Con la pronuncia in rubrica (Tribunale di Roma, sent. 31 marzo 2017) il Tribunale di Roma rigetta l’impugnazione della delibera assembleare di srl da parte di due soci titolari congiuntamente di una quota del 43% avente ad oggetto l’azzeramento e il contestuale aumento del capitale sociale fino all’importo di Euro 500.000, rendendo oltremodo onerosa la sottoscrizione e il mantenimento della medesima quota di partecipazione.
Nel caso di specie gli attori lamentavano che la delibera in questione fosse adottata con abuso da parte del socio di maggioranza, allegando che: 1) l’aumento di capitale era stato deliberato nonostante la condizione di “inoperatività” della società; 2) non erano stati forniti ai soci di minoranza elementi da far presumere il prossimo avvio dell’attività; 3) le perdite poste a fondamento della situazione patrimoniale sulla cui base era stato deliberato l’aumento non erano veritiere.
Il Tribunale esamina, in via preliminare, l’eccezione di tardività dell’impugnazione sollevata dalla società convenuta con cui la medesima sosteneva che gli attori fossero decaduti dal diritto di impugnazione poiché la notificazione si era perfezionata nei confronti del destinatario convenuto soltanto dopo lo spirare dei 90 giorni previsti dall’art. 2479-ter c.c. Tale rilievo, precisa il giudice, non tiene in considerazione il principio c.d. di scissione degli effetti della notificazione in forza del quale la notificazione deve ritenersi perfezionata per l’attore al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario e per il destinatario al momento dell’effettiva ricezione della notifica (Cass. Civ., SS.UU., 17 maggio 2017, n. 12332).
Il giudice romano, venendo al merito della vicenda, compie un excursus teorico-ricostruttivo dell’istituto dell’abuso del diritto in ambito societario, precisando che non esiste una norma che identifichi espressamente una fattispecie di abuso nelle deliberazioni assembleari; tale fattispecie è tuttavia configurabile riferendola alla “regola” di maggioranza, per indicare un uso di tale regola non conforme a quei limiti alla sua applicazione che siano desumibili o da un principio implicito dell’ordinamento oppure da un enunciato normativo espresso ovvero ancora da una clausola generale. Il Tribunale, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale e dottrinale prevalente, individua quali presupposti normativi dell’abuso di maggioranza i principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) che, alla luce del riconoscimento della società come contratto, devono informare l’opera dei soci nell’esercizio in comune dell’attività economica. L’osservanza di tali principi non impone, secondo il giudice romano, alcun obbligo a contenuto specifico bensì costituisce un “limite esterno” all’esercizio di una pretesa; in altri termni “la regola di maggioranza prescrive al socio non di esercitare il diritto di voto in funzione di un predeterminato interesse, ma di esercitarlo liberamente e legittimamente per il perseguimento del proprio interesse fino al limite dell’altrui potenziale danno”.
Sulla base di tali principi, è da rilevare che l’abuso o eccesso di potere è causa di annullamento o invalidità delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società e costituisca una deviazione dell’atto dallo scopo economico-pratico del contratto di società, “per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale ovvero quando costituisca il portato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli”. Precisa, infine, il Tribunale che è onere precipuo della parte attorea non soltanto allegare i c.d. sintomi di illiceità della delibera, ma soprattutto dimostrare che i comportamenti del socio di maggioranza siano rispondenti ad un esercizio “fraudolento” del diritto di voto ovvero nella compressione degli altrui diritti in assenza di apprezzabile interesse del votante, non potendo essere considerata abusiva “la mera valutazione discrezionale – da parte del medesimo socio di maggioranza – dei propri interessi”.
A conclusione della vicenda giudiziaria in commento, il Tribunale ha ritenuto che l’inoperatività della società non costituisca un fatto sufficiente a far ritenere abusivo il comportamento del socio di maggioranza, ben potendo la deliberata ricapitalizzazione consentire la riattivazione dell’attività. Per quanto concerne, invece, le allegazioni in merito alla veridicità delle perdite rilevate a seguito dell’approvazione del bilancio e della situazione patrimoniale straordinaria ex art. 2482 c.c. nonché all’eccessiva entità dell’aumento del capitale deliberato, il giudice rileva l’estrema genericità delle contestazioni degli attori e l’insussistenza di elementi probatori sufficientemente precisi per dimostrare l’abuso del socio di maggioranza.