Il presente contributo si sofferma sul reato di abuso d’ufficio la cui abrogazione, prevista nel Disegno di Legge Nordio, verrà votata a breve dal Parlamento.
1. Il panorama storico-politico
È prossima al voto della Camera la norma del Disegno di Legge Nordio che abroga il reato di abuso d’ufficio, già approvata in via definitiva dalla Commissione Giustizia del Senato lo scorso 9 gennaio 2024.
Il Ministro della Giustizia aveva annunciato le sue intenzioni sin dall’insediamento a Palazzo Chigi, ponendo in cima all’agenda del Governo la riflessione sull’abuso d’ufficio e sulla sua utilità all’interno dell’ordinamento giuridico italiano.
Tra le alternative oggetto di proposta legislativa (riformulazione normativa, depenalizzazione e abrogazione) si è scelta quella più drastica: l’abolitio criminis. Taluni ritengono che l’intervento fosse necessario o, addirittura, dovuto. Altri, ritengono la mossa del Governo temeraria o, addirittura, incosciente.
Come noto, a guidare i cortei per l’abrogazione del reato sono sindaci e amministratori locali. Non vi è, per loro, orientamento politico che tenga. Da destra a sinistra, i sindaci chiedono che il Governo tiri fuori una legge che consenta loro di firmare senza che gli tremino le mani.
La riflessione sul punto è articolata e impone di mettere sul tavolo una serie di dati.
Partiamo dai numeri.
5418 sono i procedimenti penali iscritti in Italia nel 2021 per abuso d’ufficio. 44 le condanne emesse nello stesso anno in sede di udienza preliminare, di cui 35 con patteggiamento. 512 sono i procedimenti giunti a dibattimento. 18 quelli giunti a condanna in dibattimento. 4613 le archiviazioni. 256 le assoluzioni.
I dati statici disponibili mostrano – in altri termini – come la norma non stia effettivamente funzionando. Negli ultimi due anni di vita di questo reato, si stima addirittura che quasi otto denunce su dieci siano state archiviate.
Ai numeri si aggiunge, inoltre, un dato di fatto particolarmente frustrante: l’iscrizione di un procedimento e l’avvio di indagini sono di per sé in grado di generare enormi costi ed enormi danni, tanto al sistema giustizia quanto al pubblico funzionario indagato.
L’abuso d’ufficio, di fatto, mentre affolla gli uffici delle Procure e le aule di giustizia di notizie di reato infondate, dà il via al massacro – innanzitutto mediatico – del suo presunto autore, portando talvolta alle sue dimissioni, talvolta alla sospensione dall’incarico, talvolta a 56 udienze dinanzi ad un Collegio che, alla cinquantasettesima, pronuncia una sentenza di proscioglimento.
È, dunque, innegabile che la storia del reato in parola abbia restituito ai sindaci ragioni del tutto fondate per avanzare le istanze di cui oggi si discute. È altrettanto innegabile che – in un modo o nell’altro – sia necessario garantire a chi amministra la res publica uno spazio di manovra sicuro nel quale poter agevolmente e legittimamente esercitare poteri e funzioni.
Dall’altro lato, è miope la posizione di chi, puntando il dito contro l’abuso d’ufficio, addita questo reato come la causa di tutti i mali dell’amministrazione pubblica.
Sembra infatti che, allo stato, sia negletta dal dibattito politico una riflessione sulle leggi e sui regolamenti che disciplinano l’azione amministrativa: è in questa normativa che il pubblico ufficiale dovrebbe poter rinvenire sempre indicazioni precise su ciò egli è chiamato a fare, individuando anche tempi e modalità dell’esercizio delle proprie funzioni. Per l’effetto, è in questa normativa che il pubblico ufficiale deve poter rinvenire altresì la sua principale difesa contro quanti lo accusino di aver fatto un uso distorto dei propri poteri.
Come noto, tuttavia, le disposizioni che regolano l’attività della Pubblica Amministrazione non sono affatto connotate da quei livelli di chiarezza e precisione necessari perché il sindaco (o altro pubblico ufficiale) vi si possa utilmente aggrappare in caso di tempesta. È qui – nelle disposizioni oscure, nelle procedure incomplete e nelle prassi applicative – che ha origine la “burocrazia difensiva” che paralizza gli uffici pubblici.
È, dunque, essenziale che ogni intervento sull’abuso d’ufficio sia accompagnato da un puntuale intervento sulle disposizioni che regolano l’attività amministrativa, per non rischiare che la “coraggiosissima” scelta del Governo si riveli improduttiva degli effetti di mobilità ed efficienza della Pubblica Amministrazione (e dell’Italia stessa) desiderati.
Al di là dell’opportunità e dell’utilità della scelta legislativa a garantire la ripresa delle istituzioni e dell’economia del Bel paese, la più profonda riflessione va fatta sulle conseguenze della abolitio sulla tutela del privato cittadino.
La abrogazione dell’abuso d’ufficio creerà vuoti di tutela? Ad avviso del Ministro Nordio, la risposta è no. Secondo quanto da questi riferito, infatti, ogni abuso da parte di pubblici ufficiali e incaricati di pubblici servizi sarà sussumibile nelle ulteriori fattispecie di reato previste dal codice penale.
Ad onor del vero, non si comprende quali siano le norme incriminatrici che possano aver ingenerato nella maggioranza di Governo questa certezza.
Non si rinviene, innanzitutto, una norma in grado di abbracciare condotte di prevaricazione del pubblico ufficiale che non sfocino in una promessa o dazione di denaro, o di altra utilità, da parte del privato (in grado dunque di integrare la più grave fattispecie di concussione). Si pensi agli atti arbitrari posti in essere dall’agente di polizia nei confronti di un soggetto in stato di libertà, o all’illegittimo demansionamento di un medico da parte del primario di un ospedale.
È, a parere di chi scrive, l’impunità di questo tipo di abuso – l’abuso c.d. “di danno” – la conseguenza più preoccupante della riforma.
Nel panorama fin qui delineato si inserisce, placida, la proposta di direttiva “sulla lotta contro la corruzione” adottata lo scorso 3 maggio 2023 a Bruxelles.
La proposta contiene più obblighi di incriminazione, nel dichiarato intento di colpire un vasto numero di condotte – quali “conflitti di interesse non dichiarati e gravi violazioni di norme etiche” – potenzialmente foriere di prassi corruttive.
In particolar modo, l’art. 11 – rubricato “abuse of functions” – richiede agli stati membri di punire “as a criminal offence” la seguente condotta, quando posta in essere intenzionalmente: “the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the exercise of his functions for the purpose of obtaining an undue advantage for that official or for a third party”.
In sostanza, l’entrata in vigore della direttiva – così come attualmente formulata – imporrà agli Stati Membri di prevedere, nei propri ordinamenti interni, l’abuso d’ufficio c.d. “di vantaggio” e di sanzionarlo penalmente.
L’obbligo di incriminazione ha ad oggetto condotte quali favoritismi e sfruttamento di un interesse privato nel pubblico ufficio, parimenti a rischio di rimanere prive di tutela a seguito dell’abrogazione dell’art. 323 c.p., a meno che le stesse non presentino i caratteri tipici della corruzione o del peculato.
Ad ogni modo, si deve rilevare che non vi è nella legislazione italiana una norma che incrimini la condotta di abuso così come individuata dalla proposta di direttiva.
Fatto salvo ogni cambio di marcia su uno dei due fronti (europeo o statale), il rischio che la riforma Nordio conduca l’Italia all’apertura di una procedura di infrazione è, dunque, tutt’altro che remoto.
2. La storia del reato di abuso d’ufficio
Ricostruito in questo modo il contesto storico-politico in cui si inserisce il Disegno di Legge al vaglio della Camera, è utile procedere – pur rapidamente – ad una analisi della norma, nelle versioni che la medesima ha assunto sin dalla sua introduzione. Il tema è necessario al fine di comprendere le ragioni per cui la disposizione “vivente” non stia funzionando e per fornire qualche spunto di riflessione sul prossimo futuro.
La storia dell’abuso d’ufficio è la storia di una norma incriminatrice alla continua ricerca di una tipicità pressoché inafferrabile.
Nel codice Rocco, esso nasce come abuso “innominato”, ovvero come una fattispecie di reato che nella sua indeterminatezza rinveniva il proprio elemento distintivo e la propria ragion d’essere. Invero, la norma puniva il pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti le sue funzioni, poneva in essere “qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge” con il fine di recare a taluno un danno o di procurargli un vantaggio.
Sostanzialmente, un reato a forma non libera ma liberissima, potenzialmente suscettibile di attrarre un mare magnum di condotte poste in essere dai pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni. Nondimeno, l’abuso innominato era – sin dalla sua entrata in vigore – destinato ad avere scarsa applicazione. Esso infatti vedeva il proprio ambito di operatività limitato da due fattispecie oggi espunte dal codice penale: il peculato per distrazione e l’interesse privato in atti d’ufficio.
Successivamente, nel tentativo di “nominare” l’abuso e di disegnarne i contorni, la norma ha conosciuto tre diverse versioni.
Nel 1990, la disposizione fu rivista con il duplice fine di assicurare tutela alle condotte non più sussumibili nelle sopracitate fattispecie, ormai abrogate, e di definire meglio la condotta di abuso in conformità al principio di legalità e di offensività. In quest’ottica, si stabilì che – perché potesse ritenersi consumato il reato – tanto la condotta quanto il danno e/o il vantaggio dalla medesima prodotti dovessero potersi qualificare come “ingiusti” (c.d. doppia illiceità).
Già nel 1997 la norma fu oggetto di una rinnovata discussione, all’esito della quale si stabilì la previsione di ulteriori filtri selettivi. È in questa occasione che l’abuso d’ufficio assunse le forme della violazione di una legge o di un regolamento, o – in alternativa – dell’inosservanza di un obbligo di astensione. Perse inoltre rilevanza il vantaggio di natura non patrimoniale.
L’obiettivo del Legislatore di ricondurre la norma nell’alveo della legalità, fu successivamente frustrato da arresti giurisprudenziali che – per converso – hanno esteso considerevolmente l’ambito di operatività della norma. Emblematiche, in tal senso, le pronunce che hanno definito abuso d’ufficio tanto la violazione dei principi di buon andamento e di imparzialità della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione, quanto l’esercizio di potere, ancorché non in contrasto con le norme che lo regolamentano, “orientato alla realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è stato attribuito” (così le Sezioni Unite n. 155 del 29 settembre 2011).
Dopo l’intervento della Legge Severino nel 2012, che ha innalzato il limite edittale di pena originariamente previsto per l’abuso d’ufficio, la norma è stata investita da un nuovo – ed ingente – moto riformatore indotto dal blocco delle attività produttive causato dall’emergenza epidemiologica in atto a partire dai primi mesi del 2020.
Nel tentativo, da un lato, di dare vita ad una riforma in grado di fungere da controaltare alle mire espansionistiche del potere giudiziario, dall’altro, di “sbloccare” la pubblica amministrazione, il Legislatore del 2020 è andato oltre il segno.
L’ambito di operatività della fattispecie è, invero, risultato non ristretto ma del tutto schiacciato dalla novella legislativa. In breve, esso oggi coincide con casi esigui di a) esercizio intenzionalmente abusivo, da parte del pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio, di un potere non discrezionale previsto da una norma di legge o di b) omissione, da parte del medesimo soggetto, dell’obbligo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto.
Hanno dunque perso rilevanza penale la violazione di norme contenute in regolamenti e la violazione di norme che non disciplinino specificamente regole di condotta del pubblico agente. Non solo, l’abolitio criminis più significativa si è verificata in relazione alla violazione di norme da cui “residuino margini di discrezionalità”.
Sostanzialmente, la novella legislativa ha dato vita ad un nucleo intangibile di condotte dei pubblici ufficiali sottratte al sindacato del giudice penale. In questo modo, la riforma si è accartocciata su sé stessa ed ha finito con l’avere una portata annichilente.
Non ci si può, in effetti, esimere dal rilevare che – non di rado – è proprio nell’uso distorto di poteri discrezionali che si annidano gli abusi da parte del soggetto che di quei poteri dispone.
3. Conclusioni e proposte
L’abuso d’ufficio, in ogni tempo e luogo, è un reato che fa i conti con una disfunzione che è al medesimo congenita: la pretesa che lo stesso garantisca la tutela del privato cittadino contro (potenzialmente) ogni abuso dei poteri forti, avendo estrema cura di non sfociare in indebite ingerenze sui soggetti che esercitano detti poteri.
Per questa ragione, terreno fertile di scontro tra pubblica amministrazione e magistratura, il reato è – di anno in anno – definito dai rapporti tra potere esecutivo e potere giudiziario.
Tirando le fila del discorso, si deve concordare con l’attuale Governo quantomeno su un aspetto: nella sua attuale formulazione legislativa, l’art. 323 c.p. è una norma che non ha alcuna ragion d’essere. Allo stato, di fatto – essendo insuscettibile di applicazione – la norma fallisce nel tutelare i beni giuridici che ne giustificano la previsione.
Parimenti, è del tutto ragionevole la posizione di quanti – in primo luogo sindaci e amministratori locali – reclamino il libero esercizio delle proprie funzioni e denuncino l’ingiustificato accanimento della magistratura inquirente.
Tali considerazioni non bastano, tuttavia, a sostenere che la soluzione più opportuna sia la pura e semplice abrogazione della norma.
Le ragioni sono plurime. Una su tutte – nondimeno – merita particolare menzione: il pericolo, attuale e concreto, della creazione di un vuoto di tutela all’interno dell’ordinamento giuridico. D’altro canto, l’augurio è che il Governo abbia fatto una accurata analisi costi-benefici della sua riforma: sarebbe spiacevole rilevare che – pur sacrificando la tutela dei privati al punto tale da condannare l’abuso d’ufficio alla damnatio memorie – la pubblica amministrazione italiana ancora non raggiunga i livelli di efficienza tanto agognati. Si è già detto in apertura: è irrealistico rinvenire (quantomeno esclusivamente) nel diritto penale le cause della “paura della firma” e – di conseguenza – i rimedi per attenuarla.
Una possibile soluzione al problema potrebbe essere quella di sostituire l’abuso d’ufficio con l’introduzione di singole fattispecie dai contorni più nitidi e definiti.
In primo luogo, è necessaria una norma che punisca le condotte di prevaricazione – quali gli atti di vessazione o discriminazione – poste in essere intenzionalmente a danno del privato. Una simile fattispecie è prevista dal codice penale spagnolo (“prevaricaciòn administrativa”), nell’ambito del quale essa si caratterizza per l’assunzione da parte del pubblico ufficiale di una decisione arbitraria, in quanto contraria alle norme che disciplinano l’attività amministrativa e insuscettibile di alcuna interpretazione razionale che ne giustifichi l’adozione.
Invero, una proposta legislativa in tal senso è già stata elaborata nel 1996 dalla Commissione Morbidelli. Il progetto – sul quale, come autorevole dottrina non ha mancato di sottolineare, sarebbe utile incoraggiare una discussione – suggeriva lo spacchettamento dell’abuso d’ufficio in tre distinte fattispecie: prevaricazione (abuso di danno), favoritismo (abuso di vantaggio patrimoniale ad altri), sfruttamento privato dell’ufficio (abuso di vantaggio patrimoniale per il pubblico ufficiale medesimo).
Una simile riforma, includendo la previsione di fattispecie di abuso commesse a vantaggio del pubblico funzionario o di terzi, avrebbe altresì il pregio di evitare all’Italia una procedura di infrazione dinanzi alla Commissione Europea.
Lo “spacchettamento”, inoltre, potrebbe agevolare una definizione delle fattispecie più aderente ai principi di precisione e tassatività. Qualora utile a rasserenare gli animi, inoltre – seguendo la strada già tracciata da altri paesi europei – si potrebbe valutare di restringere la portata dell’abuso a specifici comparti regolativi di norme.
Con particolare riferimento alle condotte di favoritismo affaristico, viene in mente una speciale casistica di ipotesi delittuose che, abrogato l’abuso d’ufficio, rimarrebbero prive di tutela: i concorsi pubblici. La più recente giurisprudenza di legittimità ha infatti ribadito come il perimetro operativo della fattispecie di turbata libertà degli incanti di cui all’art. 353 c.p. sia limitato “alle sole procedure indette per la cessione di un bene ovvero per l’affidamento all’esterno della esecuzione di un’opera o della gestione di un servizio”, facendo dunque ricadere gli abusi commessi nell’ambito di concorsi per il reclutamento di personale pubblico nell’alveo dell’abuso d’ufficio.
Sempre dall’esperienza spagnola, potremmo allora importare l’ulteriore fattispecie che punisce l’intenzionale attribuzione di un incarico pubblico ad un soggetto privo dei requisiti stabiliti dalla legge per quell’incarico.
Sembra il caso di concludere con una breve considerazione, ancorché essa lasci il tempo che trova.
L’abuso d’ufficio, al pari di ogni altra fattispecie di reato prevista dal codice penale, non è uno strumento a disposizione degli inquirenti per insinuarsi nei pubblici uffici e andare alla ricerca di notizie reato.
L’auspicio è che la magistratura faccia buon uso degli strumenti da ultimo introdotti dalla riforma Cartabia – id est, il novellato art. 335 c.p.p. – e cestini le denunce di reato palesemente infondate, senza riservarsi di farlo dopo lunghi e ingiustificati tempi, una volta avvedutasi di non aver percepito odore di corruzione da nessuna parte.