della legge straniera nel processo civile inglese, esse avranno in concreto vita dura.

In ogni caso, e come notazione finale, risalta un interrogativo fondamentale in quanto di rilevanza sistemica: e cioè se sia compatibile con l’ordine pubblico interno, e dunque riconoscibile, una decisione che, sicuramente al di là delle intenzioni, entra a gamba tesa nel contesto delle regole costituzionali di finanza pubblica, di fatto creando un sistema parallelo di finanza locale per così dire offshore nel quale, in virtù di una mera scelta contrattuale sulla legge sostanziale applicabile, si sottraggono operazioni finanziarie intrinsecamente disarmoniche con il requisito della certezza degli impegni di spesa al doveroso vaglio di legalità interno. È un quesito che, si ritiene, avrà una qualche eco nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale che si svilupperà sulla sentenza in commento.

 

[*] L’Autore ha rappresentato il Comune di Busto Arsizio nel giudizio da cui è scaturita la decisione in commento. Le opinioni qui espresse dall’Autore sono strettamente personali e non impegnano in alcun modo e in alcuna sede la parte assistita.

[1] Cfr. Cass. SS.UU., 12 maggio 2020 n. 8770, che da ora in poi si abbrevierà in “Cattolica” in quanto emessa nel giudizio tra la Banca Nazionale del Lavoro e il Comune di Cattolica.

[2] Cfr. Maffeis, L’ufficio di diritto privato dell’intermediario e il contratto derivato over the counter come scommessa razionale, in Swap tra banche e clienti – I contratti e le condotte, a cura dell’A., Giuffrè, 2014, 3 ss.

[3] Cfr., da ultimo, Cass. I sez., 29 luglio 2021 n. 21830, nella quale si afferma che nonostante la decisione delle Sezioni Unite riguardi un rapporto contrattuale di una banca con un ente pubblico e sia incentrata sulla rilevanza di tali elementi in relazione alla specifica normativa di settore, è innegabile che le affermazioni ivi formulate debbano rivestire portata generale(§2.8.9).

[4] V. Sucameli, Derivati nulli: le Sezioni Unite declinano il contratto dentro il principio dell’accountability e danno luogo a un caso “Hammersmith” italiano, in Diritto e Conti, edizione online del 26 maggio 2020.

[5] Cfr. Cass. SS.UU., 12 maggio 2020 n. 8770, cit., §8.

[6] Ivi, §8.1.

[7] Ivi, §9.8.

[8] Ivi, §10.

[9] V. Dicey, Morris & Collins on the Conflicts of Laws, 15th Edition, Sweet & Maxwell, 2012, r.9-015. Ai sensi dell’art. 14 l. 218/1995, invece, nel processo civile italiano l’accertamento della legge straniera è compiuto d’ufficio dal giudice.

[10] Il riferimento è al giudizio tra Dexia Crediop S.p.a. e il Comune di Prato, che ha poi dato luogo alla decisione Dexia Crediop S.p.A. v Comune di Prato [2015] EWHC 1746 (Comm).

[11] Ci si riferisce a App. Bologna, 11 marzo 2014 (dep.) n. 734.

[12] Dexia Crediop S.p.A. v Comune di Prato [2015], cit., §128.

[13] Dexia Crediop S.p.A. v Comune di Prato [2015], cit., §157.

[14] Come è noto, il sistema legale inglese applica la dottrina del binding precedent o stare decisis, per cui le Corti sono vincolate dalle decisioni delle Corti di più alto grado che si siano già espresse sulle medesime questioni. Peraltro, tale meccanismo trova di fatto applicazione anche nei rapporti tra le decisioni dell’Alta Corte (che è giudice di primo grado), nel senso che sono molto rari i casi in cui l’Alta Corte si discosta da sue precedenti decisioni sulle stesse questioni.

[15] Cfr. Guaranty Trust Company of New York v Hannay [1918] 2 K.B. 623, 638-639.

[16] V.§132 della decisione, nella quale si dà debitamente conto dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite (cfr. Cass. I sez. (ord.) 10 gennaio 2019 (dep.) n. 493) e dell’esistente conflitto tra decisioni di varie autorità giudiziarie che le Sezioni Unite venivano così chiamate a risolvere.

[17] Cfr. Corte Cost. 18 febbraio 2010 n. 52.

[18] Cfr. Cass. SS.UU., 12 maggio 2020 n. 8770, cit., §§8.1-8.2.

[19] Eppure, l’Alta Corte ha avuto modo di valutare la nota Corte Cost. 15 gennaio 2013 n.1, in particolare in quel passaggio (§10) in cui si afferma che L’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative, metodo primitivo sempre, lo è ancor più se oggetto della ricostruzione ermeneutica sono le disposizioni costituzionali, che contengono norme basate su principi fondamentali indispensabili per il regolare funzionamento delle istituzioni della Repubblica democratica.

[20] Cass. SS.UU., 12 maggio 2020 n. 8770, cit., da §9 a §9.8.

[21] A conferma dell’erroneità dell’interpretazione di questo specifico punto di Cattolica da parte del giudice inglese basti considerare la successiva giurisprudenza di legittimità, la quale, confermando in pieno le conclusioni delle Sezioni Unite, afferma che Non si tratta, allora, di semplice violazione di obblighi informativi (come tale idonea a determinare solo eventuali responsabilità risarcitorie. Cfr. Cass., SU, n. 26724 del 2007; Cass. n. 8462 del 2014), ma di una carenza che – tenuto conto delle descritte peculiarità caratterizzanti la causa e l’oggetto dello strumento in esame, nonchè delle innegabili interazioni tra essi configurabili – investe proprio l’essenza (di una parte) dell’accordo, vale a dire del contratto medesimo (quest’ultimo consistendo, appunto, in un “accordo”. Cfr. art. 1321 c.c. e art. 1325 c.c., n. 1), così da cagionarne la nullità (il dovere di informazione, invece, è fuori del contratto ed è oggetto di mera obbligazione di una delle parti, sanzionata, come si è già detto, con la responsabilità per i danni, e non con la nullità)(Cass. I sez., 29 luglio 2021 n. 21830, cit., §2.8.7).

[22] V. Cass. SS.UU., 12 maggio 2020 n. 8770, cit., da §10 a §10.8.

[23] Cfr. la Circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze 22 giugno 2007 n. 63013, in Gazz. Uff., serie gen., 2 luglio 2007 n. 151.

[24] Cfr. Hazell v. Hammersmith and Fulham London Borough Council [1992] 2 A.C. 1, che per la sua importanza è stata commentata anche in Italia: v. Catalano, “Swaps”: pregiudizi inglesi e (prospettive di) disciplina italiana, in Foro it., 1992, IV, 309.

[25] Ivi, p. 45(G).

[26] Cfr. Cass. SS.UU., 12 maggio 2020 n. 8770, cit., §10.1.4.

[27] V. supra, nota sub 16.

[28] Cfr. Cons. Stato V sez., 30 giugno 2017 n. 3174.

[29] La ricostruzione dell’Alta Corte, che raffigura un sistema di riparto di competenze interne all’ente per cui il Consiglio può delegare attività di sua competenza alla Giunta (sicché, nello specifico, l’atto autorizzativo della Giunta sarebbe una sorta di “atto delegato” della delibera consiliare di indirizzo), è smentita da autorevole dottrina, secondo cui le attività di competenza del Consiglio non possono essere delegate ad altri organi dell’ente (cfr. Falcon, Lineamenti di diritto pubblico, 13° ed., Cedam, 2014, 367).

[30] Cfr. App. Bologna, 11 marzo 2014 n. 734, cit., §4.2.

[31] Si veda, al riguardo, l’art. 191 commi 1 e 4 TUEL, secondo cui Gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l’impegno contabile registrato sul competente programma del bilancio di previsione e l’attestazione della copertura finanziaria e Nel caso in cui vi è stata l’acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell’art. 194, comma 1, lettera e ), tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura.

[32] Cfr. Haugesund Kommune v Depfa ACS Bank [2010] EWCA Civ 579.

[33] Cfr. Braithwhite, The Financial Courts – Adjudicating Disputes in Derivatives Market, Cambridge University Press, 2020, §2.4.1 (Kindle Edition).

[34] Cfr. gli studi internazionalprivatistici di Penadés Fons citati da Braithwhite, ibid.. Più tranchant, invece, la dottrina internazionalprivatistica continentale, che ad esempio, nel commentare due decisioni dell’Alta Corte relative a swap stipulati da enti locali europei (uno dei quali, tra l’altro, italiano), ha affermato senza mezzi termini: “Non bisogna lasciarsi ingannare: la questione al cuore dei casi Santander e Dexia è, molto più prosaicamente, quella della promozione degli interessi economici della City di Londra come centro finanziario, e degli avvocati inglesi” (Cuniberti, Choice of Law in Domestic Contracts: Towards a Right to Access Foreign Financial Markets, in Muir Watt e altri, Global Private International Law: Adjudication without Frontiers, Edward Elgar Publishing, 2019, 469).

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