SOMMARIO: Il contributo propone alcune riflessioni in tema di ius variandi bancario e clausole originariamente «valorizzate a zero», con riguardo al conflitto, allo stato, per così dire, latente, che si è venuto a formare tra la giurisprudenza ordinaria e l’ABF a margine della sentenza del Tribunale di Milano del 10 ottobre 2023 e della precedente decisione del Collegio di Coordinamento n. 6781 del 3 luglio 2023, da ultimo intervenuto a comporre il contrasto formatosi sul punto tra i diversi Collegi territoriali. In particolare, la sentenza del Tribunale in commento – che si caratterizza per essere, a quanto consta, il primo intervento del giudice ordinario sulla questione, invero già più volte al centro di numerose decisioni dell’ABF – si pronuncia in merito alla riconducibilità della modifica unilaterale del contratto ad oggetto condizioni economiche sin dall’origine valorizzate con un’indicazione numerica pari a «zero» alla previsione di cui all’art. 118 T.U.B., stabilendo che l’indicazione a zero per un servizio comunque prestato vada interpretata come mera assenza di una remunerazione per una prestazione già prevista e, dunque, legittimamente modificabile ex uno latere. Nel merito, tuttavia, la decisione non appare pienamente condivisibile, segnatamente con riguardo all’interpretazione che dovrebbe opportunamente fornirsi del concetto di «preesistenza» di cui all’art. 118 TUB, ed al connesso divieto di «clausole nuove», nonché al binomio onerosità/gratuità del contratto.
ABSTRACT: The contribution contains some reflections about ius variandi respect to clauses originally with value equal to zero, with regard to the conflict that has come to form between the ordinary justice and the Banking and Financial Ombudsman. In particular, the sentence of the Court of Milan under comment – which is characterized for being the first intervention of the ordinary judge on the issue, indeed already the focus of several decisions of the Banking and Financial Ombudsman – pronounces on the traceability of the unilateral modification of the contract concerning economic conditions from the beginning with a value equal to zero to the provision of Article 118 T.U.B., establishing that when the parties agreed value of zero for a service provided it should be interpreted as the mere absence of remuneration for that service, hence its cost could be legitimately unilateral increase by the bank although not initially planned by the parties. However, the decision does not appear to be fully supportable, particularly with regard to the interpretation that should appropriately be given to the concept of “pre-existence” inferred in Article 118 TUB, as well as to the onerousness/gratuitousness binomial of the contract.
1. La questione oggetto della decisione
Il Tribunale di Milano, con la sentenza in commento, è intervenuto sulla questione relativa alla riconducibilità della modifica unilaterale del contratto relativa a condizioni economiche sin dall’origine valorizzate con un’indicazione numerica pari a «zero» alla previsione di cui all’art. 118 T.U.B., il quale come noto prevede «la facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni previste dal contratto»[1].
La questione, per la prima volta al vaglio del giudice ordinario, è invero già stata più volte al centro di numerose decisioni dell’ABF e, da ultimo, sottoposta anche al Collegio di Coordinamento il quale, con la decisione n. 6781 del 3 luglio 2023[2], è intervenuto a comporre il contrasto di orientamenti[3] in precedenza formatosi tra i diversi Collegi territoriali.
In particolare, la vicenda oggetto della pronuncia in esame trae origine dalla modifica unilaterale, operata dalla banca e poi censurata dal cliente davanti all’Arbitro Bancario, della clausola relativa al prezzo per il servizio di liquidazione trimestrale, in principio pattuito in euro «zero» e peraltro – il punto, come si vedrà, non è privo di conseguenze – pubblicizzato come tale «per sempre».
A fronte della decisione a sé sfavorevole emessa dall’ABF, la banca decideva di adire il Tribunale proponendo una domanda di mero accertamento con cui si chiedeva – nuovamente, ma questa volta al giudice ordinario – di pronunciarsi in ordine alla legittimità o meno, alla luce del disposto dell’art. 118 TUB, dell’aumento del prezzo operato dalla banca, aumento come detto già contestato vittoriosamente dal cliente dinanzi all’ABF[4].
2. I divergenti orientamenti dell’ABF in tema di ius variandi in caso di costi pari a “zero” in cui si inserisce la decisione del Tribunale di Milano
Al centro della decisione in esame vi è dunque la modifica unilaterale di una clausola formalmente prevista nel regolamento contrattuale ma di fatto «non valorizzata» (ovvero, riprendendo i due poli del dibattitto di cui subito di dirà, «valorizzata a zero»).
Come anticipato, prima della richiamata pronuncia del Collegio di coordinamento, sullo ius variandi della banca in caso di costi pari a “zero” si registravano – all’interno dell’Arbitro Bancario, essendo tale questione approdata per la prima volta al giudice ordinario solo con la vicenda oggetto della sentenza in commento – decisioni difformi, che si spiegano essenzialmente in ragione di una diversa interpretazione, nell’un caso più restrittiva o, all’inverso, più estensiva, dell’art. 118 TUB e del connesso divieto di «clausole nuove».
Ripercorrendo per un attimo le fila del dibattito, brevemente ripreso anche dal giudice meneghino, stando a un primo prevalente orientamento, in presenza di una voce di costo valorizzata a «zero» nella documentazione contrattuale, l’esercizio dello ius variandi non potrebbe aver luogo, posto che «menzionare una commissione avvalorandola a costo zero almeno [equivale] a non imporre oneri di quel genere»[5].
Tuttavia, molte delle fattispecie decise in tal senso dall’ABF presentavano un carattere peculiare (e invero condiviso anche dal caso deciso dal Tribunale), in quanto la pubblicizzazione del costo zero era stata in quei casi operata con l’aggiunta della precisazione «per sempre», salvo poi la smentita di fatto da parte della banca al momento dell’esercizio dello ius variandi[6].
Un secondo orientamento invece, seppure minoritario, ha ritenuto all’opposto senz’altro ammissibile la modifica (in peius) del costo del servizio in origine pattuito a zero, ponendo più semplicemente l’accento sull’inserimento della clausola medesima nel regolamento contrattuale e ritenendo invece irrilevante la sua originaria valorizzazione a zero; tale ultimo valore, in questo senso, dovrebbe considerarsi alla stregua di qualsivoglia altro valore positivo[7].
Di conseguenza, secondo tale diversa prospettazione, qualunque aumento – anche se relativo ad un valore inizialmente pari a zero – non costituisce giammai l’introduzione ex novo di un onere economico, ma più semplicemente una modifica di una pattuizione già esistente nel regolamento accettato dalle parti, come tale legittimamente introdotta secondo quanto previsto dall’art. 118 TUB.
Il Tribunale, dichiaratamente aderendo al secondo dei due orientamenti appena richiamati, ha ritenuto che, nella specie, la banca avesse legittimamente esercitato il potere di modifica unilaterale ai sensi dell’art. 118 TUB: il giudice ordinario ha ritenuto in sostanza che l’indicazione a zero per un servizio comunque prestato vada interpretata come mera assenza di una remunerazione per una prestazione già prevista e, dunque, legittimamente modificabile ex uno latere.
La decisione tuttavia non appare pienamente condivisibile, per le ragioni che si proveranno subito ad illustrare.
3. Alcune riflessioni in tema di «preesistenza» della clausola oggetto della modifica unilaterale
L’adesione all’uno o all’altro degli orientamenti in campo presuppone considerazioni lato sensu regolatorie: ammettere che la mera introduzione di una condizione economica consenta sempre all’intermediario la modifica unilaterale, nel senso dell’addebito di ulteriori costi al cliente inizialmente non previsti nel contratto, espone il mercato a pratiche commerciali opportunistiche da parte degli intermediari, i quali infatti, forti di proposte inizialmente del tutto convenienti per il cliente, potrebbero poi successivamente – una volta acquisito in tal modo il nuovo cliente – procedere con una politica di aumento dei costi anzitempo programmata.
D’altra parte, considerare come inesistente una condizione economica inizialmente «valorizzata a zero» – oltre a rappresentare una certa forzatura – potrebbe tradursi, da un lato, in un (ingiustificato) eccesso di tutela per il consumatore, e dall’altro in un aprioristico aggravio per l’intermediario, al quale sarebbe in ogni caso preclusa ogni modifica di tale condizione, anche se in ipotesi pienamente giustificata da future sopravvenienze[8]. L’attività svolta dagli intermediari è soggetta all’incidenza di azioni esterne (es. manovre di politica economica ovvero interventi normativi del legislatore nazionale e sovranazionale), che possono comportare aggravi in termini di ulteriori costi, sicché occorre anche considerare l’esigenza degli operatori di gestire le sopravvenienze ed evitare che tale attività diventi per essi antieconomica[9]. Più in generale, poi, non vanno dimenticate le peculiarità del contesto ove operano gli intermediari, che impongono pur sempre una certa prudenza, al fine di assicurare la necessaria stabilità ed efficienza del sistema bancario, a tutela della stessa collettività[10].
A parere di chi scrive, tuttavia, diviene al riguardo dirimente l’interpretazione del presupposto della «preesistenza» della clausola oggetto di ius variandi, atteso che l’opinione consolidata in tema (anche dell’ABF) è storicamente quella di ritenere che mediante il meccanismo riconosciuto all’intermediario dall’art. 118 TUB, in quanto eccezione alla regola generale della forza di legge tra le parti del contratto e della sua immodificabilità senza il consenso di entrambe[11], si possano modificare solo clausole contrattuali – sia di carattere economico che normative – già esistenti, mentre non possono essere introdotte «clausole nuove», tali da incidere in maniera sostanziale sull’equilibrio contrattuale, modificandone addirittura parzialmente la natura[12].
In questa prospettiva, la questione non può che risolversi nel senso che la clausola oggetto della modifica unilaterale non sarebbe da considerarsi preesistente – non solo, com’è chiaro, quando essa non sia materialmente inserita nel regolamento contrattuale ma – anche quando, pur scritta nel contratto e specificamente approvata dal cliente, essa sia inizialmente valorizzata a “zero” dall’intermediario, al quale dunque non sarebbe consentito successivamente attribuire un numero diverso da zero mediante il ricorso alla facoltà prevista dall’art. 118 TUB[13].
Il punto è che la modifica in positivo di un elemento prima non valorizzato (ovvero valorizzato «a zero») comporta all’evidenza l’introduzione ex novo – non di una «clausola» bensì – di un «costo» nel contratto (pur riferito ad una clausola già dedotta) che non era pattuito nell’assetto originario determinato dalle parti. In questo senso, la variazione non si pone come mera modifica di oneri già previsti nel contratto e realizza, così, un’alterazione del sinallagma negoziale in senso certamente sfavorevole al cliente.
Le clausole pattuite in origine nel regolamento ma non valorizzate pongono dunque all’interprete una questione interpretativa di non poco conto, legata all’individuazione degli esatti confini del concetto di preesistenza: se, cioè, ai fini dello ius variandi, esso debba riguardare il costo in sé o la condizione che lo giustifica.
In altre parole, occorre chiedersi se il divieto di introduzione di clausole nuove, da ricondursi come noto all’ultima novella del legislatore in tema, debba riferirsi alle condizioni contrattuali – nel senso di prestazioni o pattuizioni cui è in astratto riferibile il correlativo costo – già esistenti, ovvero invece come riguardante – piuttosto che la previsione in sé – il costo che la singola pattuizione produce a carico del cliente.
La risposta nell’un senso, o nell’altro, non può che condurre a soluzioni diametralmente opposte.
Per provare a fornire una risposta occorre dunque indagare quale sia effettivamente la ratio della norma su cui il divieto si fonda. Al riguardo, si deve considerare che, quantomeno per come è stata sin dalla sua introduzione interpretata, essa si è risolta nel maggiore equilibrio tra le parti e, più propriamente, nella maggiore tutela della parte per definizione ritenuta più debole, sì scongiurando l’aggiunta di ulteriori costi non previsti (e non giustificati) per il cliente. Se così è – e ciò non pare facilmente revocabile in dubbio – rimarrebbe del tutto secondaria la mera preesistenza nel contratto della condizione cui il nuovo costo accede.
V’è, in altri termini, sullo sfondo una certa opportunità di evitare interpretazioni eccessivamente formalistiche del concetto di «preesistenza» (o – il che è lo stesso – di «novità») volte a ritenere che la clausola, per il sol fatto che esista graficamente, possa per questo legittimare modifiche unilaterali comportanti l’introduzione di «nuovi costi», pur se fondate da giustificati motivi[14]. Deve invece preferirsi una lettura sostanziale della norma e dei requisiti che la stessa pone[15]: secondo un’interpretazione di questo tipo, la “preesistenza” della condizione non può dirsi infatti integrata per il fatto che la relativa clausola valorizzata a zero fosse in origine inserita nel contratto; mentre diventa dirimente verificare in concreto l’aggravio che la modifica comporti a scapito del cliente, il quale non può coincidere con l’inserimento di un costo prima non pattuito.
In questa prospettiva, si deve dunque ritenere che, in ipotesi del tipo in commento, è il costo a dover preesistere, e non – secondo una interpretazione formalisticamente tanto rigorosa quanto non espressamente predicata dal legislatore della riforma, avuto riguardo all’interesse che lo ha animato – la condizione contrattuale da cui discenderebbe.
La questione, del resto, va affrontata con un certo scrupolo, se si considera la natura che assume nel nostro ordinamento lo ius variandi, il quale si pone in deroga rispetto al principio, sancito dall’art. 1372 c.c., per cui il contratto ha forza di legge tra le parti. Anche per questo, allora, il vaglio sull’eventuale novità derivanti dall’esercizio dello ius variandi deve presupporre il raffronto della proposta di modifica con il regolamento contrattuale originariamente pattuito dalle parti e l’analisi in concreto degli effetti di tale modifica sul sinallagma.
4. Segue: La rilevanza causale dello “zero”
La decisione del Tribunale, peraltro, non convince appieno anche laddove quest’ultimo, a sostegno dei propri assunti, ritiene non sussistere «differenze ontologiche tra tale variazione ed il passaggio dal costo zero al costo x di uno dei servizi prestati». E ciò per un ulteriore e diverso ordine di ragioni e, in particolare, avuto riguardo al tradizionale binomio onerosità/gratuità del contratto.
A dispetto di quanto ivi affermato, non può non rilevarsi una certa differenza tra il rendere oneroso un servizio prima gratuito e maggiorare l’onere di un servizio già in principio oneroso, quantomeno quando il servizio medesimo sia annoverabile tra le prestazioni principali del rapporto: in simili casi, la modifica unilaterale – lungi dall’essere irrilevante o neutra – è idonea ad incidere sulla natura stessa del contratto.
Ciò vale, ad esempio, per l’ipotesi in cui la modifica unilaterale riguardi la clausola relativa al canone annuo di un contratto di conto corrente, come accaduto in diversi dei precedenti dell’ABF e, da ultimo, anche nel caso sottoposto al richiamato Collegio di coordinamento: a fronte di una clausola siffatta, infatti, il contratto di conto corrente deve ritenersi senz’altro pattuito a titolo gratuito, in quanto non bilanciato, né giustificato, da una controprestazione del cliente[16].
Del resto, come è stato efficacemente rilevato, lo “zero” è misura che, già sul piano semantico, rappresenta che ciò a cui la cifra viene nel concreto riferita è una attività di ordine gratuito e non già oneroso, e pertanto «non può essere dubbio … che l’adozione – in corso di contratto – di un valore positivo a fronte dello svolgimento di un’attività o di un servizio, che in precedenza era valorizzato a zero, comporti il transito da un’attività, o servizio, di natura gratuita a un’attività, o servizio, di natura per contro onerosa»[17].
Se così è, allora, la modifica in aumento del costo indicato in tale clausola comporta un mutamento della natura della prestazione, che da gratuita diviene onerosa, finendo in tal modo per incidere sulla causa stessa del contratto.
Tuttavia, l’art. 118 T.U.B., nel consentire la facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e, in genere, le altre «condizioni» previste dal contratto, in nessun modo consente la modifica della tipologia del contratto stipulato: in altri termini, la norma consente una variazione – di natura quantitativa – dell’oggetto del contratto (in ipotesi, il corrispettivo per il servizio) ma giammai quella – qualitativa – della sua causa.
Del resto, nella letteratura, con il sintagma ius variandi si indica il diritto potestativo riconosciuto a una parte di apportare in via unilaterale modifiche discrezionali al rapporto contrattuale, rideterminandone il contenuto. La stessa definizione dello ius variandi generalmente riconosciuta consente dunque di individuarne subito, in negativo, il limite, con riguardo agli elementi su cui si può appuntare la modifica ex uno latere.
Come si è appena detto, il potere di modifica unilaterale riguarda le «condizioni» economiche e normative del contratto, i suoi elementi contenutistici e, quindi, secondo la terminologia assunta dal Codice civile, «l’oggetto» del contratto. Ed infatti, la dottrina che, sin dagli albori ed in contrapposizione alle tesi più intransigenti, ne sosteneva la sua liceità e meritevolezza rilevava proprio che il diritto potestativo di variazione del contenuto contrattuale era pur sempre oggetto dell’accordo iniziale e che l’art. 1346 c.c. certamente consentiva che il contratto avesse un oggetto anche indeterminato purché determinabile[18].
Giammai al potere di ius variandi è invece (stato) consentito di incidere sulla causa del contratto, elemento com’è chiaro del tutto distinto da quello del suo contenuto[19].
Ne consegue che, quantomeno ove riguardi prestazioni principiali, la modifica unilaterale, se prima facie certamente incide sul contenuto del contratto (in particolare tramite l’aumento del prezzo del servizio), nondimeno essa produce una conseguenza giuridicamente del tutto distinta, in quanto tramuta di fatto il contratto da gratuito in oneroso.
In altri termini, lo “zero” esprime la gratuità della corrispondente prestazione – che quindi viene corrisposta da una parte in assenza di controprestazione (il corrispettivo) da parte del cliente – conferendo il tratto causale al negozio, e pertanto il suo aumento comporta non solo e semplicemente – come si evince in modo più immediato – un certo aggravio dei costi, ma anche – ed a prescindere dalla sussistenza di un giustificato motivo – il mutamento della causa del contratto, che da gratuito diventa oneroso, con ciò alterandone il synallagma[20].
Ecco che v’è da chiedersi, allora, se una tale modifica – e l’alterazione dell’originario quadro economico che produce – sia ugualmente ammissibile, comportando all’evidenza un mutamento tipologico del rapporto contrattuale, trasformando nella specie il servizio di gestione del conto da gratuito ad oneroso. Quesito niente affatto scontato a cui l’ABF, nella sua più autorevole espressione, ha da ultimo opportunamente ritenuto di fornire risposta negativa.
5. Sulla distinzione operata dal Tribunale tra servizio prestato e non prestato. L’affidamento del cliente
È in ultimo da notare che, a sostegno della propria decisione, il Tribunale di Milano richiama espressamente proprio quanto stabilito in materia dalla già menzionata pronuncia del Collegio di coordinamento dell’ABF n. 6781 del 3 luglio 2023, pur dichiarando tuttavia di aderire all’orientamento invece respinto da quel medesimo Collegio.
La contraddizione sarebbe però solo apparente, in quanto il Tribunale – da quanto si comprende dalla decisione – sembra delineare una distinzione, per vero non enunciata dal Collegio dell’ABF, nel senso che la modifica unilaterale di un costo inizialmente pari a zero sarebbe legittima solo ove il servizio che ne è oggetto sia effettivamente già prestato, mentre ove si tratti di un servizio non previsto originariamente nel regolamento contrattuale la modifica ex uno latere sarebbe senz’altro da escludere.
È agevole, tuttavia, rilevare l’inconsistenza del discrimen: è chiaro infatti che – come anche nel caso deciso dal Collegio di coordinamento richiamato dal Tribunale a sostegno dei propri argomenti – il servizio della cui modifica unilaterale si discuta debba necessariamente essere in un certo senso «già prestato» al cliente (nel caso presentato al Collegio dell’ABF, difatti, oggetto della modifica unilaterale era pur sempre il servizio di gestione informatico scelto in principio dal cliente, anche se in conseguenza dell’esercizio dello ius variandi parificato, quanto ai costi, al servizio di assistenza in filiale che invece era stato escluso dal cliente e dunque non era parte del regolamento contrattuale).
Diversamente ragionando, si sarebbe senz’altro fuori dal perimetro di competenza dell’art. 118 TUB, trattandosi al più dell’introduzione abusiva di una nuova prestazione contrattuale mediante il ricorso allo strumento dello ius variandi, come tale senz’altro inammissibile in quanto arbitrariamente modificativa dell’assetto concordato tra le parti ed impresso al rapporto già in essere.
Non v’è, in altri termini, spazio alcuno per la distinzione che sembra proporre il Tribunale nella decisione in esame: o la prestazione è già (prevista e) prestata dalla banca nel contratto – ed allora si potrà discutere, nel caso della sua originaria valorizzazione a zero, se la sua mera previsione giustifichi o meno (come invero qui si ritiene) la modifica unilaterale, secondo l’adesione all’uno od all’altro degli orientamenti delineati – oppure il servizio non è (previsto e) prestato dalla banca, ed in quel caso giammai quest’ultima potrebbe introdurlo mediante il ricorso al meccanismo di cui all’art. 118 TUB[21].
In tal caso, non saremmo evidentemente di fronte all’introduzione di un nuovo «costo» bensì all’introduzione di un nuovo servizio (a titolo oneroso) non previsto prima, che si pone quale inammissibile modifica dell’accordo delineato e sottoscritto tra le parti; essendo al riguardo vieppiù evidente che – come avvenuto nel caso deciso dal Collegio di coordinamento richiamato dal Tribunale – se la modifica proposta riguarda non già l’aumento di un costo collegato ad una prestazione già prevista, bensì l’introduzione di un costo non collegato ad alcun servizio, allora si appalesa che il costo è senz’altro «nuovo».
Per altro verso, oltre che sotto il profilo consumeristico e concorrenziale[22], la pubblicizzazione nel caso di specie (come in altri dei precedenti dell’ABF prima citati) del servizio come «gratuito per sempre» – fatto che il Tribunale ha ritenuto invece irrilevante, probabilmente in ragione della specifica domanda giudiziale proposta dall’attore – non è priva di rilevo in quanto esiste pur sempre un legittimo affidamento da parte del cliente che meriterebbe una certa tutela: nello specifico caso di clausole valorizzate a zero, merita di essere tutelata la fiducia circa il fatto che il contratto, ovvero una sua particolare prestazione, voluta espressamente in origine da entrambi i contraenti come gratuito per sempre, non muti in oneroso. In quest’ottica, a rilevare non è tanto un motivato o immotivato aggravio di spese a carico del cliente, bensì – ancora un volta – la trasformazione della natura del contratto ovvero di una sua prestazione, sulla quale il cliente ripone il proprio legittimo affidamento al momento in cui decide di sottoscriverlo.
6. Osservazioni conclusive
La decisione del Tribunale qui in commento – come detto, la prima, a quanto consta, assunta dal giudice ordinario in tema di legittimo esercizio dello ius variandi di clausole «valorizzate a zero» – si discosta, dunque, dell’orientamento dell’Arbitro Bancario e Finanziario che si è da ultimo venuto a consolidare con la (condivisibile) recente pronuncia del Collegio di coordinamento più volte quivi ricordata. Questa differenza di posizioni, ove in futuro confermata da ulteriori pronunce dei giudici di merito, potrebbe dar luogo a una vera e propria frattura tra la giurisprudenza ordinaria e l’Arbitro Bancario e Finanziario, in modo simile a quanto accaduto in passato con riferimento a questioni che hanno poi trovato una soluzione definitiva soltanto in seguito all’intervento delle Sezioni Unite[23]. Non senza ingenerare frattanto conseguenze evidentemente negative in termini di certezza del diritto e, dunque, di stabilità ed efficienza del sistema.
[1] L’attuale formulazione dell’art. 118 T.U.B. è il risultato di un lungo ed articolato processo normativo: per una ricostruzione dei profili evolutivi della disciplina dello ius variandi nei contratti bancari Mirone, La trasparenza bancaria, Padova, Cedam, 2012, 94 ss.; di recente Rotondo, La modifica unilaterale dei contratti bancari: profili evolutivi e ambito applicativo, in questa Rivista, 2023, III, p. 645 ss., cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti.
[2] La vicenda decisa dal Collegio di Coordinamento riguardava la clausola relativa al canone annuo di un conto corrente bancario originariamente “a zero”: in particolare, il ricorrente, in fase di sottoscrizione del contratto, aveva aderito all’opzione a canone zero, che gli consentiva di operare gratuitamente tramite servizio informatico, ma senza alcuna forma di assistenza in filiale, che invece era assicurata nella diversa opzione che prevedeva il pagamento di un canone annuo prestabilito. A fronte di tale scelta al momento di apertura del conto corrente, tuttavia, a distanza di tempo la banca inviava al cliente una prima proposta di modifica unilaterale, mediante la quale veniva introdotta una variazione in aumento del canone annuo; successivamente, a distanza di qualche anno dalla prima proposta, la banca interveniva con una seconda proposta di modifica unilaterale, che prevedeva un ulteriore aumento del canone. A fronte di tale ulteriore proposta, il cliente adiva l’Arbitro bancario, ritenendo illegittimo l’operato della banca sul presupposto che tali modifiche importassero l’inserimento di un nuovo costo al contratto, che dunque non poteva considerarsi consentito dalla normativa.
[3] Una vera e proprio funzione nomofilattica al Collegio di Coordinamento è riconosciuta da F. Sartori, Sulla portabilità dei servizi di pagamento: ambito oggettivo di applicazione e penali di legge, in Banca borsa tit. cred., 2022, I, p. 696, il quale reputa in generale l’ABF quale “formante” del diritto nel settore bancario; anche U. Morera, Il costo “zero”, lo ius variandi e l’arbitro bancario e finanziario, in Banca borsa tit. cred., 2023, I, 25.
[4] Il caso rimesso al giudice di Milano è peculiare anche per tale ragione: nella specie è l’istituto di credito stesso ad adire il giudice ordinario all’esito del giudizio promosso, vittoriosamente, dal cliente davanti all’ABF, ivi proponendo una domanda con cui si chiedeva il mero accertamento circa la legittimità o meno della modifica unilaterale operata dall’istituto.
[5] Così Coll. Milano, dec. n. 2670/2018 e 12448/2020; 12453/2020; Coll. Roma, dec. n. 15128/2020; Coll. Napoli, dec. n. 5299/2021; Coll. Roma, n. 1313/2023.
[6] Cfr. Coll. Bari, dec. n. 6519/2022; Coll. Bologna, decc. nn.7495/2022, 262/2023; 527/2023; Coll. Torino, dec. n. 16019/2022; successivamente ed in adesione alla pronuncia del Collegio di coordinamento, anche Coll. Roma, n. 9657/2023.
[7] In questo senso, Coll. di Milano, decisione n. 11292/2021; Coll. Bologna, dec. n. 14420/2019; Coll. Palermo, dec. n. 191/2023; 194/2023.
[8] Lo strumento dello ius variandi consente infatti di gestire al meglio le evoluzioni che possono incidere sul rapporto: si tratta, come attentamente rilevato da Benedetti, Il “ius variandi”, nei contratti bancari, esiste davvero? Appunti per una ricostruzione, in Banca borsa e titoli di credito, 5, 2018, p. 614, di un «potere dichiaratamente diseguale» che «nasce sulla diseguaglianza» e genera diseguaglianza, ma che la legge o il contratto assegnano alla parte meglio in grado di affrontare una sopravvenienza e di confezionare una nuova regola negoziale «utile per neutralizzare la sopravvenienza» e garantire la continuità del contratto.
[9] Per una prima casistica di possibile ricorso allo ius variandi Nivarra, Jus variandi del finanziatore e strumenti civilistici di controllo, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 463 ss., il quale puntualizza che l’istituto dello ius variandi non deve considerarsi alla stregua di un «odioso privilegio» riservato agli operatori del settore, quanto piuttosto «un utile, se non addirittura indispensabile strumento di governo del rapporto grazie al quale è possibile adattare quest’ultimo alle oscillazioni del mercato consentendone, in definitiva, la prosecuzione»; anche Sartori, Sul potere unilaterale di modificazione del rapporto contrattuale: riflessioni in margine all’art. 118 T.U.B., in Dolmetta, Sciarrone Alibrandi a cura di, Ius variandi bancario. Sviluppi normativi e diritto applicato, Milano, 2012, p. 127 ss., per il quale l’istituto appare efficiente altresì in quanto minimizza i costi della rinegoziazione dei termini dell’originario accordo; Roppo, Il contratto, Milano, 2011, 525-526, il quale rappresenta lo ius variandi come fenomeno «a due facce», al contempo strumento di possibile arbitrio e di possibile efficienza.
[10] Del resto, come puntualmente rileva Gaggero, La modificazione unilaterale dei contratti bancari, Padova, 1999, p. 412 ss., le speciali disposizioni in tema di ius variandi della banca «rappresentano il crocevia, il punto di incontro della disciplina di sistema, dell’impresa, dell’intermediario e del contratto, in cui si contemperano esigenze ed interessi disomogenei che si aggregano attorno al valore della stabilità». Sottolineano l’esigenza di garanzia della stabilità ed efficienza del sistema in ragione della funzione svolta dagli intermediari, tra gli altri, Majello, Commento sub art. 117, in Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di F. Belli, G. Contento, A. Patroni Griffi, M. Porzio, V. Santoro. Commentario. Bologna, 2003, pp. 1943 ss.; Scarpello, La modifica unilaterale del contratto, Padova, 2010, 262 ss.; Sangiovanni, Le modifiche unilaterali dei contratti bancari fra recenti riforme e decisioni dell’Arbitro bancario finanziario, in Obbligazioni e contratti, 2012, III, 211; Benedetti, Il “ius variandi”, nei contratti bancari, esiste davvero? Appunti per una ricostruzione, in Banca borsa e titoli di credito, 5, 2018, p. 620.
[11] L’opinione è senz’altro quella prevalente in dottrina: attribuiscono all’istituto carattere derogatorio ed eccezionale rispetto al principio della forza di legge del contratto e della vincolatività del consenso, riconducendolo al tema delle sopravvenienze, tra gli altri, Sciarrone Alibrandi, Mucciarone, La pluralità di normative di ius variandi nel T.U.B.: sistema e fratture, in A. Dolmetta, A. Sciarrone Alibrandi (a cura di), Ius variandi bancario. Sviluppi normativi e di diritto applicato, Vol. 36/2012, 59 ss.; Dolmetta, Linee evolutive di un ius variandi, in A. Dolmetta, A. Sciarrone Alibrandi (a cura di), Ius variandi bancario. Sviluppi normativi e di diritto applicato, Vol. 36/2012, 1 ss.; Sartori, sub art. 118, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da F. Capriglione, IV, Padova, Cedam, 2018, p. 1897.
Non ritiene invece «un fenomeno eccezionale» lo ius variandi della banca Morera, Il costo “zero”, lo ius variandi e l’arbitro bancario e finanziario, in Banca borsa tit. cred., 2023, I, p. 616 ss., secondo il quale, superata l’idea che il codice civile presupponga un modello egualitario, nonché «l’idea di un «primo contratto» tra eguali», lo stesso rappresenti «un normale strumento di gestione delle sopravvenienze»; in un certo senso anche Mirone, sub Art. 118, in Commento al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Concetto e Mirone, II, Torino, Giappichelli, 2024, p. 1796, per il quale «non appare convincente neanche una prospettiva eccessivamente rigida, particolarmente diffusa in dottrina, che ricostruisce l’istituto in chiave derogatoria ed eccezionale rispetto al principio della vincolatività del consenso contrattuale, inquadrando la norma all’interno della gestione delle sopravvenienze contrattuali e limitando, di conseguenza, il presupposto del giustificato motivo ad eventi non solamente sopravvenuti, ma anche imprevedibili al momento della stipulazione del contratto». V’è da notare peraltro che entrambi gli autori citati, con riguardo al tema della modifica unilaterale di clausole valorizzate a zero, esprimono un’opinione contraria rispetto alla decisione assunta dal Collegio di Coordinamento con la decisione di cui si dà conto nel testo.
[12] Il divieto di introduzione di «clausole nuove» è comunemente desunto dalla precisazione introdotta da legislatore al primo comma dell’art 118 TUB con il d.lgs. n. 11 del 2010: la novella del 2010 è infatti significativamente intervenuta sul testo della norma specificando che, oggetto della modifica, potevano essere, oltre ai tassi e prezzi, le altre condizioni «previste dal contratto», modificando dunque la precedente formulazione che invece faceva riferimento semplicemente alle altre condizioni «di contratto». Il legislatore ha così recepito l’idea, in precedenza peraltro non pacifica in dottrina, per cui il ius variandi sarebbe consentito esclusivamente su clausole contrattuali già previste in origine nel contratto, escludendo dunque l’introduzione di condizioni del tutto nuove.
Sul punto, anche il Ministero dello Sviluppo Economico, circolare n. 5574 del 21 febbraio 2007, che ha precisato che le modifiche considerate dal nuovo articolo 118 T.U.B. riguardando esclusivamente le fattispecie di variazioni previste dal contratto, con esclusione appunto della possibilità di introduzione di clausole ex novo; nello stesso senso anche la Banca d’Italia, nota n. 245941 del 13 ottobre 2014.
Su tali premesse si giustifica appunto l’orientamento consolidato dell’ABF di cui si dava conto nel testo: sul punto, tra i più recenti, v. Collegio di Coordinamento n. 26498/2018, in cui si specifica che, nei casi in cui l’intermediario invochi l’esercizio dello ius variandi ai sensi dell’art. 118 del T.U.B. e formalmente dichiari di avere solo proceduto alla modifica di una clausola già esistente, viene in rilievo la verifica dell’elemento di “novità” in relazione alla modifica apportata. V. altresì la decisione n. 1889/2016 del Collegio di Coordinamento, con cui l’ABF ha rilevato che lo scopo dello ius variandi è quello di conservare l’equilibrio (sinallagmatico) tra le singole prestazioni contrattuali, passando attraverso il mantenimento dell’equilibrio sinallagmatico dell’intero complesso delle prestazioni contrattuali, tipologicamente simili, effettuate dall’imprenditore nei confronti di un numero indefinito di controparti.
[13] È quanto sostenuto anche dal Collegio di Coordinamento con la citata decisione n. 6781/2023, il quale aveva concluso nel senso che la Banca non avrebbe potuto richiedere al cliente alcun corrispettivo per il canone, essendo stata in origine pattuita la totale gratuità dello stesso (essendo peraltro irrilevante – come pur eccepito in quella sede dall’intermediario – il fatto che la facoltà di modifica unilaterale delle condizioni economiche, espressamente contenuta nel contratto, era stata specificamente approvata dal cliente in conformità alla previsione di cui all’art. 1341 c.c. e che, accanto all’opzione senza assistenza, fosse effettivamente stabilito in contratto un costo per l’ipotesi in cui il cliente avesse optato per l’assistenza in filiale).
[14] L’introduzione all’art. 118 TUB del requisito del «giustificato motivo» che deve sorreggere la modifica unilaterale, dovuta al d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con la legge 4 agosto 2006, n. 248, ha certamente segnato una inversione rispetto al passato, ponendosi – in un’ottica di maggiore equilibrio della forza tra le parti – quale limite alla modifica unilaterale, in uno scenario in cui la banca aveva fino a quel momento facoltà di procedere ad libitum alla modifica unilaterale di qualsiasi condizione contrattuale (salva la relativa comunicazione al cliente). Sul rilievo della novella Mirone, sub Art. 118, in Commento al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Concetto e Mirone, II, Torino, Giappichelli, 2024, p. 1795, il quale, in disaccordo con quella parte della letteratura che ne riduce la portata innovativa evidenziando che già in precedenza un rimedio ai possibili comportamenti abusivi degli intermediari era rappresentato dalla clausola generale di buona fede, condivisibilmente sottolinea la differenza che pur sussiste tra la tutela concessa da quest’ultimo rimedio, operante quale limite esterno all’esercizio del diritto della banca la cui violazione deve essere provata dalla parte che subisce l’abuso, rispetto alla positivizzazione del giustificato motivo, che invece rappresenta un limite interno per l’intermediario, distinzione che può dare altresì conto del fatto che la giurisprudenza in questa materia non ha mai fatto uso della clausola di buona fede.
[15] Ritiene che il distinguo tra le due fattispecie (modifica legittima ovvero inammissibile introduzione di una clausola nuova) sia «estremamente sottile e labile» (rievocando, al riguardo, la vicenda innescata dall’art. 2-bis d.l. n. 185 del 2009 sull’obbligo di adeguamento dei contratti di affidamento alle nuove disposizioni in tema di commissione di massimo scoperto) Pagliantini, La nuova disciplina del cd. Ius variandi nei contratti bancari: prime note critiche, in I Contratti, 2011, II, p. 193, il quale attentamente segnala che la decisione dipende «dal modo in cui l’interprete è pronto ad intendere la ratio adeguatrice del cd. Ius variandi: se, in un’ottica di best costumer protection, nel senso di vincolarla allo stretto novero delle clausole figuranti nel contenuto formale del contratto ovvero come finalizzata ad assicurare una immodificabilità (in peius) del quantum di profitto (seu di remuneratività) originariamente convenutosi».
[16] L’esistenza di un interesse di natura economica di chi promette o presta senza corrispettivo, come la banca nel caso in esame, non altera il titolo dell’attribuzione, che rimane pur sempre — dal punto di vista della struttura dell’atto — gratuita; infatti, sebbene il rapporto esistente tra prestazione e vantaggio sia tale da configurare l’esistenza di un interesse economico anche nei confronti del soggetto che esegue la prestazione, quello che si verifica fra la prestazione effettuata ed il vantaggio conseguito non si può definire un rapporto di scambio, «poiché tale concetto postula che il sacrificio sia sopportato reciprocamente e la prestazione provenga dalle due parti» (così Manzini, Il contratto gratuito atipico, in Contr. Impr., 1986, p. 925). Il tema inerisce a quello delle prestazioni gratuite c.d. «interessate» – tradizionalmente oggetto della trattatistica classica (cfr. Pothier, Trattato delle obbligazioni, trad. it., Napoli, G.B. Seguin, 1819, I, n. 42) e già rappresentata nel nostro ordinamento da Gorla, Il contratto, I, Milano, Giuffrè, 1955, passim) – in quanto capaci di realizzare un vantaggio economico per il disponente. Si tratta di una fenomenologia eterogenea, in cui pur in assenza di corrispettività nel senso dell’ultrocitroque obligatio, non può agevolmente farsi ricondurre alla gratuità tipica intesa come pura liberalità: sul punto, la dottrina contemporanea ha mostrato di avere preso sempre maggiore coscienza in merito, ed è oramai prevalente – sulla scorta di una concezione di gratuità intesa come “corrispettività” – l’idea per cui «l’esistenza di un interesse di natura economica di chi promette o presta senza corrispettivo non altera il titolo dell’attribuzione, che rimane pur sempre – dal punto di vista della struttura dell’atto – gratuita» (cfr. Gigliotti, voce Contratto a titolo gratuito, in Enciclopedia del Diritto, Giuffré, 2021, p. 173).
Che la nozione di gratuità sia destinata ad assumere un significato tecnico rigoroso solo se accostata al binomio corrispettività-non corrispettività F. Gigliotti, voce Contratto a titolo gratuito, in Enciclopedia del Diritto, Giuffré, 2021, p. 176 ss., ove anche altri riferimenti, per il quale «il concetto di gratuità trova un solido punto di riferimento esclusivamente nell’assenza di una controprestazione, rimanendo per contro compatibile con la presenza di interessi altri, (anche) patrimoniali, del disponente» per cui «un atto è a titolo gratuito in quanto, strutturalmente, l’attribuzione patrimoniale nella quale esso si sostanzia non sia bilanciata da un corrispettivo in senso tecnico (cioè da una controprestazione, o prestazione principale, legata alla prima da un nesso di interdipendenza)». Pertanto, deve circoscriversi «l’area della gratuità, strettamente intesa, a quella delle attribuzioni negoziali senza corrispettivo (o, se si preferisce, senza una corrispondente prestazione principale a carico del beneficiario dell’attribuzione)» fermo poi che la gratuità «può avere luogo tanto per ragioni (oggettivate) di pura altruità — come nel modello esemplare delle attribuzioni “di cortesia”, quando esse attingano il livello negoziale (103) —, quanto, all’opposto, per ragioni di mero calcolo opportunistico, e dunque “egoistiche”, di chi effettua l’attribuzione senza ricevere un corrispettivo (ma, comunque, perseguendo un vantaggio o un interesse tutt’altro che generoso o altruistico). Benché nell’uno come nell’altro caso l’attribuzione patrimoniale sia egualmente da considerare (come effettuata) “a titolo gratuito”».
[17] Così, espressamente, il Collegio ABF di Napoli con la decisione n. 16575 del 30 dicembre 2022.
[18] Si è scritto infatti, Schlesinger, Poteri unilaterali di modificazione («ius variandi») del rapporto contrattuale, in Il contratto. Silloge in onore di Giorgio Oppo, 1992, I, 416, che «in qualsiasi figura di contratto, le parti possono convenire ab initio che ad una di esse vengano attribuite determinate facoltà di modificare il contenuto dell’accordo» e che tale tipo di accordi «appare pienamente conforme alla nozione di “autonomia contrattuale” che sta alla base del nostro sistema» per cui le parti «”possono liberamente determinare il contenuto del contratto” (art. 1322) e quindi ben possono “liberamente” accordare ad una di esse uno ius variandi».
[19] È noto che quella in esame – per la prima volta introdotta nel nostro ordinamento con la legge del 17 febbraio 1992, n. 154 – non è l’unica ipotesi nella quale una delle parti di un rapporto contrattuale può modificare in itinere l’assetto di interessi originariamente stabilito d’intesa con la controparte. Ad un esame delle diverse ipotesi di modifica unilaterale previste dal nostro codice – certamente eterogenee e per alcuni versi distinte dall’ipotesi prevista dall’art. 118 T.U.B. – la modifica unilaterale consentita riguarda pur sempre e solo elementi afferenti al contenuto-oggetto del contratto, non giungendo mai ad incidere sulla causa del rapporto: si vedano, ad esempio, le variazioni al progetto nel potere di modifica di cui all’art. 1661 c.c. (un analogo diritto è attribuito in materia di subfornitura all’impresa committente dall’art. 3, co. 5, l. n. 192/1998); anche la variazione del prezzo in ipotesi di aumento del costo dei materiali di cui all’art. 1664 c.c., il quale presuppone che la prestazione fosse già in origine a titolo oneroso; le variazioni che consentano al debitore di salvaguardare il bene del creditore da pregiudizi irreparabili, ratio che accomuna le previsioni di cui agli artt. 1577, 1711, 1685, 1686, 1770 c.c.; la variazione della somma assicurata di cui all’art. 1925 c.c.; o, ancora, al diritto di riscatto della rendita perpetua riconosciuto al debitore ex art. 1865 c.c. o alla facoltà di scelta attribuita ad una delle parti nelle obbligazioni alternative ex art. 1286 c.c.; per una disamina delle diverse ipotesi diffusamente Iorio, Le clausole attributive dello ius variandi, Milano, Giuffrè, 2008.
[20] Con riguardo alla inammissibilità di variazioni che incidano «in maniera sostanziale sull’equilibrio contrattuale, modificandone addirittura parzialmente la natura», si v. ABF, Collegio di Napoli, 28 aprile 2010, n. 300
[21] Che il meccanismo previsto dalla norma sia applicabile solo per le modifiche di condizioni già esistenti e non anche per l’introduzione di condizioni nuove è pacifico: in dottrina, tra gli altri, Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, p. 188; Mirone, La trasparenza bancaria, Padova, Cedam, 2012, p. 99.
[22] Sul punto, si veda già quanto stabilito dall’ AGCM con provvedimento n. 30239 del 12 luglio 2022, anch’essa intervenuta per quanto di competenza nella vicenda decisa dal Tribunale.
[23] Ci si riferisce, ad esempio, alla sentenza della Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 24675 del 19 ottobre 2017 in tema di usura sopravvenuta, a seguito del quale il Collegio di coordinamento dell’ABF, con la decisione n. 7440 del 5 aprile 2018, ha ritenuto di dover aderire alla posizione ivi assunta sul punto dalla Suprema Corte.