Con la pronuncia in esame la Cassazione ha deciso il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna che, in parziale riforma della decisione assunta in primo grado, ha ritenuto i membri del consiglio di amministrazione di una società fallita colpevoli del reato di bancarotta.
Nell’esame dei numerosi motivi di impugnazione, i giudici di legittimità si sono soffermati con particolare attenzione su due questioni: (i) l’accertamento della sussistenza dei cd. vantaggi compensativi ai fini dell’esclusione della natura distrattiva di un determinato atto e (ii) l’individuazione del discrimen tra reato di bancarotta fraudolenta per distrazione e reato di bancarotta preferenziale, nell’ipotesi in cui un amministratore abbia disposto in proprio favore il pagamento di compensi, pur in assenza di specifica delibera societaria.
Quanto alla prima questione, la Corte di Cassazione ha in primis avallato la nozione di “gruppo” fornita dalla Corte d’Appello, confermandone la definizione quale “insieme di società che svolgono attività coordinate da una di esse” e ritenendo insufficiente ai fini della sua configurazione la presenza di rapporti tra due società “caratterizzati dalla mera coincidenza, su base familiare, nella proprietà di due società” (e ciò seppur l’attività di una delle società risulti in concreto funzionale a quella dell’altra).
Premessa tale considerazione di carattere generale, la sentenza in esame ha quindi affermato che, al pari di quanto è previsto dall’art. 2634 cod. civ. (dettato in materia di infedeltà patrimoniale, ma applicabile al reato di bancarotta – Cass. 5 giugno 2013, n. 49787), ai fini dell’applicabilità della disciplina dei cd. vantaggi compensativi infragruppo ai reati di bancarotta, deve accertarsi non solo l’esistenza di un beneficio di gruppo complessivamente inteso, ma anche l’idoneità di siffatto vantaggio a “compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi cagionati alla società fallita dalle operazioni, in modo che le stesse risultino non incidenti sulle ragioni dei creditori”.
In altre parole, per poterne escludere la rilevanza ai fini penali, la condotta posta in essere deve aver prodotto un beneficio, seppur indiretto, tale da far risultare dette operazioni in concreto ininfluenti nei confronti dei creditori. L’accertamento di un simile requisito ai fini dell’esclusione della rilevanza penale delle operazioni compiute risulta ancor più pregnante, beninteso, nell’ipotesi in cui la società che ha sofferto “gli effetti immediatamente negativi” sia poi fallita, come è in effetti accaduto nel caso di specie.
Quanto, poi, alla questione relativa alla condotta di un amministratore che abbia disposto in proprio favore il pagamento di compensi, pur in assenza della relativa delibera assembleare, la Corte di Cassazione si è limitata ad affermare, in continuità con la giurisprudenza di legittimità pregressa, che trattasi di reato di bancarotta preferenziale là ove il compenso corrisposto si riveli comunque “proporzionato alla qualità e alla quantità dell’attività prestata”; viceversa, l’amministratore risponde del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione ove sia accertata, “alla luce dell’indicazione di elementi concreti”, la incongruità del compenso prelevato dalle casse sociali. Pertanto, in assenza di un simile accertamento da parte della Corte di Appello di Bologna, ravvisata una carenza motivazionale sul punto, i giudici di legittimità non hanno che potuto accogliere il ricorso e rimettere la questione ad altra sezione della medesima Corte.