Mediante la sentenza de qua la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da alcuni piccoli azionisti di una società per azioni avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano che, confermando il provvedimento di primo grado, ha respinto la domanda di risarcimento del danno proposta da costoro nei confronti delle società azioniste di maggioranza della società e degli amministratori di queste ultime. In particolare, l’attenzione della Suprema Corte si è concentrata su due principali profili: (i) la delimitazione del perimetro applicativo del cd. “abuso di maggioranza”, nonché delle conseguenze sul piano giuridico dell’abuso ai danni degli azionisti di minoranza; (ii) la corretta interpretazione dell’art. 2426, comma 1, n. 4, c.c. in tema di criteri di valutazione delle immobilizzazioni consistenti in partecipazioni in imprese controllate o collegate, anche ai fini dell’eventuale responsabilità dell’organo amministrativo.
Con riguardo al primo profilo, la Corte ha ricordato in generale che“la violazione delle regole generali di buona fede e correttezza, che presiedono anche all’esplicarsi del principio di maggioranza nelle deliberazioni degli organi collegiali – il quale non opera senza limiti intrinseci, dovendo comunque la maggioranza operare nel rispetto dei diritti di tutti i soci – può condurre ad eccessi ed abusi di potere da parte del socio di maggioranza (o di chi abbia il relativo di voto [i.e., come nel caso di specie, il creditore pignoratizio]), suscettibili di integrare una causa, oltre che di annullabilità delle deliberazioni assembleare pur regolarmente adottate, del sorgere dell’obbligo di risarcire il danno cagionato agli azionisti di minoranza”. In tal caso – ha specificato la Corte – “la fattispecie comune si individua in una deviazione dagli scopi sociali, consistente nella fraudolenta attività della maggioranza volta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e dei connessi diritti patrimoniali spettanti ai singoli soci”. Richiamando le proprie precedenti pronunce sul punto, la Corte ha quindi chiarito che sono riconducibili alla categoria dell’abuso di maggioranza “le deliberazioni maggioritarie che modificano la preesistente struttura sociale, incidendo in modo diretto o indiretto sulla posizione dei singoli soci rispetto all’originaria configurazione della società”.
Per ciò che concerne la corretta interpretazione dei criteri posti dall’art. 2426 c.c. per la valutazione delle poste di bilancio, i ricorrenti hanno lamentato l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale laddove non ha riconosciuto l’obbligo per gli amministratori di operare la rivalutazione della partecipazione detenuta nella controllata secondo il valore effettivo, anziché secondo il metodo del patrimonio netto di cui all’art. 2426, comma 1, n. 4. Al riguardo, la Suprema Corte ha chiarito come dalla lettera della norma citata emerga in modo inequivoco la possibilità di valutare tali immobilizzazioni per un importo pari alla corrispondente frazione del patrimonio netto e ha sottolineato come, nel caso di opzione dell’organo amministrativo per tale criterio, lo stesso art. 2426, comma 1, n. 4, c.c. provveda a disporre l’obbligatoria costituzione un’apposita riserva non distribuibile, “sino a quando il maggior valore emerso per effetto della deroga [al criterio del costo d’acquisto] non abbia trovato effettiva realizzazione”; ciò, al fine di evitare il rischio che, in caso di valutazione della partecipazione con il criterio del netto, “si distribuisca ricchezza dal patrimonio della società, ed, in particolare, si distribuisca ricchezza tra i soci, impoverendo il patrimonio dell’ente e ponendo a repentaglio le ragioni dei creditori”. Alla luce di tale complessivo quadro, la scelta alternativa dei criteri di valutazione “risponde, pertanto, alla discrezionalità dell’organo amministrativo, ferma la cautela della appostazione della detta riserva non distribuibile”.